In un articolo pubblicato su Concilium 5/2017, numero monografico dedicato alla letteratura, alla poesia e alla teologia, la teologa Ursula King scrive che «pur non trattandosi di poesia in senso formale, i saggi [di Teilhard] possiedono grande qualità poetica e bellezza lirica, soprattutto nell’originale francese». La vena poetica di Teilhard de Chardin comincia a emergere molto presto, ma trova piena espressione durante la Grande Guerra, in «una serie di potenti scritti lirici lasciati come “testamento”» nel caso l’autore fosse caduto sul campo di battaglia. Secondo Claude Cuénot, considerato il biografo ufficiale di Teilhard, la qualità lirica di quegli scritti di guerra è tale da porli «a pari merito con la più fine poesia religiosa al mondo».
Quell’emozione che rende poetici i personaggi della Bibbia
Questo crea un forte legame tra Teilhard de Chardin e alcuni personaggi della Bibbia, che diventano poetici quando sono colmati, sopraffatti dall’emozione, come doveva esserlo il gesuita francese mentre, in qualità di barelliere dell’esercito, raccoglieva i feriti dilaniati dalle bombe. Pensiamo per esempio al grido di Adamo al risveglio dal torpore (tardemah) che Dio ha fatto scendere su di lui per togliergli la costola con cui plasmare la donna (Gen 2,21-22). Alla lettera, il testo recita così: «Questa qui, questa volta, osso dalle mie ossa/e carne dalla mia carne, a questa qui sarà gridato donna – ’ishshâh/poiché da uomo – ’îsh è stata presa questa qui!». Adamo si esprime in forma poetica secondo il parallelismo semantico del “direi di più” (J.-P. Sonnet): «Osso dalle mie ossa/[direi di più] carne dalla mia carne». Notare per inciso che per tre volte l’uomo chiama la donna “questa qui”, segno di un accesso incompiuto al dialogo; la donna non è ancora un “tu” con cui relazionarsi.
Altro esempio di poesia suscitata da un sovrappiù di emozione è il Cantico di Anna, che la madre di Samuele eleva a Dio quando, da sterile, riceve in dono un figlio (1Sam 2,1-10): «Il mio cuore esulta nel Signore, la mia fronte si innalza grazie al mio Dio. Si apre la mia bocca contro i miei nemici, perché io godo del beneficio che mi hai concesso (…)». L’onda poetica del Cantico di Anna – un’onda lunga, come quelle dello tsunami – ci porta verso un altro magnifico canto dell’Antico Testamento, quello che Davide, riconoscente, rivolge al Signore per averlo liberato dai nemici (2Sam 22,2-51): «Il Signore è la mia roccia, la mia fortezza, il mio liberatore; il mio Dio, la mia rupe in cui mi rifugio, il mio scudo, il mio potente salvatore (…)». Il biblista olandese Jan P. Fokkelman fa notare che «circa 70 delle 113 asserzioni [del Cantico di Anna] sono riprese da parole che si troveranno poi anche nella grande composizione di Davide».
Il potere performativo della parola
In realtà Adamo è poeta già prima del grido di stupore che lancia quando vede la donna: in Gen 2,20 impone nomi a tutti gli animali, prolungando così l’opera della creazione e sperimentando il dominio mite e il potere performativo della parola. I poeti fanno proprio questo: creano la realtà con le loro parole. Dio, il poeta più grande di tutti, crea il mondo con la sua Parola, con il suo Logos. Nel prologo del Vangelo di Giovanni troviamo il termine greco Logos perché i Vangeli sono scritti in greco koinè, il greco popolare, ma dietro c’è il concetto ebraico di dabàr (o davàr), la parola/evento che compie ciò che dice. Non dobbiamo intellettualizzare, ellenizzare troppo il termine Logos. Il Logos giovanneo non è mera efficacia operativa che crea un universo meccanicistico, un immenso congegno cosmico indifferente al destino dell’uomo e delle creature, ma è in primo luogo Sapienza, senso, profonda conoscenza e comprensione delle cose.
Una voce di silenzio sottile
La parola divina è diversa dalle parole umane. È parola ma è nello stesso tempo silenzio, perché se fosse soltanto parola si imporrebbe sull’uomo, il suo non sarebbe un dominio mite ma dispotico; se d’altra parte fosse solo silenzio, non avrebbe il potere di creare l’uomo e di salvarlo dalla condizione entropica del nulla e dell’indifferenziato. Questa è l’esperienza di Elia sull’Oreb (1Re 19,12): a un certo punto il profeta deve constatare che il Signore non è nel vento impetuoso, non è nel terremoto e neanche nel fuoco, ma è «qôl demamah daqqah», espressione che alla lettera si può tradurre come «una voce di silenzio sottile». Dio è sì una voce – afferma il Pontificio Consiglio della Cultura – «ma che ha il suo vertice nel silenzio, nel mistero». Elia vive una profonda esperienza mistica che lo rilancia nella «sua missione di giustizia e di verità» e gli permette di ritrovare «la sorgente della vera parola che giudica e che salva» (PCC). La mistica pone l’uomo davanti al nudo essere, all’Essere, all’«Io sono colui che sono» di Esodo 3,14, all’«Io sono» del Vangelo di Giovanni, all’«Ipsum esse subsistens» dal quale tutto ciò che esiste proviene e al quale – questa è la speranza cristiana – tutto tornerà. Tale visione è in accordo sia con l’idea teilhardiana del Punto Omega che crea il mondo dal futuro attirandolo verso la pienezza d’Essere, sia con l’esperienza dei poeti, che molto hanno in comune con i mistici: non si può essere poeti se non si è in qualche misura dei mistici. Non per niente una grande poetessa russa, Marina Cvetaeva, ci ha lasciato una definizione della poesia che il compianto Franco Loi riteneva decisiva: «La poesia è qualcosa, o qualcuno, che dentro di noi vuole disperatamente essere».
Marco Galloni