Ho davanti agli occhi le immagini di alcune manifestazioni religiose che si sono tenute nelle scorse settimane, in varie parti del mondo. Processioni e assemblee liturgiche, tutte con una nutrita partecipazione di fedeli. Scopo di tali incontri era quello di invocare la protezione divina dall'epidemia del coronavirus. Nel solco di una lunga tradizione che, in occasione di simili sciagure, ha sempre visto il rinnovarsi di tali momenti religiosi.
Per le persone umane il bisogno di ritrovarsi insieme, di fare gruppo – massa – è ancestrale, primordiale. Questo fenomeno è stato studiato a lungo. Vi intervengono motivi psicologici, sociali, economici, culturali, ecc. Andare allo stadio è ben più che vedere una partita di calcio. È un ritrovarsi insieme che aggrega, rassicura, mobilita contro gli avversari delle altre squadre. Così, si partecipa ad un concerto facendo parte di un insieme che ascolta, canta, balla e vive una dimensione festosa e stupefacente. Ci sono le aggregazioni militari, quelle civili e quelle religiose. Tutte hanno motivi consci propri, ma spesso sono accomunate da bisogni inconsci collettivi. Tra questi importante è il comune misurarsi con l'esperienza della paura.
Ci sono momenti in cui il ritrovarsi insieme è sempre più rassicurante che lo stare da soli. E anche a livello religioso, le esperienze vissute comunitariamente appaiono più ricche e preziose – liberanti – rispetto al pregare da soli nella propria stanza. Tutto ciò che è compiuto insieme, infatti, è ritenuto più appagante e con un maggior valore proprio. C'è un riconoscersi ed un essere riconosciuti. Ci si riconosce membri di un gruppo e si è riconosciuti dagli altri come tali. In un reciproco patto di appartenenza.
Ora l'epidemia del coronavirus obbliga a vivere isolati, ad evitare raduni ed assembramenti. Ci viene meno una modalità ancestrale di affrontare la paura: l'aggregarsi, il mettersi insieme. Anche per pregare.
C'è chi è portato a sottolineare la fede delle generazioni precedenti e l'incredulità del momento presente. Si afferma che un tempo non si aveva paura a radunarsi per chiedere a Dio la liberazione dai flagelli delle epidemie, mentre oggi si accettano supinamente le decisioni delle autorità civili che limitano o proibiscono ogni tipo di manifestazione assembleare.
Eppure questo modo di ragionare oggi non può essere interpretato che come ubris (orgoglio) religiosa. A differenza delle generazioni precedenti noi sappiamo bene come si sviluppano e si diffondono le epidemie. E che l'unico mezzo efficace per evitare la diffusione resta l'isolamento. Non possiamo fare finta di non sapere ciò che le conoscenze scientifiche ci forniscono. Non perché ciò significhi peccare per una mancanza di fede, ma perché al credente è richiesta una fede più profonda e matura.
Continuare a radunarsi per chiedere a Dio la fine dell'epidemia rappresenta una sfida a Dio. Una tentazione. Se in passato era espressione di fede, oggi si rivela blasfema sfida a Dio, poiché l'esperienza della fede non è mai avulsa dalla storia, radicandosi profondamente nel vivere quotidiano.
Narra una storiella ebraica di un tale che si lamentava sempre con Dio della propria miserevole condizione economica. Era giunto a pregare: «Fammi vincere anche un solo piccolo premio alla lotteria…». Dopo una tale, lunga insistenza gli era giunta la risposta di Dio: «Tu, almeno, inizia a comprare un biglietto della lotteria».
È ben conosciuta la rappresentazione della creazione dell'uomo da parte di Dio che si trova nella Cappella Sistina. A quanti gli chiedevano il motivo per cui avesse raffigurato Adamo con il braccio già levato verso la mano creatrice di Dio al momento dell'immissione del soffio vitale, Michelangelo – da buon teologo – rispondeva che all'azione di Dio corrisponde la risposta dell'uomo. È questa anche la logica dell'incarnazione: in ogni evento la creatura umana deve fare la sua parte. Non può restare ad aspettare passivamente l'intervento divino.
Invocare l'onnipotenza di Dio per essere liberati dall'epidemia, senza tener alcun conto delle più banali regole per limitare il diffondersi dell'epidemia stessa significa tentare Dio. È l'orgoglio umano di poter disporre di Dio a proprio piacimento. Senza alcuna collaborazione attiva alla sua azione salvifica. Massa e Meriba non sono le tracce di un oscuro episodio occorso nel deserto del Sinai al popolo ebraico (1), ma il simbolo perenne di un atteggiamento molto comune in cui può incappare il credente: gettare su Dio quello che invece dipende unicamente dalle proprie responsabilità.
Dio non ci chiede di essere degli irresponsabili, ma capaci di risposta (cioè responsabili) alla sua azione di salvezza.
Oggi c'è data un'occasione unica – forse irrepetibile – per imparare a gustare, come credenti, il nostro pregare il Padre celeste nel segreto delle nostre camere (2). E con una preghiera sicuramente non meno efficace di quanti ci hanno preceduto nella fede.
Faustino Ferrari
Note
1) Es 17,1-7.
2) Cfr Mt 6,5-6.