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Domenica, 13 Febbraio 2022 21:04

Per un bilancio sulla questione del male e del peccato originale (Marco Galloni) In evidenza

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La cosmogenesi proposta da Teilhard può dare un contributo importante – forse addirittura decisivo, definitivo! – alla riflessione sulla “giustificazione di Dio” dopo che, nel ‘900, le grandi teodicee del passato si sono infrante sugli orrori del secolo breve.

Tra le molte accuse rivolte a Teilhard de Chardin c’è quella di aver praticamente cancellato, con la sua visione evoluzionistica della creazione, il peccato originale dalla dottrina della Chiesa. Con questo intervento intendiamo mostrare che tale accusa non solo è del tutto infondata, ma che Teilhard ha fatto esattamente il contrario: ha esteso il concetto di peccato a tutta la creazione, al cosmo intero. Un’altra accusa ricorrente nei confronti del gesuita francese è quella di aver suggerito, con l’idea dell’universo convergente verso il Punto Omega, una prospettiva eccessivamente ottimistica sulla storia della salvezza, una sorta di apocatastasi in versione moderna: vedremo che anche questa accusa non ha fondamento. Ma cominciamo dal peccato originale.

Superare il geocentrismo, il fissismo e il monogenismo

Nel vasto e articolato complesso della produzione teorica di Teilhard – osserva Gianfilippo Giustozzi dell’Istituto Teologico Marchigiano – emerge costantemente la convinzione che i progressi delle scienze fisiche e naturali abbiano effetti decostruttivi sulle tradizionali rappresentazioni religiose, effetti che non riguardano soltanto il concetto di creazione o la cristologia, ma si estendono anche alla dottrina del peccato originale (1). Per Teilhard non è più possibile leggere queste rappresentazioni secondo paradigmi ispirati al geocentrismo, al fissismo e al monogenismo. Ostinarsi a farlo, attribuire per esempio un valore storico al racconto delle origini e della caduta, «significa porre i cattolici nella condizione di una malsana scissione psicologica e culturale» (2). In Comment je crois, il gesuita francese scrive che interpretare il racconto della caduta come la colpa storica commessa da un singolo uomo, attribuendo a tale colpa il potere di guastare non solo la vita umana ma addirittura quella dell’intero cosmo, poteva apparire plausibile a San Paolo e a uomini che credevano ancora «agli otto giorni della creazione, a un passato di 4000 anni […], agli astri come satelliti della terra, agli animali come servitori degli uomini» (3), ma certo non ai nostri contemporanei, consapevoli del fatto che dolore e morte sono presenti sulla terra ben da prima che Adamo fosse. Teilhard de Chardin, beninteso, non muove queste critiche per distruggere le tradizionali dottrine cristiane, in particolare quella sul peccato originale, ma – al contrario – perché intende rivitalizzarle, attualizzarle, renderle maggiormente comprensibili e accettabili dalla mentalità dell’uomo di oggi: «Per salvare il lato durevole del pensiero di S. Paolo» – scrive il gesuita – «è necessario sacrificare ciò che, nel suo linguaggio, è l’espressione delle idee di un Ebreo del primo secolo» (4).

L’inizio dei conflitti tra Teilhard e l’ufficialità della Chiesa

Alcuni accenni al problema del male e alla dottrina del peccato originale si trovano già in due scritti che Teilhard redige nel 1916, mentre è impegnato come barelliere sul fronte della prima guerra mondiale e infuria la terribile battaglia di Verdun, che dura 11 mesi e provoca quasi un milione di morti: si tratta di una breve nota aggiunta (in data 17 maggio 1916) al saggio La Vie cosmique e di un testo intitolato Le Christ dans la Matière. Trois histoires comme Benson (ottobre 1916). Per trovare contributi più specifici e meglio strutturati bisogna arrivare a luglio 1920 e all’aprile del 1922, quando Teilhard scrive – rispettivamente – i saggi Chute, Redemption et Géocentrie e Note sur quelques Représentations historiques possibles du Peché originel. Dal punto di vista teoretico i due saggi trattano argomenti molto simili, ma a raggiungere maggior notorietà è lo scritto del 1922, che Teilhard compone subito dopo la discussione della tesi di dottorato in scienze naturali, su richiesta del Padre Riedenger, un suo confratello belga. Questi due saggi, e in particolare il secondo, sono comunemente ritenuti la causa scatenante degli attriti tra Teilhard de Chardin e l’ufficialità ecclesiastica (5). In essi, il gesuita scienziato non nega affatto la realtà e l’universalità della condizione di fallimento esistenziale in cui vive l’uomo (com’è noto, sia in ebraico sia in greco il termine utilizzato per indicare il peccato significa “mancare il bersaglio”). Sostiene però che tale condizione non può essere la conseguenza di una colpa storica commessa da un non meglio precisato primo uomo. Le scoperte in campo paleoantropologico fatte all’epoca impedivano di pensare ancora in questi termini: il monogenismo non era più sostenibile. Ricordiamo per inciso che Teilhard scrive i due saggi in questione una decina di anni prima di prendere parte alle spedizioni che condurranno al ritrovamento del “sinanthropus pekinensis”, importante anello dell’evoluzione umana.

Allargare le nostre vedute sul peccato originale

Obbligare il credente ad accettare interpretazioni ormai insostenibili porta a diverse conseguenze, una più disastrosa dell’altra: o si rinuncia all’apporto delle scienze, sostenendo che Darwin ha sbagliato e che le teorie evolutive non vanno prese in considerazione; o si crede alla dottrina cristiana solo in virtù della sua dogmaticità, privandola così di buona parte della sua efficacia salvifica; oppure si sprofonda nella malattia mentale, nella schizofrenia. Come uscire dall’impasse? Secondo Teilhard occorre «far esplodere» l’individualità storica di Adamo, trasferire la dottrina del peccato originale dall’ambito etico-antropologico all’intero cosmo, «universalizzare il primo Adamo» (6). In questo modo «Adamo e gli effetti della sua colpa divengono il simbolo di un cosmo strutturalmente segnato, nella sua stessa costituzione ontologica, dalla precarietà, dal dolore, dal male» (7). Per il gesuita francese, insomma, il peccato originale non è l’infrazione di un determinato codice etico ma «simboleggia l’inevitabile possibilità del Male». Il pensiero di Teilhard incontra qui, almeno per certi aspetti, quello di Jacques Ellul, un giurista, sociologo e teologo francese che ha vissuto in prima persona molti dei più importanti avvenimenti del XX secolo. Scrive Ellul in Anarchia e cristianesimo: «Il peccato in realtà esiste nella relazione con Dio e non altrimenti. L’errore secolare della cristianità è stato di concepire il peccato come una colpa morale. […] Il peccato è la rottura con Dio e le conseguenze che ciò comporta». In questo senso potremmo dire che il peccato è, prima ancora che una colpa morale, una “pecca ontologica”, una carenza d’essere che affligge tutta la creazione per il fatto stesso di esistere, cioè di trovarsi in qualche maniera e misura in esilio da Dio: “ex-sistere” = essere nella realtà provenendo da un’origine (“ex”). Nel secondo dei due saggi sopra citati, quello del 1922, Teilhard lo dice in un modo che più esplicito non si può: «Occorre che allarghiamo a tal punto le nostre vedute sul peccato originale da non poterlo più collocare, attorno a noi, né qui, né là, e che sappiamo soltanto che esso è dappertutto, mescolato con l’essere del Mondo tanto quanto Dio che ci crea e il Verbo Incarnato che ci riscatta» (8). Questo è in piena sintonia con quanto dice Paolo in Rm 8,19-23: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio […]. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto…».

Salvare e consacrare la santa Materia

Come si vede, Teilhard non ha affatto cancellato il peccato originale: al contrario, l’ha esteso su scala universale, cosmica. Nello stesso tempo l’ha alleggerito, almeno in parte, di quel peso colpevolizzante che da sempre grava su di esso. La condizione di precarietà e fallimento in cui tutta la creazione geme sarebbe per così dire costitutiva dell’esistenza. Non che non esista la colpa morale, sia ben chiaro: ma essa dipende da quella condizione di imperfezione costitutiva, ne è la conseguenza e non la causa. Negli Écrits du Temps de la guerre (1916), Teilhard scrive: «Tutto ciò che è in divenire soffre o pecca. La verità sulla nostra situazione in questo Mondo è che vi siamo in croce» (9). E due anni più tardi, nel saggio Forma Christi redatto a Strasburgo fra il 4 novembre e il 13 dicembre 1918, il gesuita francese, nel descrivere il “doppio respiro dell’anima” (fedeltà al mondo, fedeltà a Cristo), arriva perfino a parlare di una colpa originale che ci impedirebbe di sognare seriamente «un’Umanità naturalmente casta e contemplativa, in cui gli individui nascerebbero quasi immediatamente maturi per “depersonalizzarsi” in Gesù Cristo» (10). Il doppio respiro dell’anima è un tema tipicamente teilhardiano; l’uomo è chiamato a queste due fedeltà: fedeltà al mondo e alla materia, fedeltà a Cristo. In Teilhard de Chardin non c’è ombra di “contemptus mundi”, di disprezzo per il mondo. Al contrario, nelle sue opere ritorna spesso l’esortazione a immergersi nel mondo, non per rimanerne prigionieri, ovviamente, ma per salvarlo: secondo Teilhard, Gesù «è venuto per salvare e consacrare la santa Materia» (11).

Il problema del male

Teilhard, dicevamo all’inizio, è stato accusato anche di aver proposto una soluzione eccessivamente ottimistica al problema del male. La sua visione di un universo convergente verso il Punto Omega sarebbe una sorta di riedizione dell’apocatastasi di Origene, dottrina dichiarata eretica dal Sinodo costantinopolitano nel 543 e poi dal Concilio di Costantinopoli II nel 553. Ma anche questa accusa non ha ragione d’esistere. Per anni Teilhard fu tormentato da angosciose domande sui destini dell’uomo. Il gesuita francese non ha mai dato per scontata la buona riuscita di questa immensa impresa che è la creazione, anche se alcuni suoi scritti – come il famoso passo di Mon Univers (1924) che vedremo fra breve – potrebbero far pensare il contrario. Tutto questo ci porta alla questione del male, che Paul Ricoeur definisce un problema immenso, «una sfida senza pari» sia per la filosofia sia per la teologia (12). Per Ricoeur, ciò che rende il male un enigma è il collocare sotto un medesimo termine fenomeni di per sé così diversi come il peccato, la sofferenza, la morte, la colpa, le malattie del corpo e dello spirito, il senso di indegnità personale, eccetera. Questi fenomeni, per giunta, travalicano spesso i confini che dovrebbero distinguerli l’uno dall’altro, generando ancora più smarrimento. Si pensi ad esempio alla confusione tra colpa e sofferenza: «poiché la punizione è una sofferenza ritenuta meritata» – si domanda Ricoeur – «chissà se ogni sofferenza non è, in un modo o nell’altro, la punizione per una colpa personale o collettiva, conosciuta o sconosciuta?». È questo, conclude il filosofo francese, che fa del male un unico enigma dal fondo tenebroso, mai completamente demitizzato (13).
Teilhard affronta la questione in modo semplice e nello stesso tempo rigoroso ed esaustivo: non si pone troppi problemi di confini o definizioni e classifica tutto ciò come Male, spesso scritto con la M maiuscola. Questo male è costituito in primo luogo da ciò che in Mon Univers il gesuita francese chiama «le servitù del Mondo – anzitutto quelle che c’intralciano, ci diminuiscono, ci uccidono – e che non sono né divine né in alcun modo volute da Dio. Rappresentano la parte d’incompiutezza e di disordine che guasta una creazione non ancora perfettamente unificata. E, in quanto tali, non piacciono a Dio; e Dio, in un primo tempo, lotta con noi (e in noi) contro di esse. Un giorno, Egli ne trionferà. Ma poiché la durata delle nostre esistenze individuali è senza proporzione con la lenta evoluzione del Cristo totale, è inevitabile che non possiamo vedere la vittoria finale, nel corso dei nostri giorni terrestri (…)» (14). Ecco, questo è un tipico passo teilhardiano che, soprattutto se estrapolato dal contesto e dal resto dell’opera del gesuita, potrebbe far pensare a un’apocatastasi data per certa, quindi all’eresia. Ma, ripetiamo, Teilhard de Chardin non dà mai per scontata la salvezza per tutti.

Comment je vois, la cosmogenesi secondo Teilhard

L’idea di un Dio che lotta contro le servitù del mondo ci porta ad affrontare un altro importante tema: quello della creazione e della teodicea. In un saggio del 1948 intitolato Comment je vois, Teilhard propone una cosmogenesi che ricorda per certi aspetti quella di Spinoza. Il gesuita di Sarcenat parte da una critica radicale alla metafisica classica. Teilhard ha una concezione dinamica dell’Essere: l’Essere è determinabile grazie a un movimento caratteristico che lui chiama «di unione». Non si tratta dell’Essere in sé, quello dei filosofi, immobile e bastante a se stesso, ma dell’Essere per sé, esistente solo in relazione all’unione con altri esseri. Non a caso quella di Teilhard è stata definita una «metafisica dell’unione». Dio esiste unendosi e unendosi si completa: Egli – dice il gesuita – «esiste opponendosi trinitariamente a se stesso». Questo movimento trinitario, che appartiene alla stessa natura divina, dà origine a un’altra specie di opposizione che sta agli antipodi dell’Essere Primo: il molteplice, che di per sé non è nulla ma che con la sua potenzialità d’essere è una possibilità cui Dio, per così dire, non può resistere. Ne consegue che l’universo esiste e non può non esistere: non è contingente, come pensa Tommaso d’Aquino, ma necessario, nel senso di inevitabile. Non sorprende che Comment je vois sia tra gli scritti maggiormente presi di mira dal Monitum del 30 giugno 1962: «Il Teilhard» – si legge nel testo del Sant’Uffizio – «ha delle espressioni che lasciano fondatamente credere che egli pensasse a una certa qual necessità della creazione».

La “creatio ex nihilo”

L’idea del Dio che crea opponendosi trinitariamente a se stesso dando così origine all’opposizione del molteplice, che potrebbe sembrare una delle stravaganze teologiche di cui Teilhard è stato accusato, ha in realtà salde fondamenta metafisiche e bibliche. La “creatio ex nihilo”, propriamente parlando, non va intesa nel senso di un universo che la potente mano di Dio tira fuori dal nulla come per magia. Questo è l’errore commesso anche da grandi pensatori come Heidegger e, per certi aspetti, da Luigi Pareyson, che accordano al nulla una preesistenza rispetto all’universo. In realtà il nulla, da non confondersi con il non-essere, non precede né cronologicamente né ontologicamente l’esistenza dell’universo ma ne fa parte, perché anche il nulla “è”, è qualcosa. La “creatio ex nihilo” va piuttosto compresa come relazione tra l’Essere, che è Dio, e il nulla, che fa parte di quel molteplice che con la sua potenzialità d’essere, come dice Teilhard, è una possibilità cui Dio sembra non poter resistere. Il gesuita di Sarcenat fa così saltare la metafisica tomista basata sulla “contingentia mundi”. Egli sembra quasi cercare di attenuare l’enormità delle sue affermazioni con questa immagine molto bella, poetica – Teilhard è stato anche un grandissimo poeta – del Dio che non sa resistere alla possibilità che il molteplice sia, un po’ come se la creazione fosse una piccola, incantevole debolezza di Dio.

La protesta del nulla

Ma, dicevamo, la visione teilhardiana ha anche solide basi bibliche. Israele arriva a concepire la “creatio ex nihilo” – un’esclusiva del pensiero giudaico cristiano: in quello greco non c’è – per via storico-soteriologica, non scientifico-astronomica, cioè riflettendo a posteriori in epoca relativamente recente, post-esilica, sulla storia di salvezza vissuta dal popolo eletto. Da uno sparuto gruppo di nomadi, schiavi e ingannatori – perché Israele prima di chiamarsi così si chiamava Giacobbe, che significa tallone, calcagno (“aqeb”) ma anche tallonatore, colui che incalza (“aqav”), che soppianta (per lo più in maniera improvvisa e sleale) – il popolo diventa il primogenito e l’eletto di Dio. Questa trasformazione non è affare di un attimo: è lunga, dolorosa, conflittuale. Tutta la storia di Israele – fatta eccezione per la parte finale, l’incarnazione del Verbo – non è che un’incessante, estenuante lotta con Dio al guado dello Iàbbok/Penuel. Se il movimento di opposizione trinitaria di cui parla Teilhard è di per sé armonioso, perfetto – è l’amore tra le Persone della Trinità immanente – quello tra Dio e il molteplice somiglia piuttosto a un combattimento senza esclusione di colpi. Per quale ragione? Semplicemente perché il nulla e il molteplice fanno il loro gioco, restano fedeli alla loro natura, si oppongono all’Essere. Il nulla, se possiamo dire così, non vuol essere, desidera solo rimanere se stesso, proprio non ci sta a partecipare al gioco di un Dio che, per un intollerabile arbitrio, fa essere le cose, le chiama all’esistenza. In letteratura troviamo diverse testimonianze di questo rifiuto dell’essere, di ciò che potremmo chiamare il rimpianto o la nostalgia del nulla. In un suo terribile aforisma, Emile Cioran scrive: «Il bambino dei vicini è nato da una settimana e non fa che piangere: la protesta del nulla cui è stata imposta l’esistenza». Ne L’ultimo viaggio, tratto dai Poemi conviviali di Giovanni Pascoli, la ninfa immortale Calipso vede approdare sulle rive dell’isola Ogigia il corpo esanime di Ulisse, lo abbraccia e piange così l’eroe greco un tempo amato: «Non esser mai! non esser mai! più nulla, ma meno morte, che non esser più!» (15). E non si pensi che il rimpianto del nulla sia una prerogativa del pensiero ateo o pagano. Lo si trova anche nella Bibbia, per esempio nel Qoelet: «Tornai poi a considerare tutte le oppressioni che si fanno sotto il sole. Ecco le lacrime degli oppressi e non c’è chi li consoli (…). Allora ho proclamato felici i morti, ormai trapassati, più dei viventi che sono ancora in vita; ma più felice degli uni e degli altri chi ancora non esiste, e non ha visto le azioni malvagie che si fanno sotto il sole» (Qo 4,1-3). Al culmine delle sue sofferenze, Giobbe esclama: «Perisca il giorno in cui nacqui, e la notte in cui si disse: “È stato concepito un uomo!”» (Gb 3,3). Lo stesso fa il mite Geremia, che vive male la sua vocazione di profeta e le molte persecuzioni sofferte per rimanervi fedele (“tu mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre”): «Maledetto il giorno in cui nacqui; il giorno in cui mia madre mi diede alla luce non sia mai benedetto. Maledetto l’uomo che portò a mio padre il lieto annuncio: “Ti è nato un figlio maschio”, e lo colmò di gioia» (Ger 20,14-15).

La crisi delle grandi teodicee

La cosmogenesi proposta da Teilhard può dare un contributo importante – forse addirittura decisivo, definitivo! – alla riflessione sulla “giustificazione di Dio” dopo che, nel ‘900, le grandi teodicee del passato – quella di Agostino, di Leibniz, di Kant, di Hegel… – si sono infrante sugli orrori del secolo breve: sulla prima e sulla seconda guerra mondiale, su Auschwitz e sui gulag di Stalin, sui campi di sterminio di Pol Pot, sulla Bosnia… Scrive il teologo Paolo De Benedetti: «I rassicuranti orizzonti metafisici di un Leibniz, di uno Hegel, anche di un Tommaso d’Aquino, di un Agostino, di un Concilio Vaticano I, sono svaniti come un miraggio davanti alle esperienze che hanno polverizzato i loro maestosi edifici della teodicea, della teologia razionale, della apologetica, del trattato De Deo: e la polvere è salita fino a oscurare Dio. Quando si è presa coscienza di questa rovina, il problema del male è apparso in tutta la sua rinnovata e inviolata grandezza» (16). Per questo alcuni grandi filosofi e teologi, nel XX secolo, hanno cercato di affrontare il problema del male pensandolo altrimenti, diversamente. Luigi Pareyson e Paul Tillich, per esempio, sono giunti a collocare il male in Dio, non perché Dio sia l’autore del male, intendiamoci, ma nel seguente senso: o il male, come pensa Pareyson, è vinto in origine dalla positività divina ma rimane comunque presente in Dio come possibilità che l’uomo, con il suo peccato, continuamente ridesta (17); oppure, come scrive Tillich, «se non v’è, in aggiunta a Lui, un principio negativo che possa spiegare il male e il peccato, come si può evitare di postulare in Dio stesso una negatività dialettica?» (18). Un altro importante tentativo di superare il carattere aporetico della riflessione sul male è la cosiddetta “teologia spezzata” di Karl Barth, cioè una teologia che abbia rinunciato alla totalizzazione sistematica e alla logica della non-contraddizione: solo questa, secondo il grande teologo protestante, può impegnarsi nella temibile via di pensare il male.
Teilhard segue un’altra via. Innanzitutto si guarda bene dal porre il male in Dio, come fanno invece Pareyson e Tillich: nel già citato passo di Mon Univers dice chiaramente che le servitù del Mondo non sono né divine né in alcun modo volute da Dio e che Dio lotta contro queste servitù, finché un bel giorno – un giorno lontano, lontanissimo – trionferà su di esse. Poi, con l’idea di un universo non contingente ma necessario, assolve Dio con formula piena: Dio è davvero del tutto innocente. Non lo si può neanche accusare di aver voluto creare l’universo, come fanno neanche tanto velatamente Geremia e Giobbe. L’universo – con il suo carico di dolore, sofferenza e morte – esiste inevitabilmente e Dio sta cercando di salvarlo, di invaderlo con la pienezza del suo Essere. Creazione e redenzione vengono così a coincidere, sono di fatto la medesima azione divina: ecco la teodicea perfetta di Pierre Teilhard de Chardin!

Pregare per tutti

Concludiamo tornando per un attimo sulla apocatastasi. Si è già detto che Teilhard non dà mai per certa la salvezza universale, quindi non cade nell’eresia. La condanna della apocatastasi, infatti, non riguarda tanto la dottrina in sé quanto «l’affermazione positivamente sicura» di una riconciliazione universale, come recita il Dizionario di teologia di Rahner e Vorgrimler (19). Lo stesso Origene, considerato il padre di questa dottrina, la presenta più come una speranza che come una certezza (20). Noi credenti, però, non possiamo rimanere passivi ad aspettare. Dobbiamo darci da fare, trafficare i talenti ricevuti, sperare e pregare per tutti, «anche per i serpenti, anche per i demoni», come diceva quell’origenista di sant’Isacco il Siro, un mistico amato anche da Dostoevskij e dal musicista Franco Battiato. Sperare e pregare per l’intera creazione, affinché Dio possa davvero essere, un giorno, «tutto in tutti» (1Cor 15,28).

Marco Galloni

Note

1) Cfr. G. GIUSTOZZI, Pierre Teilhard de Chardin: Geobiologia, geotecnica, neo-cristianesimo, Edizioni Studium, Roma, 2016, cap. III.3.

2) Ibidem.

3) P. TEILHARD DE CHARDIN, Chute, Redemption et Géocentrie, in Oeuvres Complètes, 10: Comment je crois, pp. 49-57.

4) Ibidem.

5) G. GIUSTOZZI, op. cit., cap. III.3.

6) P. TEILHARD DE CHARDIN, Chute, Redemption et Géocentrie, in Oeuvres Complètes, 10: Comment je crois, pp. 49-57.

7) G. GIUSTOZZI, op. cit., cap. III.3.

8) P. TEILHARD DE CHARDIN, Note sur quelques Représentations historique possibles du Peché originel, in Oeuvres Complètes, 10: Comment je crois, pp. 61-70.

9) P. TEILHARD DE CHARDIN, Écrits du Temps de la guerre, La Vie cosmique, Nieuport, 24 marzo 1916, pp. 55-57.

10) P. TEILHARD DE CHARDIN, Forma Christi, in L’uomo, l’universo e Cristo, ed. Jaca Book, Milano, 2012, p. 63.

11) P. TEILHARD DE CHARDIN, L’Ambiente divino, tr. it., Queriniana, Brescia, 1994, pp. 78ss.

12) P. RICOEUR, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, trad. it., Editrice Morcelliana, 2007, Brescia, p. 7.

13) Ivi, pp. 11 – 15.

14) P. TEILHARD DE CHARDIN, Science et Christ. Mon Univers in Oeuvres de P. Teilhard de Chardin, t. IX, Éditions du Seuil, Parigi, pp. 100 – 102.

15) G. PASCOLI, Poemi conviviali. L’ultimo viaggio di Ulisse in Opere, a cura di G. Contini, Mondadori, Milano, 1974.

16) P. DE BENEDETTI, In margine a Ricoeur. Sul male dopo Auscwitz, postfazione a Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia di P. Ricoeur, trad. it., Editrice Morcelliana, 2007, Brescia, p. 60.

17) L. PAREYSON, La filosofia e il problema del male in Annuario Filosofico 2, U. Mursia editore, 1987, Milano, pp. 30-31.

18) P. TILLICH, Il demoniaco, tr. It. a cura di Luca Crescenzi, Edizioni ETS, 2018, Pisa.

19) K. RAHNER – H. VORGRIMLER, Dizionario di teologia, trad. it., Editori Associati (TEA), 1994, Milano, pp. 36-37.

20) ORIGENE, De Principiis, II, 3; V, 6, ecc.; In Rom., V, 3.

(Conferenza tenuta durante il convegno Una lettura del covid-19 alla luce del pensiero teologico e scientifico di Teilhard de Chardin - 6-7 novembre a Roma, presso l’Istituto Seraphicum)

 

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Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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