I libri presi in esame in quest'anno sembrano piuttosto eterogenei tra loro e in parte effettivamente lo sono. Come si è visto, alcuni di loro non sono entrati nel canone ebraico (Giuditta, Tobia, 1-2Maccabei), altri invece presentano una difficile situazione testuale (è il caso di Ester, per il quale si danno tre diverse versioni: una ebraica e due greche (rispettivamente una più lunga e un'altra più breve), mentre Rut occupa due posizioni diverse all'interno della Bibbia ebraica e di quella cristiana. Questo significa che il rotolo di Rut è stato considerato in modi diversi e ha svolto ruoli diversi nei due mondi di appartenenza in cui esso è stato collocato.
Tutte queste osservazioni sono già state fatte all'interno dei singoli fascicoli, ma alla fine del percorso fatto dentro e attraverso i singoli libri, possiamo domandarci se essi sono anche connessi tra loro, al di là del fatto che hanno in comune il fatto di essere dei racconti della Bibbia, come recita il titolo dell'annata.
Naturalmente si tratta di una domanda retorica dal momento che questi scritti presentano più di un tema teologico comune che giustifica la scelta di raggrupparli insieme che è stata fatta, e queste tematiche di natura teologica sono anche molto attuali (1). In questo articolo proporremo alcune considerazioni relative al tema dell' essere straniero che, in maniera diversa, viene declinato in tutti gli scritti.
Rut, la moabita
Seguendo la successione dei fascicoli dell'annata, cominciamo il nostro percorso con il libro di Rut, la quale assomma in sé numerosi elementi di estraneità. In primo luogo, essa viene dalla terra di Moab, dunque è una straniera, e appartiene inoltre a un popolo maledetto. La sua origine è talmente problematica che la donna viene continuamente chiamata «moabita», anche nel c. 4 quando ormai si sta parlando del suo matrimonio con Booz. A onor del vero, bisogna subito precisare che nel libro ci sono due personaggi, Noemi e Booz, che non si rivolgono mai a Rut chiamandola in questo modo, ma il problema, in un certo senso, resta.
Oltre a essere straniera, Rut è anche una donna, vedova, senza figli, povera, probabilmente una "pagana", in quanto appartenente al popolo di Moab (2), quindi assomma in sé diversi aspetti problematici, incarnando un' estraneità che appare a prima vista estremamente minacciosa. Invece, contro tutte le aspettative, i pregiudizi e le paure, Rut diventa una benedizione per coloro che hanno a che fare con lei, a partire dalla suocera Noemi e dal (futuro) marito Booz.
Pensando allo scopo per cui il libro fu scritto, bisogna ricordare che molti autori tengono che esso intenda fornire una genealogia a Davide, che di fatto manca nel primo libro di Samuele. Se è così, è interessante notare che gli antenati eponimi della casa d'Israele e di Giuda hanno figli da donne straniere. Possiamo menzionare Giuseppe, che ebbe due figli da Asenat, la figlia di Potifera, sacerdote di Eliòpoli (Gn 41,50-52), Essi furono riconosciuti da Giacobbe come suoi (3), e uno di questi, Èfraim, divenne l'antenato della casa d'Israele. Peres poi il figlio di Giuda che viene menzionato nella genealogia finale del libro di Rut (4,12), ebbe come madre Tamar che era a sua volta una straniera, probabilmente una Cananea.
Dunque, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, sia i re d'Israele che quelli di Giuda hanno origini discutibili dal punto di vista della purezza etnica, e questo ha molto da insegnare anche a noi oggi, soprattutto alla luce delle tendenze razziste e xenofobe che stanno dilagando in molti paesi europei (4).
Se ci si chiude di fronte all'altro, che è straniero, dunque estraneo, dunque minaccioso, ci si preclude la possibilità di incontrare il re Davide, a sua volta antenato di Gesù Messia.
Ester, colei che è nascosta
Una situazione diversa, in parte però speculare, è vissuta da Ester, che è un'ebrea che vive presso una corte straniera. Mentre era nota a tutti l'identità moabita di Rut, quella di Ester è invece "nascosta", segreta (5). La regina decide però di esporre se stessa, di uscire allo scoperto, per salvare il suo popolo, In tal modo essa diventa principio di liberazione per "i suoi", come suo zio Mardocheo lo era stato per il popolo presso il quale essi erano stati deportati. Nel libro delle memorie che il re Assuero si fa portare in una notte di insonnia infatti era stato registrato «che Mardocheo aveva riferito a proposito di Bigtan e Teres, i due eunuchi del re tra i custodi della soglia, che avevano cercato di mettere le mani sulla persona del re Assuero» (Est 6,2).
Egli aveva cioè sventato un colpo di stato organizzato contro il re, e non era nemmeno stato ricompensato per questo! Ester e Mardocheo, pur essendo stranieri, sono dunque, in diverso modo, una risorsa per il popolo presso cui abitano e alche per quello cui appartengono. Nel loro caso si potrebbe dire che è possibile appartenere a due popoli, servire due padroni, a costo però, si potrebbe aggiungere, di accettare di vivere «sulla soglia», sperimentando cioè un'esistenza liminare pur abitando, a prima vista, nel centro del potere. Essi, in realtà, da questo “centro” sono esclusi, ma stando sulla "soglia" di esso, sono una risorsa per due mondi (contesti, culture). Essi vivono dunque un'identità complessa, un'idea che, di nuovo, ci pare interessante e anche molto attuale per i contesti in cui ci troviamo a vivere oggi.
Non bisogna però essere irenici, perché nel libro di Ester viene menzionato anche un altro straniero, Aman, figlio di Amadàta, l'agaghita (Est 3,1), che è il "cattivo" di turno e che, pur essendo ministro del re, agisce contro di lui, anche se, a prima vista almeno, il suo unico nemico è Mardocheo e, di conseguenza, il popolo al quale egli appartiene. L'ostilità di Aman nei confronti di Mardocheo lo porta infatti ad architettare un piano di sterminio che, in ultima analisi, si ritorcerà contro di lui che verrà impiccato sullo stesso palo che aveva predisposto per Mardocheo, ma egli diventa anche indirettamente causa di morte per i sudditi del re che possono essere sterminati dagli ebrei (Est 8).
Si potrebbe dire che l'importante non è appartenere a un popolo o a un altro, ma scegliere di essere giusti, rischiando anche la propria vita per salvare quella degli altri. Le etichette di cui ciascuno di noi si riveste non servono a nascondere l'intimo del cuore soprattutto quando «il gioco si fa duro». Davanti a situazioni estreme, che comportano il rischio della propria vita, non ci si può nascondere dietro ai ruoli sociali, le maschere cadono e risulta infine evidente di che pasta ciascuno è fatto.
Il libro di Ester dunque pur essendo un racconto fittizio, ci invita a riflettere su questioni di grande attualità (il ruolo, la maschera, la liminarità, l'appartenenza etnica, la gestione del potere, ecc.).
Tobia, l'uomo della doppia estraneità
Una situazione in parte simile, ma anche molto diversa, è al centro dello scritto di Tobia. Anche Tobi infatti è un giudeo deportato, uno dei protagonisti di un libro che, dietro il rivestimento storico, è, in realtà, una fiction, come Ester, uno scritto però che non appartiene al canone ebraico, essendo pervenuto a noi in lingua greca.
Come nel libro di Ester, Tobi vive all'estero, fuori dalla terra d'Israele, ma egli non appare integrato nel contesto in cui vive, a differenza di Ester. In tutti i modi Tobi infatti cerca di mantenere la propria identità, differenziandosi anche dal comportamento assunto dai suoi fratelli:
Dopo la deportazione in Assiria, quando fui condotto prigioniero e arrivai a Ninive, tutti i miei fratelli e quelli della mia gente mangiavano i cibi dei pagani; ma io mi guardai bene dal farlo (Tb 1,10-11).
Tobi è per così dire, straniero due volte, sia nei confronti di quelli che l'hanno deportato sia dei suoi fratelli che sembrano aver dimenticato chi sono, assimilandosi al contesto dei vincitori e alloro stile di vita apparentemente ricco di successo. Tobi invece vuole essere coerente con la sua fede che egli esprime non solo pregando, o adottando un determinato regime alimentare, ma anche praticando quelle che in seguito verranno definite «opere di misericordia corporale»:
Al tempo di Salmanàssar facevo spesso l'elemosina a quelli della mia gente; davo il pane agli affamati, gli abiti agli ignudi e, se vedevo qualcuno dei miei connazionali morto e gettato dietro le mura di Ninive, io lo seppellivo (Tb 1,16-17).
Tobi è un giusto, che, secondo il dogma della retribuzione, dovrebbe essere ricompensato per quello che fa. Egli invece viene apparentemente punito, diventando cieco, in senso fisico, ma anche forse spirituale. La moglie dà voce al tormento che egli sperimenta dicendo: «Dove sono le tue elemosine? Dove sono le tue buone opere? Ecco, lo si vede bene da come sei ridotto!» (Tb 2,14).
Straniero in terra pagana, estraneo ai suoi, Tobi incarna il lato drammatico di questa condizione che non è solo di tipo sociologico, ma chiama in causa anche la fede, l'appartenenza a una comunità. Non che Tobi metta in discussione tali valori, solo esprime la drammaticità di una condizione che non era emersa con chiarezza negli scritti precedentemente considerati.
La successione dei libri presi in esame nel corso dell'annata ci aiuta a non leggere i testi in modo ingenuo, come se l'essere straniero fosse solo un dato culturale o sociologico, oppure una condizione addirittura positiva (l'essere straniero come risorsa). Tobia ci invita invece ad affrontare il dramma anche esistenziale che questa condizione implica e che egli per così dire "risolve" assumendo un atteggiamento orante (c. 3). È molto interessante questo modo di procedere (e assai caratteristico del testo biblico) in quanto Tobi, figura del giusto solitario ed emarginato, non si chiude in un silenzio risentito, ma si lamenta davanti al suo Dio. Forse la logica conseguenza del suo dramma avrebbe potuto essere l’abiura della fede o la scelta del silenzio, espressione del suo dolore e insieme denuncia del torto subìto. Egli invece, come fanno pure gli oranti del Salterio, «effonde» il suo cuore davanti a Dio. Si lamenta, in qualche misura accusa anche il suo Signore, ma instaura comunque un dialogo che lo obbliga a uscire da sé, a confrontarsi con colui che egli riconosce come giusto. La sua scelta si dimostra vincente, come il prosieguo del libro mostra soprattutto per mezzo della figura dell'"angelo" Raffaele che si fa compagno di viaggio.
Tobi trascorre tutto il resto della sua vita a Ninive, continuando dunque a essere straniero ed estraneo a quel contesto, ma nello stesso tempo «praticò l'elemosina e continuò sempre a benedire Dio e a celebrare la sua grandezza» (Tb 14,2). La visita dell'angelo non risolve tutti i problemi, come farebbe forse il mitico «genio della lampada», ma consente comunque a Tobi di trasformare il suo modo di vedere le cose dandogli la forza di tradurre in positivo la condizione negativa in cui egli si trova a vivere. Tobi custodisce infatti la sua identità differente facendola diventare un luogo di testimonianza, un' altra categoria di natura teologica molto attuale in questi giorni.
Giuditta e Achiòr, due facce della stessa medaglia
Nel percorso un po' ideale che stiamo facendo all'interno dei racconti biblici, Giuditta occupa un posto significativo. Come Tobia, anche lei custodisce gelosamente la sua identità ebraica:
Da quando era vedova digiunava tutti i giorni, eccetto le vigilie dei sabati e i sabati, le vigilie dei noviluni e i noviluni, le feste e i giorni di gioia per Israele (Gdt 8,6).
Persino quando sarà nell' accampamento nemico Giuditta, la giudea, si manterrà fedele alle prescrizioni alimentari:
Disse Giuditta (a Oloferne): «lo non toccherò questi cibi, perché non me ne derivi un'occasione di caduta, ma mi saranno serviti quelli che ho portato con me» (Gdt 12,3) (6).
Giuditta è straniera presso Oloferne, ma il libro racconta pure la storia di un altro straniero, Achiòr, l'ammonita, che viene consegnato a Israele (Gdt 6) a causa delle parole (profetiche) da lui pronunciate:
Ora, mio sovrano e signore, se vi è qualche colpa in questo popolo perché hanno peccato contro il loro Dio, se cioè ci accorgiamo che c'è in loro questo impedimento, avanziamo e diamo loro battaglia. Se invece non c'è alcuna iniquità nella loro gente, il mio Signore passi oltre, perché il loro Signore e il loro Dio non si faccia scudo per loro e noi diveniamo oggetto di scherno davanti a tutta la terra (Gdt 5,20-21).
Achiòr, come Rut, proviene da un popolo maledetto, la cui origine è incestuosa (Gn 19,30-38). I discendenti di Ammon e di Moab, fino alla decima generazione, non possono entrare a far parte del popolo d'Israele. Sta scritto infatti nel libro del Deuteronomio:
L'Ammonita e il Moabita non entreranno nella comunità del Signore; nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del Signore (Dt 23,4).
Invece, Rut, da una parte, e Achiòr, dall'altra, entrano a pieno titolo nel popolo eletto. L'una diventerà l'antenata del re Davide, come abbiamo visto, l'altro svolgerà la funzione profetica nei confronti dello stesso Israele, simile in questo a un altro straniero, Balaam, che invece di maledire Israele, fu "costretto" da Dio a pronunciare un'importante benedizione nei confronti del popolo ebraico (Nm 24,3-9).
Nel libro di Giuditta dunque il tema dell'essere straniero viene sviluppato in un percorso bidirezionale che si snoda da Betùlia all'accampamento di Oloferne (Giuditta), e viceversa (Achiòr), figura del cammino interiore che ciascuno di noi è chiamato a fare, dall'essere straniero all'accogliere lo straniero che ha parole profetiche da rivolgere alla comunità di Dio.
I Maccabei, la lotta contro gli stranieri
Il nostro viaggio si conclude con una sorta di anticlimax costituito dai libri dei Maccabei, nei quali il rapporto con l'altro che è straniero sembra esprimere la massima distanza possibile, rappresentata dalla guerra. Qui l'estraneo va combattuto, non si può difendere altrimenti la propria identità. Ritroviamo alcuni elementi già emersi in precedenza, ad esempio nei libri di Tobia e di Giuditta (il rispetto per le prescrizioni alimentari), mentre altri vengono declinati in forma nuova (la testimonianza, di cui Tobia aveva già parlato, assume qui la forma estrema del martirio).
Oggi questi libri appaiono stranamente attuali, soprattutto in alcuni contesti, anche se suscitano degli interrogativi. Molto attuale ci pare il tema dell'individuazione di segni che esprimano un'identità, considerando che le forme esteriori possono (e devono) cambiare (oggi nessuno si farebbe uccidere pur di non mangiare cibo impuro), mentre il valore cui rendere testimonianza resta valido. Si apre dunque uno spazio di discernimento che consenta di non scambiare due piani in questione e di individuare un livello a proposito del quale non sono possibili compromessi. È un discorso appunto attuale, ma anche complesso, perché non intendiamo in nessun modo sostenere che sia legittimo prendere le armi(anche in senso metaforico) per difendere la propria identità (tantomeno quella religiosa).
D'altra parte, in un contesto come quello attuale, tendenzialmente sincretista, ci pare necessario rendere testimonianza ad alcuni valori, magari avendo il coraggio di subire il martirio per difenderli, senza naturalmente uccidere nessuno.
I libri dei Maccabei, pur se in modo problematico, aggiungono dunque un ultimo tassello al nostro mosaico richiamando l'esigenza di una testimonianza estrema che difenda valori identitari molto importanti contro i quali non si può e non si deve in nessun modo scendere a patti.
Conclusione
In modo forse per qualcuno disorientante, la Scrittura affronta un tema, in questo caso, quello dell'essere straniero, sempre in modo complesso. Abbiamo infatti visto che questa condizione può essere un valore, un problema, una risorsa, contiene in sé delle ambiguità, ecc.
Questo modo di procedere dovrebbe, da una parte, scoraggiare un atto di lettura ingenuo, quello di chi si avvicini al testo biblico cercando risposte semplici, operative, alle sue domande, attivando invece, dall'altra, un processo di discernimento per mezzo del quale leggere la propria realtà cogliendo in essa somiglianze e differenza con quanto il testo biblico descrive favorendo l'individuazione di una soluzione creativa ai problemi dell'oggi.
La parola di Dio infatti come recita il salmo, «è una lampada per i nostri passi», ma da essa non esce il genio che risolve magicamente tutti i nostri problemi. Essa rimane una luce che orienta il nostro cammino mettendoci però sempre di fonte a delle scelte, personali e comunitarie, da fare.
Donatella Scaiola
(Parole di vita, anno 2011, n. 6, p. 20)
Note
1) Rimandiamo agli altri articoli presenti in questo fascicolo per la descrizione di ulteriori temi teologici trasversali e ugualmente attuali.
2) Come si è visto nel primo fascicolo dell' annata, Rut nella tradizione ebraica è considerata il prototipo dei proseliti, ma è una questione che il testo ebraico non affronta in modo esplicito.
3) «Ora i due figli che ti sono nati nella terra d'Egitto prima del mio arrivo presso di te in Egitto, li considero miei: Efraim e Manasse saranno miei, come Ruben e Simeone» (Gn 48,5).
4) Su questo punto ci permettiamo di rimandare a D. SCAIOLA, Rut, Paoline, Milano 2009, 203 (e alla bibliografia ivi citata).
5) Si tratta probabilmente di una finzione dal punto di vista letterario, come si è visto nel secondo fascicolo di quest'annata, ma non per questo il dato è meno efficace sul piano interpretativo.
6) Nel testo si può individuare una certa ironia dal momento che Giuditta osserva scrupolosamente la purità rituale, non mangia cibo contaminata, va a pregare di notte, ecc., e poi "a cuor leggero" taglia la testa di Oloferne!