Formazione Religiosa

Mercoledì, 07 Marzo 2012 19:49

La mia fede in Dio, la mia fede nell'uomo (Card. François Marty)

Vota questo articolo
(3 Voti)

Gli uomini di oggi sono degli insoddisfatti. Hanno sete di comprendere. Sono divorati dal desiderio del vero. E non soltanto i giovani! Molti hanno il gusto della scienza, il piacere dell'intelligenza...

Desidero innanzi tutto ringraziare il Rev.mo Monsignor Arciprete per avere preso l'iniziativa di queste conferenze. Notre-Dame diventa cosi uno dei più eminenti centri della riflessione religiosa e della celebrazione liturgica. Qui, nel cuore di Parigi, la preghiera, che talvolta si perde nel sentimentalismo, si riconcilia con la teologia, che talora inaridisce il cuore. Lo hanno affermato molti testimoni che hanno avuto il coraggio di rifiutare la pregiudizievole frattura tra gli impegni della promozione umana e la contemplazione del mistero divino, che si sono rifiutati di contrapporre la terra al cielo e di partecipare al confronto: Dio contro l'uomo, l'uomo contro Dio.
Il fatto di aver organizzato, nel 1976, una serie di conferenze sul tema «Ricerche ed esperienze spirituali» costituisce un atto di fede in quel Dio che sappiamo tanto vicino agli uomini in tutte le epoche della nostra storia. Ma è anche un atto di fede nell'uomo moderno la cui sete di Dio - lo costatiamo - lungi dallo spegnersi nella immane fatica per una giusta riorganizzazione del mondo, si è fatta anzi più ardente. Prova inconfutabile ne è la vostra partecipazione numerosa e assidua ogni domenica qui a Notre-Dame.
Atto di fede dunque, ma anche atto profetico. Vorrei, questa sera, ricordarvi con forza che «non di solo pane vive l'uomo» (Mt 4,4); egli trova la sua statura e la sua pienezza in una vita spirituale, allorché si impegna a cercarla nell'essenziale. E di questo «essenziale» io intendo parlarvi.
È per voi il pressante invito del profeta Isaia: «Cercate il Signore mentre si fa trovare, invocatelo mentre è vicino» (Is 55,6).
Noi non siamo esploratori solitari. Popolo di credenti, camminiamo nello Spirito verso il Padre, come Chiesa. L'esperienza spirituale evangelica ben lungi dal renderci originali e strani, ci rimanda invece verso i fratelli perché apprendiamo a dire Dio insieme, con il linguaggio della nostra vita quotidiana. Noi non ci sentiamo estranei al mondo e alla sua storia, ma siamo su questa terra i testimoni visibili di una «Presenza» invisibile: «Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, Lui lo ha rivelato» (Gv 1,18).
La mia storia personale si inserisce in questa dichiarazione dell'Apostolo. Infatti, la Chiesa, che mi ha insegnato a chiamare Dio per nome, non è mai stata per me un’idea astratta. La mia famiglia e il mio villaggio furono la prima cellula ecclesiale, e tutti quelli che ho incontrato dopo la mia ordinazione sacerdotale, uomini e donne, sono stati per me, a modo loro, una via che conduce a Dio.
Proprio loro mi hanno trasmesso il Vangelo, proprio loro mi hanno rivelato il dinamismo della carità di Cristo. Non sarei cristiano, se un giorno un sacerdote non mi avesse battezzato e incorporato nella Chiesa; non sarei sacerdote e vescovo, se ,altri vescovi non mi avessero imposto le mani e inviato in missione.
Ecco la mia esperienza. Quello che sono lo devo agli altri.
Oggi ancora, sia per temperamento che per il ministero, la mia ricerca di Dio passa attraverso l’incontro con uomini e donne con i quali posso dialogare: li accolgo, li ascolto, ne condivido le gioie e le speranze e ne porto le sofferenze. In breve, io li amo; e mi sforzo di amarli indipendentemente dalle loro situazioni, sventure e colpe. È facile affermarlo qui; l'impegno diventa difficile quando un nemico vi ha ferito, quando un assassino ha commesso un crimine odioso. Penso a colui che ben presto sarà giudicato. Tutti hanno diritto al rispetto. Tutti sono più grandi dei propri atti. L'uomo supera l'uomo.

 

CERCATORI DELL'ASSOLUTO

Gli uomini di oggi sono degli insoddisfatti. Hanno sete di comprendere. Sono divorati dal desiderio del vero. E non soltanto i giovani! Molti hanno il gusto della scienza, il piacere dell'intelligenza; i più vogliono vederci chiaro e reinserire il vissuto di ogni giorno nella prospettiva della Storia. L'inquietudine e la curiosità rendono grande l'uomo. E questa curiosità dello spirito è nata, penso, da un più vasto accesso alla cultura.
Il nostro è il secolo della ricerca.
Tale ricerca è meno ingenua dei grandi slanci dello scientismo del tempo dei nostri genitori. Allora erano numerosi gli scienziati che ritenevano di potere ricostruire il mondo con la sola razionalità umana. Sono stati dei cattivi filosofi. Hanno ingaggiato un combattimento il cui unico oggetto erano l'ignoranza e la stupidità di certi credenti. Hanno spinto le nostre società moderne verso vie senza uscita. Più responsabile, e più seria, molto meglio organizzata, la ricerca attuale è orientata verso tutti i campi della vita. Il mondo scientifico e tecnico, l'universo artistico e letterario. ecc.; essa rimane uno dei pochi obiettivi in grado di mobilitare i nostri contemporanei e di riunirli al di là delle frontiere politiche e ideologiche. Emissioni televisive, riviste specializzate, associazioni, congressi... testimoniano la fedeltà di questa ricerca della verità.
Però un simile dinamismo creatore può tralignare. Si innalzano nuovi idoli, si diffondono principi pseudo-scientifici, si impongono filosofie sofisticate. Tutta merce per ingannare la sete.
Ma è sempre l'uomo che cerca, è sempre l'uomo che si cerca.
Le giovani generazioni sono coscienti che non esiste alcun modello per il mondo di domani... Il mito del progresso indefinito è caduto. Forse perché non era il progresso di tutti e perché sfocia in squilibri esplosivi. Dovranno essere inventati nuovi tipi di rapporti sociali e un nuovo equilibrio mondiale. Questa prospettiva è esaltante e talvolta angosciosa. Chi non avverte che nella crisi attuale le implicazioni sono mondiali? Basti ricordare le restrizioni energetiche e l'incremento della disoccupazione, ecc. E la posta è innanzi tutto l'uomo, sempre l'uomo.
In questa nostra società occidentale post-industriale, in questo mondo di cemento e di centrali nucleari vi sono uomini e donne che si riscoprono «nomadi», come il nostro padre Abramo. Vi sono dei giovani che sanno che potranno esercitare la professione alla quale sono stati formati, nella migliore delle ipotesi, soltanto per alcuni anni. In alcuni quartieri di Parigi, nuovi inquilini lasciano l'abitazione e il quartiere ancora prima di avere avuto la possibilità di allacciare delle relazioni o anche solo contatti con i vicini. Ogni mattina la macchina urbana si mette in moto e milioni di cittadini sono costretti a una migrazione giornaliera.
Anche nel campo del sapere, l'uomo vive accampato. Egli sposta la sua tenda da una ipotesi all'altra, da una sorgente all'altra, senza sapere ancora su quali certezze potranno vivere i suoi figli. La necessità della sicurezza si riversa allora sulla cellula familiare, ma anche questa è sconvolta, contestata e, talora, fatta esplodere. Ci sarebbe bisogno di una saggezza, di un'arte di vivere, di un'idea della felicità, in cui genitori e figli possano comunicare ed entrare in comunione. Ci sarebbe bisogno di un nuovo spirito, di una speranza, di un qualche cosa come la rivoluzione spirituale che André Malraux vedeva spuntare all'orizzonte del secolo XX. II giorno si avvicina. È necessario.
E così, nella nostra società che ha come legge il materialismo pratico o teorico, gli uomini e le donne sono ancora alla ricerca dell'Assoluto, guidati da una stella.
Quale stella? La sete dell'inconoscibile che dimora nel più profondo dell'anima umana ne costituisce l'essenza e la definizione stessa. La perenne insoddisfazione e il lungo errare nel corso della storia verso una terra promessa e continuamente differita sono, nel cuore dell'uomo, come l'impronta del suo Dio.
Noi riteniamo, infatti, che l'uomo sia « capace di Dio », secondo l'espressione di san Tommaso. Anzi, nella mia lunga esperienza di pastore, ho sentito spesso rinascere in me la confidente preghiera di Agostino: «Fecisti nos ad Te... Ci hai fatti per te, per andare verso di te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto fino a quando non trovi riposo in te» (Confessioni 1,1).
Ho cercato Dio per tutta la mia vita. È stato il mio combattimento. La mia gioia. Per tutta la mia vita ho guidato uomini e donne verso Dio. È stato il mio ministero. È stata la nostra comune avventura spirituale. Qualche volta, devo dirlo, mi è mancato il coraggio. Non ho creduto abbastanza nell'uomo per parlargli di Dio. Vi confido un ricordo. È un fatto che per me è rimasto una parabola. Ero stato appena nominato parroco di una piccola borgata dell' Aveyron. Mentre camminavo per una strada incontrai un contadino che se ne ritornava alla sua fattoria. Non lo conoscevo e mi presentai. Parlammo insieme per un buon tratto della pioggia e delle stagioni, del raccolto e degli animali, della famiglia e del paese. Qualche tempo dopo ho saputo che il contadino, ritornato a casa, aveva raccontato alla figlia di aver incontrato il nuovo parroco e le aveva confidato: «Abbiamo parlato a lungo. Non mi ha detto nulla di Dio».

 

TU, L'AL DI LÀ DI TUTTO

Quando parlo di «cercare Dio», quando mi presento come un «cercatore di Dio», sento che molti di voi restano perlomeno perplessi. Dio, non l'abbiamo forse trovato? Posso essere testimone dell'«Invisibile», io, vostro arcivescovo e definirmi un cercatore di Dio?
Rassicuratevi. Non ho mai dubitato della esistenza di Dio. So che il «mio Redentore è vivo», come dice Giobbe (Ob 19,25). «So in chi ho creduto» (2 Tm 1,12), secondo l'espressione di san Paolo nella seconda lettera a Timoteo. Sì, la fede è un incontro; è la certezza più viva di ogni altra, anche di quella fondata sull'esperienza scientifica. Essa non è il risultato di speculazioni dello spirito e nemmeno una costruzione intellettuale, ma l'accettazione, piena di meraviglia, di una luce che non si era immaginata. La testimonianza di coloro che si convertirono in età adulta, come oggi André Frossard o il P. Loew, come ieri Paul Claudel, in questa cattedrale, conferma appieno questa illuminazione insperata. Dio è luce del cuore.
L'interruttore di questa luce non è tuttavia alla portata della mano dell'uomo o della sua intelligenza e l'uomo non può disporne come di cosa propria. È luce che brucia l'anima, che consuma, che abbaglia, che non concede più riposo. Conoscere Dio è una strada sul cui ciglio non ci si può sedere, una strada di montagna che rende il viaggiatore sempre avido di sapere che cosa si nasconde dietro la prossima curva. lo ho fatto l'esperienza di Dio, come molti di voi. Egli mi è ora presente più del giorno della mia prima messa di giovane sacerdote. Per tanto tempo ho camminato assieme a lui, discepolo sulla strada di Emmaus.
Questa esperienza rinverdisce continuamente la mia speranza: questa conoscenza «in spirito e verità» accresce la mia sete.
Cercare Dio e trovarlo. Trovarlo e cercare ancora: ecco il tema costante della Bibbia. Ecco l'autentico atteggiamento dello «scienziato di Dio». Poiché trovarlo significa attingere in lui il desiderio e la forza di cercarlo ancora. «Dimmi qual è il tuo nome, Signore» (Gn 32,30). «Mostrami il tuo volto» (Ct 2,14). Mosè non pianterà la tenda davanti al roveto ardente; dovrà cercare il Signore nella notte del deserto. E perfino ,sulla montagna santa, egli supplica ancora: «Di grazia, fammi vedere la tua gloria» (Es 33,18). San Gregorio di Nissa fa per noi questa considerazione: «In questo consiste la vera visione di Dio, nel fatto che chi leva gli occhi verso di lui non finisce più di desiderarlo» (Vita di Mosè, n. 233).
Noi saremo sempre cercatori di Dio. Si trova il cammino camminando, Si trova Dio impegnandosi a cercarlo. L'uomo è fatto così. E colui che «osiamo» chiamare «Padre nostro» si dona e nello stesso tempo si nasconde dietro alla moltitudine dei nomi con i quali cerchiamo di qualificarlo e di identificarlo. Non v'è religione che possa annettersi o colonizzare questo spazio sempre inesplorato, questo essere sempre inaccessibile, di fronte al quale le nostre parole di uomini si piegano, si curvano e si spezzano.
«O Tu, l'al di là di tutto, non è forse tutto quello che si può cantare di te?», confessa san Gregorio di Nazianzo. Dio non è secondo la nostra misura, egli è l'Immenso.
Nel tempo di Avvento, ricordiamo che Dio non è mai colui che si possiede, ma sempre colui che si attende. Sappiamo «che è», perché sperimentiamo «che viene».
Gli uomini e le donne di questo tempo attendono. Non siano essi spettatori passivi che scrutano il cielo. Si mettano in cammino. Facciano esperienza della propria «capacità» spirituale. Scrutino i Vangeli, perché sia loro svelata la grandezza dell'uomo.
Come affermò il Papa Paolo VI, il 7 dicembre 1965, alla chiusura del Concilio: «Per conoscere i Dio bisogna conoscere l'uomo... Il concilio altro non è che un potente e amichevole invito all'umanità d'oggi a ritrovare Dio». Visione profetica che non dà ragione né ai sostenitori del culto dell'uomo, né ai seguaci di una religione disincarnata. Il Vaticano II è la grande avventura spirituale di questo tempo: ha messo ancora una volta in cammino il popolo di Dio.

 

UN DIO CHE CERCA L'UOMO

Noi siamo dunque «cercatori di Dio ». Ma sarebbe più giusto dire che è lui, Dio, a cercarci.
Tutta la Bibbia può essere riletta in questa prospettiva. Dio cerca l'uomo; lo spia come un amico che attende l'amico. In tutta la nostra storia collettiva, come in ciascuna delle nostre esistenze personali, echeggia l'appello della Genesi. È un grido, quasi una preghiera: «Adamo, dove sei?» (Gn 3,9), domanda Dio. Antropomorfismo! Certo. Ma non ha importanza. Dio ha voluto palpitare con un cuore d'uomo. La misteriosa attrazione di colui, grazie al quale e per il quale tutto esiste, ci viene espressa in un'angoscia di Padre, nella tenerezza di una madre alla ricerca del suo bambino. Come Maria alla ricerca di suo figlio.
Ecco dunque riconosciuto il lungo cammino di Dio verso il cuore degli uomini. «La Bibbia è meno una teologia per l'uomo che un'antropologia per Dio». Fin dalle origini Dio si è messo alla ricerca dell'uomo. All'inizio c'è la sua Parola che crea e chiama e che, chiamando, crea. «Al principio c'era colui che è la Parola» (Gv 1,1). Il grido della nostra preghiera è in noi soltanto l'eco di questa Parola, lo sprigionarsi in noi della preghiera del Figlio. Si potrebbe a questo punto commentare quel che Pascal fa dire a Dio: «Tu non mi cercheresti, se io non ti avessi già trovato».
Eccoci, miei cari amici, nel cuore della nostra meditazione. E, indubbiamente, nel cuore stesso della nostra vita spirituale.
Da Dio a noi e da noi a lui, la via è tracciata , ed ha un nome: Gesù, il Cristo. Nessuno va al Padre se non per mezzo suo (Gv 14,6). Più che un modello e una guida, Gesù è la presenza, «la cambiale» di Dio.
Molti cattolici assistono meravigliati ad una riscoperta della persona di Gesù. Gesù è un uomo di Nazaret, vissuto al tempo dell'imperatore Cesare Augusto... Ha uno stato civile. Alcuni storici, seri e competenti, riaprono il «Dossier Gesù». L'esistenza di quest'uomo, anche per chi esita a seguirlo fino in fondo, ha qualcosa di affascinante. Molti dei miei interlocutori increduli affermano di essere impressionati dalla straordinaria libertà del suo comportamento: sono commossi di fronte al suo amore universale che ha qualcosa di sovversivo. E io non posso che rallegrarmene. Non dobbiamo confiscare la figura di colui che ci ha sedotti.
Ma è nostro dovere, in quanto suoi discepoli, testimoniare senza riserve quello che fa la verità di quest'uomo. La sua libertà non è fantasia, la sua sovversione non si limita agli elementi di questo mondo, raggiunge l'umanità alla radice, tocca l'uomo nel cuore.
Osservare la vita di Gesù significa accettare di essere da lui forviati, significa seguirlo sulla sua stessa strada; significa voler salire a Gerusalemme, voler seguire la via che porta al Padre. Questa è, infatti, la sua personalità profonda. Gesù è polemico con i farisei, non si lascia imprigionare nelle rubriche degli uomini di legge, allontana la spada e gli zeloti, fustiga i mercanti nel tempio, risolleva la donna adultera... perché è libero della libertà stessa di Dio. Egli non ha altro punto di riferimento all'infuori della inesauribile misericordia del Padre: «Il Figlio da sé non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre» (Gv 5,19). Non è possibile capire il comportamento di Cristo, se non si accetta di intravedere in esso il mistero stesso della sua persona. Possiamo soltanto rifiutare del tutto il suo atteggiamento - o, peggio, strumentalizzarlo - se non accettiamo di riconoscere quello che lo fa essere: egli è «il religioso di Dio»; è il Figlio di Dio; è Dio.
E il riferimento costante al Padre non è mai una fuga da questo mondo e dalle sue esigenze. Proprio per inserire in questo mondo - cioè nel cuore degli uomini e nelle strutture della loro vita collettiva - le esigenze crocifiggenti della giustizia e della misericordia, Gesù non perde mai di vista la volontà del Padre. Egli non può amare il Padre senza volere e fare di noi uomini un popolo di fratelli.
«Gesù è l'uomo per gli altri», diceva il pastore Bonhoeffer. E bisogna aggiungere: «Gesù è l'uomo per il Padre», poiché è una cosa sola con lui. Ecco perché egli è, in questo, l'uomo «autentico», la creazione perfetta, il «nuovo Adamo».
L'appello inquieto di Dio all'alba della nostra storia, l'«Adamo, dove sei?», trova la sua risposta nel cuore della Passione: «Ecco l'Uomo» (Gv 19,5). Sì, ecco ciò che abbiamo fatto dell'Uomo; e noi riconosciamo in lui i supplizi di tutti i tempi, i torturati di questo tempo, che ci vengono tenuti nascosti in più di ottanta paesi! Essi sono crocifissi.
Il Padre, però, riconosce il Figlio diletto, l'uomo finalmente ritrovato, l'uomo secondo il cuore di Dio. L'uomo che ha assunto il rischio di amare come Dio solo ama, senza limiti, fino in fondo, fino al dono supremo di sé.


 
DIO TROVATO IN GESÙ CRISTO

In questo volto d'uomo, sfigurato e ferito, ecco che io posso intravedere il volto del mio Dio. È scandalo; è follia!
Consentitemi una confidenza: la mia formazione religiosa in un paese cristiano e i miei studi ecclesiastici nel seminario hanno incentrato la mia spiritualità in Dio, Dio creatore, Dio provvidenza, che credevo di conoscere perché, spontaneamente, affiorava in me la definizione del catechismo. Ero poi pieno di meraviglia per la venuta del Figlio di Dio nel bambino di Betlemme; egli portava a termine la redenzione e la salvezza. Dio era in mezzo agli uomini grazie alla sua umanità. Giovane sacerdote, non afferravo bene quello che ci aveva portato l'umanità di Cristo. Sapevo che egli era Dio e ciò sembrava bastarmi. Un tale itinerario teologico ha il suo valore, ma ha pure l'inconveniente di non rispettare il movimento biblico della Incarnazione.
Il Concilio ha proposto un'altra strada. Da vescovo, il Concilio mi ha aiutato a capire meglio e ad esplicitare tutta la mia esperienza sacerdotale: l'incontro quotidiano dell'uomo con il suo Dio, in Gesù Cristo. Ogni esperienza di Azione Cattolica, ogni atto di presenza al mondo aiutano ad afferrare e a riconoscere la persona di Gesù e, in Gesù, il Cristo. «Chi vede Gesù crocifisso, vede indissolubilmente il Padre che ama l'uomo... e l'uomo che ama il Padre» (Il mistero di Cristo, nota n. 5 dell'Ufficio di Studi dottrinali e pastorali del Consiglio permanente dell'Episcopato francese, maggio 1969).
In lui, così, Dio è totalmente annunciato, totalmente dato. E all'infuori di questo gesto del Padre non c'è altra rivelazione: «Padre Santo, hai tanto amato il mondo da mandare a noi... il tuo unico Figlio come salvatore» (Preghiera Eucaristica IV; cf Gv 3,16). Proprio per questo possiamo dire che Dio può essere veramente trovato soltanto in Gesù Cristo.
Cercare Dio significa ormai contemplare Gesù. E tutto il Nuovo Testamento ci assicura che la prima comunità cristiana ha vissuto la certezza che Gesù era il Cristo. Ha vissuto l'esperienza collettiva dell'incontro col Signore. In lui ha riconosciuto il suo Dio.
Maria di Magdala, in lacrime, cerca il suo Maestro e trova il Signore nel giardino il giorno di Pasqua: «Rabbuni». E Cristo le risponde: «Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (Gv 20,16-17). E il grido di Tommaso è grido di gioia e di fede; Gesù riconosciuto è il Dio finalmente ritrovato: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28). Come se avesse avuto bisogno di affondare il dito nelle piaghe per sapere chi era Dio.
Cari ami, ci che mi ascoltate, voi non vi aspettavate da me delle ricette spirituali. Vi aspettavate la testimonianza della mia fede. lo non ho nulla da dirvi tranne questo solo nome: Gesù. Poiché egli è tutto per me. Egli illumina tutta la mia vita. Ed io sono certo di lui. Egli è Dio ed è Uomo, non in una distanza che li oppone l'uno all'altro, ma in una comunione, nell'unità di una stessa persona. La mia fede in Dio e la mia fede nell'uomo sono una cosa sola; è la mia fede in Gesù Cristo.
Ecco che cosa la Chiesa deve dire al mondo.

 

OGGI, NELLO SPIRITO, AMARE E PREGARE

Vorrei semplicemente concludere questa testimonianza col sottolineare l'importanza di reincentrare la nostra fede nella persona di Gesù, il Cristo. Ciò è, direi, indispensabile per l'avvenire stesso delta Chiesa.
Vivere Gesù Cristo oggi e annunciarlo... non significa soltanto ripetere un insegnamento che ci giunge da un lontano passato. Noi non siamo né storici, né archeologi, ma siamo i testimoni di una verità che è vita. Rendiamo testimonianza a Gesù, il Cristo, come Chiesa. E se ancora oggi qualcuno può riconoscere Gesù come Signore e mettere a repentaglio la propria vita per il suo Vangelo, può farlo soltanto per una comunicazione dello Spirito di Cristo, non per propria scelta o iniziativa. Lo Spirito di Cristo ci strappa alle nostre paure, ai torpori, agli egoismi, alla stessa nostra morte e ci sprona alla sequela del Risuscitato.
Lo Spirito di Gesù ci dà la forza di risollevarci e di cercarlo; ci dà il gusto di trovarlo; è l'unica forza della nostra testimonianza nella debolezza delle nostre vite. Egli è il sapore della nostra preghiera. Sempre e soltanto lui ci fa vedere il Figlio e ci fa gridare verso il Padre; soltanto lui ci guiderà «fino alla verità totale» (Gv 16,13), la verità di Dio.
Cercare Dio è seguire Cristo, cioè, come lui, amare il prossimo e pregare il Padre.
Domando spesso ai cristiani come pregano; mi sembra sia urgente favorire lo scambio di vedute. È cosa buona che ci diciamo a vicenda le nostre esperienze circa la nostra ricerca di Dio. Si tratta indubbiamente del primo atto di carità che dobbiamo fare. Sento che ci avviciniamo a lui per vie diverse. Ciascuno prega con tutto quello che è. La preghiera della madre di famiglia non è necessariamente la preghiera dell'artista; la preghiera dell'imprenditore non è necessariamente la preghiera del medico... Il miracolo sta nel fatto di poter pregare insieme. E questo lo dobbiamo alla preghiera della Chiesa, lo dobbiamo soprattutto all'unico Spirito: «Poiché lo stesso Spirito ci assicura che siamo figli di Dio» (Rm 8,16).
Si è parlato di un «ritorno della preghiera». È vero. Ed è vero tanto nel nostro mondo occidentale, quanto in molti paesi dell'Est. La società secolarizzata aveva la pretesa di spegnere nell'uomo ogni desiderio, con l'appagamento dei suoi bisogni elementari; il ritmo stesso della vita urbanizzata avrebbe dovuto implicare il letargo dello spirito; la spersonalizzazione nelle strutture economiche che definiscono l'uomo soltanto per la sua funzione e capacità di produrre avrebbe dovuto sopprimere la libertà fino alla totale pianificazione e all'anonimato delle folle.
Era quindi necessaria una reazione. L'uomo moderno reclama il «potere spirituale». Cristiano o no, egli sente la necessità di uno spazio di silenzio; vuole ritrovare se stesso; avere una sua vita «interiore». Per molti giovani, poter riprendersi nello Spirito è come una liberazione. La vita religiosa è anche un'attività umana; la più sublime. Ho paura che gli economisti e i finanzieri che ci governano non siano sufficientemente attenti a questo appello che sale intrattenibile dal cuore dell'uomo prometeico, la cui anima però, si è destata.
Sono testimone, spesso meravigliato e, perché no?, perplesso talvolta e inquieto, di tutto un pullulare di gruppi di preghiera, di associazioni spirituali, di comunità evangeliche, di «laboratori» di fede: ognuno cerca di rinnovare le vie della contemplazione. Chiese nuove e chiese vecchie restaurate, come questa cattedrale sono sempre affollate e la gente vi si reca per pregare, perché ne sente la necessità. Domenica scorsa, in questa cattedrale c'erano migliaia di giovani. Sono stati pubblicati testi di preghiere compilate da giovani o espresse da bambini che parlano della loro sete di Dio col semplice linguaggio della vita quotidiana. Giovani adulti hanno deciso di impegnarsi e di dedicare alla preghiera tutta la loro vita, senza tuttavia rinunciare ad una loro presenza attiva nel mondo. A Parigi, sono centinaia.
Il fatto più nuovo forse - e lo dobbiamo alle riforme volute dal Concilio - è che abbiamo imparato di nuovo a pregare insieme e a pregare con tutto il nostro essere. Certamente la preghiera è la via più personale che esista. Essa, infatti, implica una certa esperienza misteriosa del senso di solitudine che si prova davanti a Dio e che è come l'immagine e l'anticipazione del nostro tempo comunitario; la preghiera è una dimensione ecclesiale. Ogni preghiera, anche la più personale, non è mai un affare privato. Essa è già qualcosa dell'Eucaristia della Chiesa. È già la preghiera del Figlio. È la Messa per il mondo.
È allora assurdo contrapporre, come alcuni vorrebbero, la preghiera e l'impegno del cristiano. Il Figlio di Dio fattosi Uomo in Gesù Cristo ha incarnato nella sua esistenza tutta la tenerezza del Padre. Per lui, amare il Padre, pregare il Padre, significa volere costituire un popolo di fratelli.
In Gesù Cristo sono uniti per sempre, come un solo principio vitale, i due comandamenti dell'adorazione del Padre e del servizio dei fratelli. Quando si tratta del discernimento dei doni dello Spirito, esiste un criterio infallibile: indice della presenza dello Spirito è la carità. Quando qualcuno mi dice di aver ricevuto il dono di un grande fervore spirituale..., io lo interrogo sempre circa i suoi rapporti con la famiglia, con i colleghi, sulla sua cura di esternare la carità nelle realtà collettive vissute assieme agli altri (cf 1Cor 12,31). «Ubi charitas et amor, Deus ibi est».
Conosco dei cristiani, che anche nelle preghiere più usuali, prendono le mosse dalla vita comunitaria. Pregare, per essi, è innanzitutto riconoscere lo Spirito del Cristo presente nella storia degli uomini. Tutto ciò che essi vivono con gli altri; tutto ciò che costruiscono, gli insuccessi, i dolori di cui sono testimoni..., lo stesso peso del peccato che costatiamo ogni giorno, tutto questo è per loro una via del tutto privilegiata per andare incontro al Cristo, e col Cristo, pregare il Padre. Ecco dove si trova lo Spirito.
Infatti, lo Spirito di cui parliamo - si tratta di un rilievo importante - non è da confondersi con qualsiasi ispirazione generosa che stimoli la volontà a migliorare le condizioni di vita degli uomini. Non ogni dinamismo umano è dono dello Spirito. Richiamarsi a Gesù di Nazaret, riconoscerne e accoglierne lo Spirito, significa dover andare fino in fondo alla verità dell'uomo: Gesù è pienamente uomo, è veramente Figlio di Dio.
Sì, io credo sempre più che il vero problema per la Chiesa di oggi, e quindi per il mondo di domani, sia la realtà e la verità dell'Incarnazione. Non abbiamo altro avvenire da proporre al mondo all'infuori di questa rivelazione del «Dio con noi», dell'«Emanuele», del Bambino di Betlemme.
Noi cristiani non siamo degli emarginati, ma uomini inseriti realmente nelle speranze e nelle lotte di questo mondo per introdurvi la carità di Dio. Ci riusciremo, come la prima generazione cristiana, a una sola condizione: che rimaniamo coscienti che Gesù è realmente uno di noi, solidale con la nostra vita e con la nostra morte; che rimaniamo coscienti dell'identità di questo Gesù al quale ci richiamiamo: Egli è nato da Dio. Figlio del Padre, Egli è l'unica espressione autentica del Dio invisibile. Solo così custodiremo la nostra identità di cristiani e, quindi, avremo la possibilità di contribuire, in modo del tutto originale, insostituibile, alla costruzione del mondo.
Per la Chiesa è una questione essenziale: saremo noi, domani, ancora il popolo dell'Incarnazione? Saremo noi domani ancora il popolo del Dio fatto Uomo? Oppure permetteremo che questa identità svanisca nelle nubi di una pseudo-spiritualità universalistica, internazionale, o nel fumo della lotta di questo tempo?
Ecco perché, davanti a voi, questa sera, ho voluto fare appello alla testimonianza della Chiesa. La Chiesa di tutti i tempi: di Giovanni, Paolo, Agostino, Gregorio Nazianzeno, Tommaso d'Aquino... La Chiesa d'oggi: questa folla anonima delle nostre comunità... ed io stesso, vostro arcivescovo, che si preoccupa di farvi partecipi della fede.
Sì, noi crediamo in un solo Dio. E crediamo nell'uomo, non soltanto perché vi siamo indotti da una sorta di sapienza che ci ha insegnato a non disperare mai dell'uomo, di nessun uomo, ma innanzitutto perché abbiamo incontrato Gesù, il Cristo, perfettamente uomo, realmente Dio.
Per la verità del Cristo, noi oggi siamo impegnati in una lotta. Lotta spirituale che impegna me e voi, cristiani, fratelli miei carissimi.

Card. François Marty


* Gabriel Auguste François Marty (1904 – 1994) fu nominato nel 1969 cardinale da papa Paolo VI. Fu arcivescovo di Parigi dal 1968 al 1981. Questa conferenza del Card. Marty è stata pronunciata la domenica 12 dicembre 1976 a Notre-Dame de Paris.

 

Letto 6688 volte Ultima modifica il Giovedì, 05 Aprile 2012 12:00
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search