Il rapporto dell’uomo con Dio può essere espresso attraverso la categoria dello spazio. Nel tempo e nello spazio, infatti, si situa il rapporto dell’uomo religioso con la divinità. Uno spazio che simbolicamente è stato rappresentato nelle più diverse forme. Tra il mondo divino (sopra) e gli inferi (sotto) si colloca un centro che s’impara a riconoscere come luogo della manifestazione divina. Il davanti, il dietro e l’accanto (lato) a questo centro rappresentano alcune delle situazioni spaziali nelle quali si viene a ritrovare l’uomo religioso.
Stare davanti a Dio (coram Deo) è un’immagine che accompagna buona parte dell’esperienza dei credenti. «Tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando mi seggo e quando mi alzo…» (Sal 138,1-2). Questo stare davanti può essere vissuto in molti modi. Dipende dalle immagini che si hanno di Dio, ad esempio. Stare davanti ad un giudice implacabile o all’amato amante: è lo stare nella paura e nello sgomento o il godere la gioia della vicinanza e dell’intimità. Diverso è lo stare abitato da sensi di colpa da quello intriso di pace e di lieta sorpresa. Si può descrivere l’esperienza cristiana come il soggiornare sotto lo sguardo benevolo di Dio. Il testo biblico offre a riguardo diverse immagini simboliche: l’ombra, la nube, il nido d’aquila, la madre, l’utero, le penne e le ali, la mano, la tenda… Immagini che intendono esprimere un senso di protezione, di calore e di appartenenza.
Un’altra immagine spaziale usata per indicare il rapporto con il Cristo è quella della sequela. Si tratta qui di uno stare dietro, un venire dietro. È l’immagine del pastore che conduce, guida il gregge al pascolo. C’è il riconoscimento che Cristo è il primo – il primogenito – ed i discepoli sono coloro che camminano dietro a Lui, seguendone le orme. «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24). È uno stare dietro non facile. Infatti il cammino di Cristo ha come meta Gerusalemme, luogo della sua passione e morte. Il luogo del suo innalzamento sulla croce. Ma il discepolo di Cristo sa che la croce non è l’ultima parola. La sua sequela si snoda dietro al Risorto. Infatti, vana sarebbe la sua fede – il suo cammino nella sequela del Cristo – se il Signore non fosse risorto (cfr. 1Cor 15,14).
Spesso, un’ulteriore immagine spiritualmente usata è quella di camminare con Dio. Enoch (Gen 5, 24) e Noè (Gen 6, 9) sono presentati nella bibbia come coloro che camminavano con Dio. Per il cristiano l’immagine del camminare accanto rimanda al Cristo – come ad un terzo, sconosciuto ed invisibile compagno. Lo esprime bene il poeta:
«Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?
Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme.
Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca
C’è sempre un altro che ti cammina accanto
Che scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato
Io non so se sia un uomo o una donna
- Ma chi è che ti sta sull’altro fianco?».
(T. S. Eliot, La terra desolata, vv. 360-366).
Il richiamo qui è al racconto dei due discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-35) che camminano, nel giorno di pasqua, insieme con uno sconosciuto incontrato lungo la strada, discutendo di quello che era avvenuto a Gerusalemme: la morte del loro maestro. Il viandante incontrato è colui che, mentre cammina con loro, svela il senso delle scritture e spezza poi il pane sul tavolo della mensa condivisa. Una presenza avvertita, ma misteriosa. Uno stare accanto che può essere sperimentato soltanto nell’inquieta esperienza di un cuore che arde (Lc 24, 32) senza riuscire, però, a cogliere completamente il gioco delle parti.
Il centro intorno a cui tutto ruota. È difficile riuscire a pensare un cerchio senza il centro. Simbolicamente: è il centro da cui tutto ha origine, la sorgente da cui sgorga la vita. Il centro irraggia, illumina. Pensare a Dio come il centro è abbastanza naturale all’interno della nostra cultura. Papa Francesco, che parla spesso di periferie, richiama continuamente che – anche se spesso questo rapporto spaziale non viene colto – il centro dell’esperienza ecclesiale è Cristo. Il credente si pone nella periferia, lungo i raggi della circonferenza. Lontano più o meno dal centro. Anche quest’immagine spaziale che esprime il rapporto dell’uomo con Dio è legittima, pur non essendo un’immagine biblica. Siamo rimandati piuttosto al Motore Immobile aristotelico o a «L’amor che move il Sole e l’altre stelle» di Dante. Un’immagine intrigante e che si continua ad usare, anche nei canti liturgici:
«…Unico riferimento del mio andare…
Tutto ruota intorno a Te, in funzione di Te…» (Gen Verde, Te al centro del mio cuore).
Ma la bibbia ci mostra un’altra immagine con la figura di Abramo: quella del camminare davanti a Dio:
«Cammina davanti a me
e sii integro». (Gen. 17, 1).
Per molti cristiani potrà sembrare strana o inconsueta quest’immagine, quasi si volesse intendere la scomparsa di Dio dall’orizzonte umano. Ma il testo biblico sembra volerci suggerire che il camminare davanti a Dio di Abramo sia meglio del camminare con Dio di Noè. Poiché la sfida per la persona umana – e per il credente, in particolare – è quella di un retto agire etsi Deus non daretur. Non c’è bisogno dello sguardo di Dio o della sua vicinanza per agire rettamente, poiché ciò ci lascerebbe nel chiuso orizzonte dei doveri e degli obblighi e non ci aprirebbe agli ampi spazi della libertà della gloria dei figli di Dio (cfr Rm 8, 21). La grandezza della fede di Abramo – padre dei credenti – sta nel suo retto agire, che si pone comunque, anche aldilà di un orizzonte divino. Abramo è il credente adulto, capace di vivere il suo rapporto con Dio fino al limite estremo della prova e del silenzio assoluto.
E se, come Mosè, il credente si volge a volte per vedere dietro le proprie spalle, sulla sabbia gli sarà dato di scorgere soltanto le lievi tracce di un passaggio divino che presto il soffio del vento cancellerà (cfr. Es 33, 23).
Tutte e cinque le immagini sono valide ed interessanti. Da un punto di vista spirituale, di solito, finiamo con lo sceglierne una. Inevitabilmente, nel nostro essere in rapporto con Dio ci collochiamo in un’immagine spaziale. La nostra esperienza umana e religiosa non può farne a meno. Ha sempre bisogno di uno spazio per esprimersi. Attraverso le parole di Albert Camus saremmo tentati, forse, di formulare il nostro rapporto con Dio così:
«Non camminare davanti a me, potrei non seguirti.
Non camminare dietro di me, non saprei dove condurti.
Cammina al mio fianco e saremo sempre amici».
C’è più consono oggi questo tipo di vicinanza, anche spiritualmente. In fondo, le nostre esistenze devono fare i conti quotidianamente con l’individualismo e la solitudine che ci avvolge.
Eppure, l’immagine più provocante è quella che ci viene proposta con Abramo. Lì si prospetta tutto il valore del cammino di una fede adulta. Ma siamo abbastanza adulti da poter intraprendere questo cammino fino in fondo?
Faustino Ferrari