Nessuno di noi può affermare di esserne indenne. Questa cultura ce la portiamo addosso, scorre nelle nostre vene, su di essa costruiamo i nostri interessi economici ed il nostro modo di porci in relazione con il mondo.
Per promuovere una cultura della pace non sono sufficienti gli slogan o le illusioni del momento. Bisogna misurarsi con le paure che s’annidano nell’animo di ciascuna persona e cercare di dare loro una risposta ed un senso. C'è bisogno di tempo, tantissimo tempo - e di una opera radicale che ci faccia capire la necessità di radicare nella nostra vita la dimensione della convivialità. Anzi, dovremmo dire: una dimensione un po' più femminile della convivenza umana.
Non si tratta, come alcuni affermano, di muoversi nella prospettiva rousseauiana del mitico buon selvaggio, ma di rispondere all’appello evangelico che chiede a ciascuna persona capace d’ascoltare la voce del suo cuore di intessere nuovi rapporti ed intraprendere un nuovo modo di vivere.
Non c'è guerra (e non c'è vittoria militare) senza menzogna. Se la guerra si fonda sulla dimensione dell'inganno diventa urgente promuovere una prospettiva di trasparenza e di sincerità nelle relazioni interumane. Ciò che noi conosciamo non ci incute paura. La trasparenza nelle nostre relazioni umane cancella intorno a noi gli oscuri contorni della paura. Il nemico (hostes) cessa di essere tale nel momento in cui lo lascio entrare in casa mia e diventa mio ospite (hospes).
Compito di ogni uomo di buona volontà è quello di smascherare l'inganno della menzogna che si manifesta nella guerra. Ed ancor di più, il fatto che la menzogna porta necessariamente al conflitto e alla guerra.