Formazione Religiosa

Sabato, 26 Aprile 2014 18:56

Vivere la Pasqua (Card. Michele Pellegrino)

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Se vogliamo essere veramente cristiani, vivere in modo consapevole e responsabile la nostra vocazione e rendere testimonianza autentica della fede che professiamo, è assolutamente necessario che ci sforziamo di penetrare il significato del mistero pasquale per renderlo operante nella nostra vita individuale e sociale.

Il mistero pasquale è ai centro di tutta l’opera di salvezza che la Chiesa ha la missione di far conoscere agli uomini perché, secondo il volere di Dio, tutti «si salvino e arrivino alla conoscenza della verità» (1 Tim 2,4).
«Quest'opera», spiega il Concilio, «della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio, che ha il suo preludio nelle mirabili gesta divine operate nel popolo del Vecchio Testamento, è stata compiuta da Cristo Signore, specialmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata Passione, Risurrezione da morte e gloriosa Ascensione, mistero col quale "morendo ha distrutto la nostra morte e risorgendo ci ha ridonato la vita" (Pref. pasq.)» (SC 5).
Il significato del mistero pasquale, della Pasqua, non si riferisce solo alla risurrezione di Cristo, ma comprende tutta la vicenda della passione, della morte, della risurrezione e dell'ascensione ai cielo...
«La passione di Cristo», afferma energicamente san Leone Magno «contiene in sé il mistero della nostra salvezza» (Serm. LV, 1).
E poiché la salvezza dell'uomo, compiuta una volta per sempre da Cristo Redentore, si va attuando nella vicenda di ogni uomo e nella storia dell'umanità attraverso i secoli, come realtà perennemente in cammino, anche il mistero pasquale, che ne è il centro, è sempre presente e operante nella Chiesa e in tutti gli uomini. «La pasqua del Signore», osserva il padre della Chiesa ora citato, «non è tanto un avvenimento passato che dobbiamo ricordare, quanto una realtà attuale che dobbiamo onorare» (Serm. LXIV, 1), s'intende col parteciparvi per attingerne i frutti di grazia e di salvezza.
Sia dunque ben chiaro: se vogliamo essere veramente cristiani, vivere in modo consapevole e responsabile la nostra vocazione e rendere testimonianza autentica della fede che professiamo, è assolutamente necessario che ci sforziamo di penetrare il significato del mistero pasquale per renderlo operante nella nostra vita individuale e sociale.

1. PERCHÉ LA PASQUA?

Che significa il mistero pasquale? Possiamo tentare una risposta a questa domanda formulandola in quest'altro modo: perché la Pasqua? Perché Cristo ha sofferto, è morto e risuscitato?
La risposta, evidentemente, dobbiamo chiederla alla parola di Dio. Dio solo può illuminarci sul significato del «mistero di Cristo... rivelato ai santi apostoli suoi e ai profeti nello Spirito» (Ef 3,4-5), mistero di grazia e di salvezza che, come abbiamo detto, ha il suo centro nella Pasqua.
Senza la pretesa di trattare l'argomento in modo sistematico e completo, raccoglieremo alcune testimonianze della Sacra Scrittura, commentandole qua e là con gli insegnamenti della tradizione, specialmente dei Padri della Chiesa e tenendo ben presente il magistero, soprattutto nell'espressione singolarmente autorevole e attuale che ne ha dato il recente Concilio Ecumenico.

Mistero di riconciliazione

Nel mistero pasquale, Dio «ci ha riconciliati con se stesso per mezzo di Cristo. A noi (gli apostoli) egli ha conferito il ministero della riconciliazione, poiché in Cristo, Dio riconciliava con sé il mondo, non imputando ad essi le loro colpe e facendo noi i depositari della parola che annuncia la riconciliazione» (2 Cor 5,18-19).
Non Si tratta, in queste parole di Paolo, d'un pensiero marginale. Come osserva il P. Tillard (Concilium 1971, 1, p. 57) esse ci richiamano «il fondamento stesso della salvezza - centro della confessione di fede cristiana».
Scopo di tutta l'opera di Cristo, la riconciliazione degli uomini con Dio è presentata come il frutto per eccellenza della morte del Signore. «Piacque a Dio... per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose... facendo pace per virtù della sua croce... Egli vi ha riconciliati nel corpo di carne di Lui, in virtù della sua morte, per farvi apparire davanti a sé santi e senza macchia e irreprensibili» (Col 1,19-22).
La riconciliazione avviene tra coloro che erano nemici.
Di questa «inimicizia», uccisa in se stesso da Cristo con la sua morte per riconciliare gli uomini con Dio, ci parla ancora Paolo (Ef 2,14-16).

Liberazione dal peccato

Una sola cosa può rompere l'amicizia a cui Dio, nel suo infinito amore, ha chiamato l'uomo: il peccato. Perciò la riconciliazione operata dalla morte di Cristo consiste nella liberazione dal peccato, nel perdono concesso da Dio agli uomini peccatori. «Dio dimostra il suo amore verso di noi per il fatto che Cristo è morto per noi quando si era ancora peccatori. A maggior ragione, quindi, ora che siamo stati riconciliati nel suo sangue, saremo salvi dall'ira divina per suo merito» (Rom 5,8-9).
Poco prima, Paolo ha parlato di Gesù nostro Signore, «consegnato per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustificazione» (Rom 4,25).
Dio, mosso soltanto dall'amore per noi, «inviò il Figlio suo a espiate per i nostri peccati» (1 Gv 4,10).
Il suo sangue, che Cristo dà ai discepoli nel Cenacolo perché ne bevano, è sparso «per la remissione dei peccati» (Mt 26,28).
Ciò che è detto qui di tutta l'umanità vale per me, per ciascuno degli uomini: «È parola sicura e del tutto degna di fede, che il Cristo Gesù venne nel mondo per salvate i peccatori, il primo dei quali sono io»(1 Tim 1,15).
San Massimo di Torino esprime con un'immagine la liberazione e la salvezza compiuta nel mistero pasquale: «Cristo Signore fu appeso alla croce per liberare dal naufragio tutto il genere umano» (Serm. XXVII, 3).

La «vita nuova»

Riconciliazione, perdono, liberazione, sono, in certo modo gli aspetti negativi con cui la parola di Dio esprime il frutto della Pasqua; ma la stessa parola di Dio parla di «giustificazione», di «santificazione», di vita nuova che viene agli uomini dal mistero pasquale.
Cristo, ci ricorda san Pietro, «personalmente portò nel suo corpo i nostri peccati sulla croce, affinché, morti ai peccati, noi vivessimo per la giustizia; lui, per le cui lividure voi foste guariti » (1 Pt 2,24).
«La risurrezione del Signor nostro Gesù Cristo è una vita nuova per coloro che credono in Gesù. Questo è il mistero della sua passione e risurrezione, che voi dovete conoscere a fondo e vivere sinceramente... La sua risurrezione ci dà una nuova vita» (Serm. CCXXXI,2). Così sant'Agostino compendia l'effetto salvifico della Pasqua.
Non è possibile indugiate qui sulla ricchezza insondabile racchiusa in quella «vita nuova» che Cristo ci ha procurato con la sua morte e risurrezione, la grazia, l’amicizia col Padre, il dono dello Spirito Santo, la fratellanza con Cristo e fra noi, la mirabile trasformazione dell'uomo.
Sono realtà misteriose, alle quali siamo invitati ad aprirci con la fede semplice e ferma nella parola di Dio per accoglierle con infinita gratitudine, viverle nell'amore e farle conoscere, con la parola e con la vita, a quanti le ignorano.

Risorgeremo con Cristo

Questa vita nuova non è circoscritta dall'orizzonte della esistenza terrena, ma è destinata a proiettarsi, espandendosi in tutta la sua pienezza di luce e di gioia, oltre il traguardo nella morte, nella vita eterna.
La vita del cristiano, che «è nascosta con Cristo in Dio», che anzi è Cristo stesso, sarà manifestata nella gloria quando Cristo sarà manifestato nel suo ritorno glorioso (Col 3,3-4).
La nostra partecipazione al mistero pasquale è partecipazione ai patimenti di Lui e alla gloria della sua risurrezione.
San Paolo attesta con le espressioni più forti il nesso indissolubile fra la risurrezione di Cristo e la nostra: «Se di predica che Cristo è risorto dai morti, come mai ci sono tra voi alcuni che dicono che non c'è risurrezione dei morti? Se non c’è risurrezione dei morti, neppure Cristo è risotto!... Ma se Cristo non è risorto, allora la nostra predicazione è vana, vana anche la vostra fede... E noi, che in questa vita abbiamo posto la nostra speranza in Cristo, siamo fra tutti gli uomini i più degni di commiserazione» (1 Cor 15,12-19).
San Massimo così riassume i frutti della Pasqua per la vita presente e la futura: «La risurrezione di Cristo è vita per i morti, perdono per i peccatori, gloria per i santi» (Serm. LIII,1).
Perché la passione, la morte e la risurrezione di Cristo? La risposta che abbiamo udito dalla parola di Dio è chiara, inequivocabile: perdono e liberazione dal peccato, riconciliazione e ristabilimento dell'amicizia con Dio, vita nuova che ci trasforma in Cristo quaggiù, risurrezione e vita eterna con Cristo: «Così saremo sempre col Signore» (1 Tess 4,17).

Il mistero pasquale e la comunità umana

Tutto ciò è assolutamente certo per il cristiano. Non saremmo cristiani se non vi credessimo con saldissima fede.
Eppure l'uomo d'oggi, il cristiano d'oggi (e forse l'uomo e il cristiano di sempre) non può fermarsi qui. Egli si domanda se veramente la salvezza operata da Cristo tocchi unicamente la sfera dello spirito senza raggiungere l’uomo in tutta la sua realtà di essere chiamato a vivete soffrire gioire lottare monte, senza venir incontro ai suo anelito di giustizia di libertà di pace di progresso, per giustificare e sostenete la sua volontà di realizzate questi ideali.
Si domanda, l'uomo e il cristiano d'oggi, se Cristo Si rivolga solamente ai singolo, mentre egli è ben consapevole che il suo destino, il destino d'ogni uomo, è coinvolto nella vicenda e nel destino della società, del gruppo sociale in cui è inserito, di tutta l'umanità legata da vincoli molteplici che impegnano ciascuno a sentirsi solidale con tutti.
C'à anzi, fra i cristiani d'oggi, chi sembra ridurre tutto il messaggio di Cristo e tutta la sua opera di salvezza all'ambito del temporale, a un messianismo da realizzarsi integralmente nella vita presente con la liberazione dalle ingiustizie, dalle oppressioni, dalle miserie, dalla guerra.
Molti hanno respinto la concezione del tutto errata, a cui forse non è estranea una certa predicazione e una certa pastorale, di «una divinità che consolava i miseri nell'afflizione..., una divinità che h persuadeva, per amore di un dubbio futuro, a subite le loro sofferenze, quando chinavano il capo mentre passavano coristi sacerdoti e inni». Si comprende perché il personaggio a cui Graham Greene (Il treno di Istanbul, p. 164) attribuisce questi pensieri «aveva spento con il suo alito quella candela, dicendosi che Dio era una finzione inventata dai ricchi per tener buoni i poveri».
È quella forma dell'ateismo moderno sottolineata dal Vaticano II, «che si aspetta la liberazione dell'uomo soprattutto dalla sua liberazione economica e sociale. Si pretende che la religione sia di ostacolo, per natura sua, a tale liberazione, in quanto, elevando la speranza dello uomo verso una vita futura e fallace, la distoglie dall’edificazione della città terrena» (GS 20).

Per la salvezza di tutto l'uomo

Di fronte a questa presentazione deformata di Dio, di Cristo e della sua redenzione è necessario affermare energicamente che la salvezza coinvolge tutto l'uomo come Dio l'ha creato, anima e corpo, nella sua vicenda terrena e nel suo destino ultraterreno, salva sempre la gerarchia dei valori, poiché, secondo la Rivelazione divina, «l'uomo è stato creato da Dio per un fine di felicità oltre i confini della miseria terrena» (GS 18).
Se l'ingiustizia è peccato, se lo sfruttamento e l'oppressione dell'uomo è peccato, se «le ingenti disparità economiche che portano con sé discriminazione nei diritti individuali e nelle condizioni sociali, quali oggi si verificano e spesso si aggravano» (GS 66) sono peccato, perché si oppongono alla volontà di Dio che «ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene, all'uso di tutti gli uomini e popoli» (GS 69), se è peccato l’attività economica che viola i diritti inalienabili della persona con strutture e ordinamenti dannosi ai lavoratori, diventati schiavi del processo produttivo (GS 67), se «la provvidenza divina esige da noi con insistenza che liberiamo noi stessi dall'antica schiavitù della guerra» (GS 81), causa di orrori e atrocità oggi enormemente accresciute e occasione di delitti (cioè peccati) senza nome (CS 80), dobbiamo riconoscere che Cristo ha sofferto ed è morto per liberare l'uomo anche da questi peccati, negazione e rifiuto dell'amore.
Se il servo di Jahvè «ha preso su di sé le nostre sofferenze e s’è caricato dei nostri dolori» (Is 53,4), è giusto che vediamo pesare sulle sue spalle i gemiti degli ammalati, la solitudine degli anziani abbandonati, la fatica brutale di lavoratori che rischiano la salute e la vita, lo smarrimento degl'immigrati alla ricerca d'un lavoro, circondati di diffidenza, la disperazione dei profughi cacciati dai loro paesi, la sorte atroce dei soldati mandati a uccidete e a morte senza saperne il perché.
Per i miserabili e gli schiavi del suo tempo e di tutti i tempi Cristo è morto in croce, come un criminale condannato ai supplizio degli schiavi, sacrificato all'orgoglio e alla gelosia di potenti che aizzano contro di lui la folla pochi giorni prima osannante. È morto vittima dell'odio, per suggellare con la morte la predicazione dell'amore.

Mistero di amore

Ecco la parola-chiave del mistero pasquale: l'amore.
Come si spiega il paradosso del Figlio di Dio fatto uomo che soffre, muore e risorge? Che cosa lo ha spinto a donarsi, a sacrificarsi, con assoluta libertà e spontaneità? (cf Gv 10,17-18; Mt 26,53).
Il Nuovo Testamento risponde con chiarezza e con abbondanza a questa domanda.
«Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio, l’Unigenito, affinché ognuno che crede in Lui non perisca ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
«Dio, ricco in misericordia, per la grande carità con cui Egli ci ha amati, morti com'eravamo per le nostre colpe, ci ridonò la vita con Cristo - per la grazia siete stati salvati - e con Lui ci risuscitò e ci fece sedere nelle regioni celesti, in Cristo Gesù; per dimostrate nei secoli avvenire la sovrabbondante ricchezza della sua carità, per la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù »(Ef 2,4-7).
D'altra patte è altrettanto vero che l'amore di Cristo mira a unire gli uomini in un vincolo di solidarietà sincera e operosa.
«Gesù doveva morire per raccogliete in unità i figli di Dio dispersi» (Gv 11,52).
«Cristo ha amato la sua Chiesa: egli ha dato se stesso per lei» (Ef 5,25).
Non certo per limitare alla Chiesa l'opera di salvezza, come a un ghetto di privilegiati, ma per fate di essa «in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» impegnata a far sì che «tutti gli uomini, oggi più strettamente congiunti da vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena unità in Cristo» (LG 1).
L'amore di Cristo non si rivolge impersonalmente all'umanità (è così facile amare l'umanità mentre talvolta è difficile sopportare il fratello che ci sta vicino).
Ognuno di noi, può ripetete la parola di Paolo: il Figlio di Dio «mi amò e diede se stesso per me» (Gal 2,20).
Egli è morto per il fratello nella fede, che io metto in pericolo di perdersi, mancando di prudenza e di carità (cf 1 Cor 8,11).

2. VIVERE IL MISTERO PASQUALE

Il mistero pasquale, dono inestimabile dell'amore di Dio per gli uomini, impegna l'uomo a una risposta.

«Riconciliatevi con Dio!»

Cristo è morto e risotto per operare la riconciliazione dell'uomo con Dio. Questa riconciliazione è il messaggio annunziato da Paolo, che conclude: «Vi supplichiamo in luogo di Cristo: riconciliatevi con Dio!» (2 Cor 5,20).
A Dio che ci offre la riconciliazione e il perdono dobbiamo andare incontro col pentimento sincero. L'approssimarsi della Pasqua è un invito a rientrare in noi stessi, riconoscerci peccatori, confessarci tali nel sacramento della penitenza e della riconciliazione.

«L'amore dl Cristo ci incalza»

Il mistero pasquale, miracolo dell'amore di Cristo Salvatore, richiede da noi la risposta dell'amore sincero e operoso.
«L'amore di Cristo ci incalza al pensiero che se uno solo muore per tutti, tutti conseguentemente morirono, e che per tutti morì, affinché coloro che vivono non vivano più per se stessi, ma per Colui che morì e risuscitò per essi» (2 Cor 5,14-15).
Il mistero pasquale ci ricorda quanto siamo costati a Cristo Salvatore. «È stato alto il prezzo del nostro riscatto, è costata molto la nostra guarigione!» esclama san Leone Magno (Serm. LII,2), facendo eco a san Paolo: «Foste ricomprati a un alto prezzo!» E l'apostolo conclude: «Glorificate dunque Dio nel vostro corpo».
È il ricordo del mistero pasquale che suggerisce a Paolo la condanna più energica della lussuria, con cui l'uomo, cedendo all'istinto dei sensi, profana il suo corpo, membro di Cristo (1 Cor 6,15-20).
Queste parole ci sono ricordate dal Concilio che, richiamando «le ribellioni del corpo» a cui va soggetto l'uomo «ferito dal peccato», ammonisce a non rendersi «schiavo delle perverse inclinazioni del cuore», (GS 14).
L'argomento è di un'attualità e di una urgenza veramente tragiche. L'immoralità, anche nelle sue esibizioni più sfacciate, anche nelle forme più ripugnanti, condannate dalla coscienza di chiunque avverta semplicemente le leggi della natura iscritte nel cuore dell'uomo, dilaga in misura spaventosa. È giusto chiedere alla legge e ai responsabili dell'ordine pubblico un intervento deciso per tutelare la salute fisica e morale in primo luogo dei giovani e dei ragazzi.
È giusto mettere in allarme l'opinione pubblica e invocare la collaborazione di tutti i cittadini. Ma è necessario andate alla radice del male. É necessario prendere sul serio il sesto e il nono comandamento: «Non fornicate, non desiderate la donna d'altri». È necessario ricordare la parola divina che proclama la santità di tutto l'uomo, anima e corpo, e il dovere di rispettarlo nell'osservanza della castità, nel dominio dei sensi e dell'istinto sessuale.
Se si vuole combattere efficacemente l'immoralità, non basta stigmatizzare certe manifestazioni più ripugnanti, come la prostituzione femminile e maschile diventata padrona delle nostre strade, mentre si tollera e si favorisce la pornografia più sfacciata, si accettano e Si esaltano produzioni teatrali e cinematografiche che sono autentica scuola di vizio. Con questo comportamento incoerente si finisce con l'incoraggiare, nelle loro cause, i disordini che inutilmente si deplorano.
Dobbiamo amare Cristo che «ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati nel suo sangue» (Ap 1,5). Amarlo vorrà dire ricordarsi di Lui e parlare con Lui nella preghiera, vorrà dire soprattutto impegnarsi a compiere la sua volontà e a seguire il suo esempio.

Amare i fratelli in Cristo

Sappiamo che significava per san Giuseppe Benedetto Cottolengo la parola di Paolo ora citata: «Caritas Christi urget nos». Era lo stimolo irresistibile a cercare e amare i fratelli in Cristo e Cristo nei fratelli, specialmente nel più poveri, negli umili, nei sofferenti.
È questa - la carità verso i fratelli - un'esigenza di fondo se vogliamo vivere il mistero pasquale.
«Camminate nella carità, come anche Cristo ha amato voi e ha dato se stesso per voi quale offerta e sacrificio di soave profumo a Dio» (Ef 5,1-2).
Dio ci ha prevenuto col suo amore e per questo «ha inviato il Figlio suo a espiare per i nostri peccati». San Giovanni, dopo averci comunicato questo annunzio di grazia, proclama il dovete che ne risulta per noi: «Carissimi, se così Iddio amò noi, noi pure dobbiamo amarci scambievolmente» (1 Gv 4,11).
Fino a qual punto possa giungere l'esigenza dell'amore fraterno, l'ha detto poco prima: «Ecco ora da che cosa abbiamo conosciuto l'amore: dal fatto che egli offrì per noi la sua vita. Anche noi quindi dobbiamo per i fratelli offrire le nostre vite» (1 Gv 3,16).

Amore che aiuta e conforta

Ma perché raramente saremo posti di fronte a questo dovere, l'apostolo continua ricordandoci come dobbiamo praticare l'amore nella vita quotidiana: «Se uno ha dei beni terreni e vede il suo fratello nel bisogno e gli rifiuta ogni pietà, in che modo l'amore di Dio potrà rimanere in lui? Figlioletti, non amiamo solo a parole o con la lingua, ma a fatti e in verità» (vv. 17-18).
Commenta sant'Agostino: «Ecco di dove incomincia la carità. Se non sei ancora capace di morire per il fratello, sii almeno capace di dare dei tuoi beni al fratello...; se non sei in grado di dare il superfluo al tuo fratello, potrai dare la tua vita per lui?» (In Ioannis epist. V. 12).
Ma qui s'impone una riflessione. Quando la Bibbia, quando i Padri della Chiesa e i maestri di vita spirituale ci rammentano il dovere dell'amore fraterno, ne mostrano l'adempimento concreto nell'aiuto da dare al fratello bisognoso, aiuto che può giungere sino al sacrificio della vita.
È un insegnamento sempre attuale. Anche oggi c’è chi ha bisogno urgente di un pane, di un tetto, di un vestito, d'una cura per guarire.
Il Concilio è esplicito anche in questo proposito. Dopo aver ricordato che «la misericordia verso i poveri e gli infermi con le cosiddette opere caritative e di mutuo aiuto, destinate ad alleviare ogni umano bisogno, sono tenute dalla Chiesa in particolare onore», afferma che, in forza della maggior rapidità dei mezzi di comunicazione che hanno diminuito le distanze fra gli uomini, «tali attività ed opere sono divenute molto più urgenti e più universali» (AA 8).
Benedetti quelli che sentono questo dovere, che seguendo l'impulso dell'amore, aiutano i poveri, i bambini abbandonati, i vecchi lasciati soli, gli ammalati, gli immigrati alla ricerca di una casa e d'un lavoro.
Le opere di misericordia, corporali e spirituali, sono attuali e urgenti, oggi come ieri.
Le Conferenze di san Vincenzo, nel loro sforzo intelligente e impegnativo di aggiornarsi sempre meglio alle situazioni e alle esigenze attuali, sono altamente benemerite.

Amare operando per la giustizia

Ma non possiamo fermarci qui.
In una società che si evolveva lentamente, in cui gli uomini consideravano come fatali o volute da Dio la miseria, le epidemie e le disuguaglianze sociali che non si sarebbe saputo come colmare, l'amore fraterno poteva concepirsi solamente o quasi come sforzo di alleviare la condizione degli indigenti di qualsiasi specie provvedendo alle loro necessità immediate.
Il progresso gigantesco compiuto nei nostri tempi nella scoperta e nel dominio della natura, la nuova coscienza (alimentata dal cristianesimo anche se spesso quegli stessi che lo professano non se ne rendono conto) di situazioni sociali ingiuste e intollerabili, del dovere e della possibilità di superarle con lo  sforzo e la lotta organizzata, ci obbligano a integrare la concezione dell'amore fraterno mirando a realizzare una società nuova, in cui le sperequazioni ingiuste e i bisogni originati dall'ingiustizia vengano colpiti alla radice.
Se è vero che Cristo è morto per tutti senza preferenza per i ricchi di fronte ai poveri, per i potenti di fronte agli umili, presentandosi anzi come il Salvatore, prima di tutto dei poveri e dei sofferenti, se è vero, come ho già osservato, che le disuguaglianze, le ingiustizie, le oppressioni sono effetto del peccato che Cristo è venuto ad espiare e debellare, il cristiano dovrà considerare suo stretto dovere collaborare all'opera della redenzione di tutto l'uomo e di tutta la società lavorando e lottando per la realizzazione della giustizia nei rapporti tra i singoli, tra i gruppi sociali, tra i popoli.
Non toccherà alla Chiesa come tale, giacché essa non ha sempre pronta la soluzione per ogni singola questione (GS 33), e tanto meno alla gerarchia, indicare iniziative e metodi concreti di azione per realizzare gli obiettivi della giustizia sociale. Spetterà normalmente ai laici, ai quali competono, «anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali», agire «quali cittadini del mondo, sia individualmente sia associati», dando «volentieri la loro cooperazione a quanti mirano a identiche finalità», escogitando e realizzando «senza tregua» «nel rispetto delle esigenze della fede e ripieni della sua forza... nuove iniziative», assumendo «la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero» (GS 43).
Non che la Chiesa e la gerarchia in particolare debbano rimanere spettatori inetti e neutrali di fronte a situazioni concrete la cui gravità esige talvolta la denuncia profeticamente aperta e responsabile, ma, anche qui, è normalmente indispensabile la collaborazione del laici che, immersi in una realtà estremamente complessa e sempre in divenire, potranno offrire ai pastori gli elementi necessari per la conoscenza e il giudizio sul fatti.
Come osserva subito dopo il Concilio, si vorrà anche tener conto, data appunto la complessità delle situazioni, d'un legittimo pluralismo di giudizi e di comportamenti, nella ricerca costante del dialogo animato da carità sincera e nella volontà di operare insieme per il bene comune.
Quel che importa è che si persegua con disinteresse e con impegno l'attuazione della giustizia, non offrendo, ammonisce il Concilio, «come dono di carità ciò che à già dovuto a titolo di giustizia» (AA 8).
Non mi sono allontanato, con queste osservazioni, dalla meditazione del mistero pasquale, in cui Cristo ci si propone come Salvatore, Maestro ed esempio, poiché «chi segue fedelmente Cristo, cerca anzitutto il regno di Dio, e assume così più valido e puro amore per aiutate i suoi fratelli e per realizzate, con l'ispirazione della carità, le opere della giustizia » (GS 72).
Del resto, quindici secoli fa un Papa, predicando sulla passione del Signore, affermava: «La passione del Signore continua sino alla fine del mondo; e come nei suoi santi è Lui che è onorato e amato, è Lui che è nutrito e vestito nei poveri, così è Lui che soffre in tutti coloro che sopportano l’avversità per la giustizia» (san Leone M., Serm. LXX, 5) [anche se, riecheggiando una parola di Gesù (Mt 5,10) «beati i perseguitati per la giustizia», non si riferisce propriamente alla giustizia sociale di cui parliamo qui].

Soffrire con Cristo

Poiché il mistero pasquale è destinato a orientare e potenziare tutta la vita del cristiano mi soffermo ancora su altri aspetti di questa meravigliosa realtà che ci viene rivelata dalla fede.
Nella Pasqua Cristo ci viene proposto come esempio di amore. Ma la parola di Dio insiste su una configurazione ben precisa che assume l'amore di Colui che si è immolato per noi: Il sacrificio.
«Cristo soffrì per voi, lasciandovi un esempio, affinché ne seguiate le tracce» (1 Pt 2,21).
«La passione del Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo», così comincia sant'Agostino una predica «è fiduciosa promessa di gloria e lezione di pazienza» (Serm. Guelf. III, 1).
Questa lezione, prosegue il predicatore (n. 2), la comprese bene san Paolo. Avrebbe potuto ricordare di Cristo molte cose grandi e divine; invece protesta: «Non sia mai che io mi glori d'altro all'infuori della croce del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale il mondo è per me crocifisso ed io lo  sono per il mondo» (Gal 6,14).
La conseguenza è chiara: se Cristo soffrendo ci ha dato l'esempio, noi dobbiamo imitarlo accettando la sofferenza, portando la croce. Solo a questa condizione, se soffriremo «insieme con Lui saremo altresì con Lui glorificati» (Rom 6,17).
«Chi è», si domanda san Leone Magno commentando questo passo, «che onora veramente Cristo sofferente, morto e risuscitato, se non colui che soffre, muore e risorge con Lui?» (Serm. LXX,4).
San Massimo ha proclamato questa verità con un'espressione lapidaria: «Ecclesia sine cruce stare non potet» (Serm. 28,2).
Non so se Romano Guardini avesse presenti queste parole del vescovo torinese (ma non c'è bisogno di supporlo poiché si tratta d'un punto centrale del messaggio cristiano), quando così commentava la parola di Gesù: «Chi avrà trovato la sua vita la perderà, e chi avrà perduto la sua vita per causa mia la troverà» (Mt 10,3). «È duro, nessuno lo  nega. È croce. È il mistero più arduo dell'essere cristiano. Cristianesimo e croce sono due realtà inscindibili. Da quando Cristo dovette percorrere il cammino della croce, la via di tutti coloro che vogliono essere cristiani è segnata - per ciascuno dalla sua croce» (Il Signore, p. 268).
Vuol dire, dunque, che il cristiano deve cercare la sofferenza con una specie di sadismo, o che semplice mente la deve accettare senza che gli sia lecito cercare di liberarsene o di alleviarla?
In tal caso, il medico anestesista, che ti permette di affrontare l'intervento chirurgico senza sentire alcun dolore, compirebbe un atto immorale. In tal caso, dovrei ritrattare quanto ho detto - ma non l'ho detto io, è l'insegnamento della parola divina - sul dovere di aiutare quelli che soffrono per lenire le loro pene fisiche e morali.
No: Dio  non ha creato l'uomo per farlo soffrire. Per quanto sia oscuro il mistero del male e del dolore, è certo che egli, Padre infinitamente buono, non permette le sofferenze dei suoi figli se non per preparare loro un dono di gioia, o già in questa esistenza terrena, ma soprattutto nella vita eterna.
L'uomo può e talvolta deve cercar sollievo alla sofferenza in sé e negli altri. Ma poiché la croce è compagna inseparabile del suo cammino, egli deve apprendere da Cristo che soffre e muore ad accettare di soffrire, di morire. «Padre mio, se è possibile passi da me questo calice! però non come voglio io, ma come vuoi tu!»(Mt 26,39).
Accettare la sofferenza, portare la croce, non vuol dire accettare passivamente - e tanto meno approvare! - le cause di sofferenza che dipendono dalla cattiva volontà degli uomini o dalle strutture d'una società che legittima le sopraffazioni e le ingiustizie, che tende a consolidare e aumentare le odiose sperequazioni per cui «folle immense mancano dello stretto necessario... mancano quasi totalmente della possibilità di agire di propria iniziativa e sotto la propria responsabilità, spesso permanendo in condizioni di vita e di lavoro indegne di una persona umana», mentre altri «vivono nell'opulenza. .. e il lusso si accompagna alla miseria» e pochi uomini hanno in mano le leve del potere disponendo a loro arbitrio della sorte dei deboli indifesi (CS 63).
Se un tempo si poteva attribuire questa situazione a leggi implacabili della natura o a una realtà sociale immutabile, oggi, all'uomo che dispone di nuove conoscenze e nuovi mezzi per dominare la natura e indirizzare l'economia secondo giustizia, non è lecito «assumere di fronte alla società un atteggiamento di passività o di irresponsabilità» (GS 69).
Ma, in tutto questo sforzo individuale e collettivo per eliminare le ingiustizie e alleviare le sofferenze che ne derivano, il cristiano non può mai distogliere lo sguardo da Cristo che porta la croce e vi muore, per fare la volontà del Padre e operare la salvezza degli uomini.

«Risorti con Cristo»

Le considerazioni presentate sinora, non devono far nascere una concezione grettamente «moralistica» della Pasqua, come se, in fondo, Cristo morto e risorto non ci offrisse qualcosa di veramente nuovo e di diverso di quanto han saputo darci i sapienti di questo secolo, portatori d'una saggezza che Dio ha reso folle (cf 1 Cor 1,20).
No: «Cristo Gesù, Colui che, per opera di Dio, divenne per noi sapienza e insieme giustizia e santificazione» (1 Cor 1,30), ci ha dato ben più di una lezione di morale: ci ha dato la vita nuova.
«Battezzati in Cristo Gesù», cioè «battezzati nella sua morte, fummo, col battesimo, sepolti con Lui nella morte, affinché, come Cristo fu risuscitato da morte dalla potenza gloriosa del Padre, così noi pure vivessimo d'una vita nuova... se con Cristo siamo morti, crediamo che con Lui parimenti vivremo... consideratevi morti sì al peccato, ma vivi per Dio in Cristo Gesù» (Rom 6,3-11).
Altrove Paolo deduce le conseguenze di questo mistero proponendo al cristiano un ideale che, mirabilmente alto e sublime, è un autentico programma di vita del cristiano: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose dell'alto, dove Cristo è assiso alla destra di Dio, pensate alle cose dell'alto, non a quelle della terra. Voi siete morti, infatti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,1-3).
Ascoltiamo ancora una volta san Massimo: «Fratelli, grande e mirabile è il dono che Dio ci ha concesso in questo giorno di Pasqua, giorno di salvezza. Oggi il Signore risorgendo ha chiamato tutti alla risurrezione; salendo dalla nostra bassura al cielo ha sollevato anche noi nel suo corpo dal basso all'alto, poiché secondo l'apostolo tutti noi cristiani siamo corpo e membra di Cristo (cf 1 Cor 12,27) » (Serm. LIV, 1).
«La risurrezione di Cristo», spiega sant'Agostino, «si realizza in noi se viviamo bene, se muore la nostra vita cattiva e la vita nuova progredisce ogni giorno» (Serm. CCXXXII, 8).

Il «memoriale» del mistero pasquale

Proprio perché non si tratta semplicemente di «fare» o «non fare» qualcosa, ma di vivere una vita nuova, non basterà, per attuare il programma che ci è stato proposto la buona volontà, anche se questa è necessaria, indispensabile.
È Cristo stesso, insegna san Giovanni Eudes, che «persegue il disegno di perfezionare in noi il mistero della sua passione, della sua morte e della sua risurrezione, facendoci soffrire, monte e risuscitare con Lui»(Royaume de Jésus, 3° parte, IV).
La grazia che per questo ci è stata meritata da Cristo nel mistero pasquale ci viene continuamente donata soprattutto nel «memoriale» ch'Egli ci ha lasciato della sua passione, morte e risurrezione, nella Messa. In essa si offre la «vittima della nostra riconciliazione», per la quale  imploriamo «pace e salvezza al mondo intero», fede e amore per la Chiesa (Canone III; il tema della «riconciliazione» nei canoni romani è studiato da H. Manders in Concilium, 1970, 1, pp. 149-160).
Gesù «comanda ai suoi discepoli, costituiti da Lui primi sacerdoti della sua Chiesa, di celebrare incessantemente questi misteri di vita eterna... fino a che Cristo venga dai cieli, affinché sia noi sacerdoti sia tutto il popolo fedele, avendo ogni giorno davanti agli occhi l'esemplare della passione di Cristo, tenendolo in mano, ricevendolo nella bocca e nel petto, serbiamo indelebile la memoria della nostra redenzione» (S. Gaudenzio di Brescia, Serm. II).
Non è possibile soffermarsi oltre su questo argomento. Basti ricordare il significato della comunione pasquale. Invitati a mangiate il corpo e bere il sangue di Cristo ogni volta che facciamo memoria, nella Messa, della sua morte e della sua risurrezione, dobbiamo sentire tanto più pressante questo dovere nelle feste pasquali.
Solo così risponderemo al desiderio espresso da Cristo di mangiare la Pasqua con i suoi discepoli (cf Lc 22,15). Poiché, commenta un padre della Chiesa, «è Lui l'autore della pasqua, è Lui l'autore del mistero; egli ha celebrato questa festa di pasqua per nutrirci col cibo della sua passione e ristorarci colla bevanda di salvezza» (Cromazio d'Aquileia, Serm. XVII, A).
La vita nuova in Cristo che ci è stata donata e che dobbiamo vivere ogni giorno trova il suo alimento nella Eucaristia: «Perché tale è l'effetto della partecipazione al corpo e al sangue di Cristo: trasformarci in ciò che riceviamo, farci portare in tutto, nello spirito e nella carne, colui insieme con il quale siamo morti, seppelliti e risuscitati» (san Leone Magno, Serm. LXIII, 7).


(Il Cardinale aggiunge, rivolto ai fedeli della diocesi di Torino)

Questo, carissimi, è l’augurio di «Buona Pasqua!» con cui desidero chiudere questa lunga lettera, che ha in qualche modo compensato il nostalgico desiderio di ritornare tra voi, appena riprese le forze, per ricominciare la visita pastorale, gli incontri all'Altare e nelle varie riunioni, i colloqui fraterni.
Spero che quando la leggerete sarò nuovamente con voi. Per ora, mentre vi ringrazio dell'affetto e della preghiera con cui avete voluto partecipare alle vicende della mia salute, che grazie a Dio va costantemente migliorando vi assicuro il mio costante ricordo e invoco su tutti e su ciascuno la benedizione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Card. Michele Pellegrino

1° Domenica di Quaresima, 28 febbraio 1971.

 

Letto 4493 volte Ultima modifica il Domenica, 27 Aprile 2014 09:55
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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