Dopo un motu proprio, una Lettera ai vescovi che lo accompagnava, e ora questa recente Istruzione, sembra proprio che quella profezia avesse colto nel segno: la divisione è una possibilità reale di quel provvedimento, che ora potrebbe realizzarsi con maggiore facilità.
Bisogna riconoscerlo: il “monstruum” era tale fin dall’inizio. Quando si vuole rileggere una tradizione rianimando un rito «caduto fuori della vigenza», come quello del 1962, e ostinandosi a presumere fatti che non ci sono e a costruire finzioni giuridiche senza riscontro reale – con la pretesa che un equilibrismo azzardato e rischiosissimo concepisca una doppia vigenza parallela di due forme diverse e tra loro in tensione del medesimo rito romano – il nodo delle contraddizioni è destinato ad annodarsi sempre più, e per quante commissioni si istituiscano, per quante consultazioni si prevedano, per quanti dvd con messe preconciliari si producano e si distribuiscano, per quanti “diritti dei fedeli” si riconoscano, la confusione aumenta sempre più e lo smarrimento non diminuisce.
Anche l’ultimo anello della catena – l’Istruzione Universae Ecclesiae – risulta schiacciato da un problema strutturalmente insolubile: come si fa a “istruire” intorno ad una contraddizione patente? Più si istruisce e meno si capisce. Se all’improvviso – e non si sa ancora in base a quale principio giuridico o tradizionale – un rito “non più vigente”, superato dalla versione riformata dello stesso, torna magicamente in vigore e pretende di valere in parallelo rispetto a quello che lo aveva intenzionalmente emendato, rinnovato e superato, tutto subisce una sorta di deformazione irrimediabile. Con gli attaccamenti e le nostalgie, assunti come principi di ordinamento ecclesiale, non si è mai andati molto lontano. Infatti, sulla base di questa visione altamente problematica, qualunque prete ora potrebbe scegliere di celebrare il rito dell’eucaristia con la forma rituale che preferisce, purché la celebri “in privato”. Davvero istruttivo: due contraddizioni individualistiche, sovrapponendosi, non realizzano altro che una forma paradossale di non celebrazione e di non identità.
D’altra parte, sul versante dei fedeli, un qualsiasi gruppo può avere diritto a veder celebrata una messa cui assistere secondo il rito non più vigente. E ora si dice – con la precisione di un’ecclesiologia da supermercato o da multisala cinematografica – che è “gruppo valido” anche quello formato da un fedele di Bergamo, uno di Vicenza, tre di Como (ma di parrocchie diverse, ovviamente) e uno di Novara. Anche questo è veramente molto istruttivo sulla natura comunitaria della chiesa.
Ma non basta, la logica del rito “extraordinario” è talmente eccezionale che, quando cozza con la realtà, ha la forza di piegare anche la legge. Perciò quando il Codice di diritto canonico vigente non è coerente con le rubriche del rito non più vigente, nessun problema: dev’essere applicata la legge che vigeva nel 1962, ossia il codice del 1917, che però oggi non vige più. Niente paura, è giusto, infatti, che al rito non più vigente corrisponda la legge non più vigente. Che cosa c’è di più istruttivo di questa coerenza tra rito e legge nella non vigenza?
Ma ancora, se anche si riconosce che ordinariamente non si dà alcuna forma di ordinazione con rito extraordinario, tuttavia, in taluni casi, un’eccezione è possibile e a taluni (privilegiati, sì, ma quasi da compatire) è data la facoltà di ordinare secondo il rito preconciliare. Come può non essere istruttiva questa puntuale chiarificazione delle eccezioni alla sacrosanta inaggirabilità del rito ordinario?
Vi è poi l’accurata delineazione del “presbitero” ritenuto “idoneo” alla celebrazione secondo il rito non più vigente. È vero che deve vedersela con la lingua latina, ma orientarsi nelle 5 declinazioni e avere qualche esperienza di paradigmi verbali sono requisiti sufficienti allo spelling basilare, che “satis est” perché la forma più formale sia salva e dunque valida. Che poi si conosca il rito nella sua struttura, lo si deve presumere in base alla “spontaneità” con cui il prete lo richiede: l’effetto istruttivo rasenta qui una sottile e compiaciuta ironia.
I molti dettagli della nuova Istruzione – di cui abbiamo citato solo qualche rimarchevole fiore – illustrano bene la catena inesauribile di paradossi – osservati con divertita preoccupazione – in cui si inciampa, quando si perde il senso della realtà e si imbocca la via del sogno, dell’illusione e della mistificazione.
Che cosa vuol dire che ora dovremo inserire, nel messale del 1962, nuovi santi e nuovi prefazi? Come facciamo a pensare che si debba fare la riforma di quel rito che già è stato riformato, con tutti i nuovi santi, nuovi prefazi, nuove collette, nuove letture bibliche, nuove preghiere eucaristiche, nuove superoblata, nuovi postcommunio? Abbiamo bisogno di un’altra riforma, che aggiunga santi e prefazi al rito non più vigente del 1962? Ma non siamo ormai nel 2011? Ci siamo forse risvegliati all’improvviso, dopo un sonno di 49 anni? Come si fa a non capire che tutto questo affannarsi nel vuoto, e a vuoto, serve solo a confondere e a disperdere energie e forze?
Tutto considerato, ci si è occupati già fin troppo di queste chimere senza futuro. Il rito del 1962 non è più vigente da quando è stata approvata la nuova forma del rito romano da parte di papa Paolo VI. Da questo punto di vista, il rito romano è reso vivo e fiorente per la tradizione dalla nuova forma, mentre quella forma e quell’uso definiti provvisoriamente nel 1962, per esplicita dichiarazione di papa Giovanni XXIII, sono ora superati, esauriti, senza più né vigenza né tradizione. Ogni tentativo, per quanto autorevole, di negare questa evidenza, produce solo illusioni, contraddizioni e disorientamento.
L’intento del motu proprio era di “riavvicinare” le sponde dello scisma lefebvriano. A quasi 4 anni di distanza, e con tutto quello che è successo dal 2007 in poi, possiamo dire con sicurezza: non expedit. L’Istruzione dice, invece, che il motu proprio «ha reso più accessibile alla Chiesa universale la ricchezza della Liturgia Romana». Ossia pretende di svincolare il provvedimento dalla giustificazione contingente che lo aveva motivato originariamente.
Da un’Istruzione ci si attende che risolva i problemi - ma qui nulla viene veramente risolto - non che faccia teologia approssimativa - e qui purtroppo ci si azzarda a farla con troppa disinvoltura.
La ciliegina sulla torta, quanto a Istruzione, è il titolo: Universae Ecclesiae. L“universa ecclesia” - in verità - non si appassiona affatto ai temi dell’Istruzione e non vi si riconosce. Anzi, per farvela partecipare, bisogna proprio chiamarla in causa almeno nel titolo. Se proprio dovessimo dire, le pretese del documento generano una “Multiversa Ecclesia”, addirittura una “Controversa Ecclesia”. La stessa Commissione, che ha elaborato il testo, ha il nome di “Ecclesia Dei”, ma il nome completo del documento da cui trae il proprio appellativo è “Ecclesia Dei afflicta”. Ahimé, proprio afflizione, e non riconciliazione, sembra scaturire da questa sua infelicissima Istruzione.
Andrea Grillo
(da Settimana, n. 20, anno 2011, pp. 8-9)