Da alcune settimane, alle ore 18,00, in questi giorni d'epidemia da coronavirus, il capo del Dipartimento della Protezione Civile dà i numeri. Sono i dati relativi ai nuovi contagi, ai morti, ai guariti, al totale degli infetti… Si ragiona rispetto ai numeri forniti nei giorni precedenti, se la situazione è stabile oppure se ci sono incrementi, diminuzioni, ecc. Come se fosse, in qualche modo, una lezione di statistica.
In principio fu il codice fiscale. Un sistema alfanumerico per individuare ciascun cittadino in maniera univoca. Sappiamo bene che l'informatica funziona tramite il sistema binario: un mondo di codici, algoritmi, funzioni matematiche, dati, ecc. E quest'universo matematico si è gradualmente trasferito nella nostra vita quotidiana. Ci avvolge ed ha bisogno di esprimersi in numeri e per macroaggregazioni. È fatto di dati comuni, aggregabili e analizzabili. La singolarità non è prevista, se non per casi eccezionali e sintomatici. Una vasta rete informatica analizza i nostri comportamenti, i nostri gusti, i nostri orientamenti politici, gli acquisti che facciamo, la musica che ascoltiamo, i libri che leggiamo, i viaggi che facciamo, ecc. Tutti questi dati sono utilizzati dall'onnipresente mondo economico e finanziario, per orientare i nostri consumi e, in fondo, la nostra stessa vita.
In quest'universo informatico non si è più considerati come individui portatori di una propria personalità, ma consumatori abbinati a dati da raccogliere e analizzare. Siamo diventati semplici numeri. Di volta in volta rilevati attraverso una qualche macroaggregazione: clienti, esuberi, partite IVA, contagiati, morti del giorno, fan, eccedenti, spettatori… Si rientra in statistiche. Il reale ci viene fornito attraverso il sondaggio quotidiano (1). Gran parte della nostra comunicazione si gioca ormai sul numero dei like e degli smile raccolti. Si ragiona in termini di quantità e quasi mai per qualità.
Lo stato d'eccezione prodotto dal contagio del coronavirus – soprattutto attraverso il continuo dispiegarsi di morti vissute nella solitudine e nell'abbandono affettivo – sta evidenziando le contraddizioni di questa bolla informatica con cui abbiamo avvolto le nostre esistenze. Possiamo continuare a lasciarci considerare dei semplici numeri?
Noi siamo nomi e volti. Noi siamo storie. Nessun numero riesce a descrivere – seppur lontanamente – quello che siamo. Accettare questo anominato numerico da formicaio (2) o da sciame (3) non significa forse abdicare alla nostra esperienza umana per un'animalità insignificante, mercificata ed intercambiabile?
Noi siamo nomi. Da un punto di vista biblico il nome è la persona. Non è un’etichetta, una sorta di tagliando abbinato ad un oggetto per rendere possibile la sua identificazione. Il nome non racchiude soltanto uno (o più) significati, ma ci svela quello che la persona è. Conoscere il nome di una persona è molto più che chiamare sasso un sasso e pane il pane. Il nome implica relazione – un Tu.
Il nome non può essere sostituito da una sigla o da un codice. Il codice fiscale è indicativo di una persona, ma non è significativo da un punto di vista esistenziale. Semplifica il lavoro delle macchine poiché è univoco, ma si tratta di un'univocità tecnica, virtuale. Mentre il nome resta proprio, anche se comune a più persone.
Il nome, in un certo senso, ci costituisce. Entra a far parte della nostra personalità e contribuisce in maniera significativa alla sua costruzione. Cambiare nome non è solo un semplice atto anagrafico, ma comporta l'abbandono di qualcosa che è in noi, per intraprendere un nuovo percorso.
A Gerusalemme il Yad Vashem (letteralmente un monumento [yad] e un nome [shem]) (4) è un complesso monumentale che ha come scopo la preservazione della memoria dei sei milioni di vittime della Shoa. Ricordare i nomi… dall'oblio e dalla negazione.
Noi siamo volti. Senza un volto il nome resta, per così dire, anonimo. Quanti sono i volti che incontriamo nell’arco della nostra esistenza? È forse impossibile calcolarne il numero. Ma alcuni di essi ci sono cari. Hanno abitato e continuano ad abitare i nostri giorni. Non sono molti, ma sono per noi quelli significativi. La memoria ne trattiene pochi. Ancora di meno da quando ci sono le fotografie, fittizio ausilio per le nostre dimenticanze.
Ma nel tempo dell’immagine ogni volto rischia di cadere nell’insignificanza e nella pronta sostituibilità. L’età della riproducibilità tecnica, alla fine, ci consegna all’anonimato del formicaio. Non ce ne rendiamo conto. Eppure, la nostra esistenza ha bisogno dei volti. Volti reali. Fatti di carne. Sorridenti o tristi, pensierosi o dubbiosi, innamorati o carichi di sdegno, timorosi o aperti alla speranza… Non volti virtuali, fermati nell’istante e che non ci comunicano il mistero ed il piacere della prossimità.
Hanno scritto che guardare una persona nel volto – guardarne gli occhi – trattiene dal compiere l’estremo gesto dell’omicidio. Potenza del volto! Ma, al tempo stesso, dobbiamo fare i conti con i nostri stereotipi culturali. Diciamo, infatti, che tutti i cinesi sono uguali (o tutti gli africani…) negandoci così ad una prossimità che implica il riconoscimento delle diversità. Ma il riconoscimento di un volto non può essere dato soltanto dalla familiarità e dalla frequenza. I volti degli altri rappresentano lo specchio di quello che siamo. Un numero limitato di volti ci restituisce la povertà costitutiva del nostro essere. C'ingabbia in un’esistenza individualistica, avara.
Il volto ci si offre originariamente. Non ha bisogno di mediazioni, di maschere, per svelarsi per quello che è. La persona, sì, è maschera, ma il volto ci disvela. Noi siamo volti, bisognosi d'incontrare perennemente altri volti. In questi giorni di forzato isolamento avvertiamo la radicalità di questo nostro bisogno.
Noi siamo storie. Tutta la nostra vita si dispiega in un racconto. Dalla nascita (e ancor prima) alla morte le gioie e le speranze, i dolori e le sofferenze intessono la nostra vita. Raccontare è fare memoria di ciò che siamo stati e ci aiuta a percepire ciò che saremo domani e nei giorni futuri.
C'è chi ha affermato che in Africa quando muore un anziano, scompare un'intera biblioteca. Ma così è, a ben vedere, d'ogni vita. Le riviste patinate ed i social ci parlano continuamente dei vip. Al mondo ci sono persone importanti di cui veniamo a sapere molte cose: i soldi che spendono e le vacanze che fanno; i nomi dei loro amanti e dei loro figli; se possiedono un cane o un cavallo; se si avvalgono di uno stilista per i vestiti o di un architetto per il design delle proprie abitazioni. Storie, a ben vedere, di poca o nulla importanza – e che ci spogliano delle nostre storie, quando si tende a dimenticare che ogni storia personale esprime una propria incancellabile originalità.
Secondo il racconto biblico siamo fatti come a immagine e somiglianza di Dio (5). La storia personale di ciascuno s'innesta nella storia di Dio. Ogni storia personale acquista così un sapore divino. Perché, dunque, continuare a vanificarla nella pletora dei numeri? Noi siamo nomi e volti. Noi siamo storie…
Faustino Ferrari
Note
1) «L'autocitazione perpetua – la moltiplicazione dei sondaggi – è la finzione attraverso la quale il paese è portato a credere ciò che esso è. Ciascun cittadino suppone di tutti ciò che, senza credervi lui stesso, apprende dalla credenza degli altri». In Michel De Certau, L'invenzione del quotidiano, Roma 2001, p. 265.
2) Cfr. Gilles Deleuze - Félix Guattari, Rizoma, Parma 1977.
3) Cfr. Byung-chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Roma 2015.
4) Cfr. Is 56,5.
5) Gen 1,27.