Non è facile muoversi nella comprensione e delimitazione della categoria della globalizzazione, nonostante sia diventata una parola tra le più presenti nel nostro linguaggio. Spesso, fa l'effetto del classico concetto contenitore, al quale si ricorre quando non si sa più cosa dire a fronte di una realtà che sfugge e sorprende per i suoi dinamismi costitutivi. È a questo proposito che lo studioso tedesco U. Beck ha affermato che definire la globalizzazione è come "inchiodare un budino al muro". La questione di fondo consiste, effettivamente, in un problema di comprensione intellettuale di quanto sta accadendo complessivamente nel mondo contemporaneo. Ci mancano strumenti cognitivi adeguati per penetrare le dimensioni effettive di cambiamenti che sono ancora in atto. In questo senso, faremo bene a diffidare subito di quanti tendono a definire la globalizzazione come un dato necessariamente ineluttabile, progressivo e irreversibile, invece di sostare sul fatto che essa si presenta come una tendenza in atto, i cui effetti si fanno certamente sentire in peggio o in meglio. Dobbiamo lavorare su indizi, perché abbiamo a che fare con un contesto globalmente in fase di ristrutturazione.
Molto lucidamente, fin dal 1995, il Gruppo di Lisbona ebbe modo di sottolineare il fatto che il ricorso crescente a nuovi concetti quali globalizzazione, mondializzazione, internazionalizzazione ... "esprime il bisogno di comprendere processi la cui visibilità e il significato restano inafferrabili se si continuano ad usare concetti tradizionali".
EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE?
Il termine globalizzazione almeno in prima battuta, rinvia alla diffusa percezione che le nostre realtà locali sono sempre di più segmenti di un mosaico più vasto. La conclusione che segue quasi spontaneamente è quella di considerare la globalizzazione - come di fatto sta accadendo - da due punti di vista sostanzialmente in conflitto tra loro, ma che paiono entrambi legittimi, creando una confusione concettuale dalla quale non si riesce a uscire.
Da una parte, c'è chi presume che la globalizzazione significhi finalmente l'opportunità reale per un'integrazione tra culture diverse.
Per contro, c'è chi legge la stessa globalizzazione come l'avvento di un processo di uniformità del mondo, sotto e per mezzo di alcuni poteri più forti di altri. Da un certo punto di vista, entrambe le interpretazioni presentano buone ragioni a loro sostegno, così come tutte e due potrebbero essere assunte per collocare la comprensione della globalizzazione nella dialettica interna dei limiti e delle opportunità di un medesimo processo.
È evidente, inoltre, che molte difficoltà connesse al concetto della globalizzazione derivano dal fatto che le forme e i processi che assume sono molteplici e svariati perché, ad es., non si può ancora affermare che essa abbia assunto ovunque le medesime caratteristiche. Il Gruppo di Lisbona sembra rifiutare il termine di globalizzazione a favore di quello di mondializzazione, al fine di evidenziare meglio questo aspetto. In questa ottica, noi siamo in presenza di numerosi processi di mondializzazione: "della finanza; dei mercati e delle strategie, in particolare della concorrenza; delle attività di ricerca e di sviluppo; degli stili di vita e dei modelli di consumo, e di forme iniziali di mondializzazione della cultura; di certune legislazioni e di alcuni campi di governo politico; della percezione e della coscienza dei problemi e delle opportunità".
Diffusa è anche la lettura della globalizzazione in termini di processo che inesorabilmente procede verso una sorta di tabula rasa di quanto ha a che fare con il locale, il particolare. Le comunità locali, in altri termini, sono destinate a essere fagocitate dal nuovo Leviatano della globalizzazione. Dal canto suo, uno dei maggiori antropologi contemporanei, C. Geertz, ha messo in rilievo, invece, come il processo di globalizzazione sia intimamente legato a fenomeni di revival etnico e locale, insistendo sul fatto che sotto la rete planetaria tesa dall'integrazione economica e dalla comunicazione, emergono conflitti, resistenze, attriti.
Vicino a questa lettura sembra il sociologo A. Giddens, che per globalizzazione intende "l'intensificazione di relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località distanti facendo sì che gli eventi locali siano modellati dagli eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e viceversa". Quest'approccio introduce la prima prospettiva nuova di lettura dei processi strutturali e culturali: i fenomeni sociali non possono essere più colti nelle loro espressioni e valenze soltanto locali, oppure soltanto mondiali, ma secondo una prospettiva glocale. Globalizzazione, allora, sta qui a indicare un processo sempre più intenso di comunicazione-influenza tra il globale e il locale.
È U. Beck ad aver fermato l'attenzione sulla prospettiva del glocale, spostando l'attenzione da un concetto di globalizzazione troppo astratto e insieme fortemente ideologico, ad un altro in cui il tratto specifico della globalizzazione consiste nell'estensione e nella densità della rete di interdipendenze fra globale e locale di cui l'intera umanità sta prendendo coscienza, in primo luogo mediante l'immagine riflessiva che viene prodotta dai mezzi di comunicazione di massa. In questa nuova prospettiva, la globalizzazione è un processo inedito che non va ricondotto né alla mondializzazione dell'economia, né all'internazionalizzazione e interdipendenza delle economie locali. Siamo, invece, in presenza di nuovi "processi in seguito ai quali gli stati nazionali e le loro sovranità si subordinano e si intersecano per mezzo di attori sovranazionali" a "scelte di potere, di orientamenti, identità e trame di relazioni", scrive U. Beck, connotate dall'orizzonte cognitivo della globalità.
PERCHÉ LA GLOBALIZZAZIONE
L'antecedente storico dei nuovi processi della globalizzazione va ricercato, anzitutto, nella fine del mondo bipolare. Il paese e la nazione hanno improvvisamente perso gran parte della loro valenza economica, nel momento in cui l'estendersi e l'intensificarsi delle relazioni di traffico, di comunicazione e scambio, hanno cominciato a svolgersi al di là dei confitti nazionali (J. Habermas). Così la formazione di entità transnazionali, in maniera più facile del previsto, è riuscita a coniugare i bisogni locali con l'affermazione di strategie produttive e di profitto a carattere planetario.
Decisiva, inoltre, è stata l'affermazione dell'information technology, con la promozione del potere della conoscenza delle tecnologie e dell'aumento esponenziale del tasso di obsolescenza delle innovazioni tecnologiche. A questo livello, vale la pena di sottolineare tale elemento, si decide uno dei punti in grado di discriminare effettivamente i paesi poveri dai paesi ricchi. Certo, il criterio economico rimane ancora emblematico, ma quello delle conoscenze e della formazione, in vista dell'uso della nuova information technology, è in grado di decidere una nuova soglia della libertà e dell'uguaglianza effettive tra paesi ricchi e paesi poveri.
Più in generale, il sistema della comunicazione è stato e continua a essere quello che maggiormente porta, per così dire, la globalizzazione in casa nostra. I sistemi e le tecniche di comunicazione si sono moltiplicati, integrati e, quel che più conta, si sono accelerati, rendendo sempre più a portata di mano i collegamenti e instaurando relazioni di interdipendenza e di mobilità tra istituzioni, macchine, individui sparsi in tutti gli angoli della terra.
La progressiva ascesa del potere dei mercati finanziari ha portato alla chiusura del cerchio. La formazione di un mercato finanziario globale è il primo vistoso segnale dell'apparire di una nuova realtà che alcuni non temono di definire nei termini di un globalismo economico, forte, onnipervasivo, in grado di insinuare ovunque la logica calcolatrice di un economicismo selvaggio e ultraliberista. In parte, si tratta di un fenomeno scaturito dalla deregulation e dall'euromercato. È certo, in ogni caso, che si è verificata una trasformazione importante, economica ma insieme culturale: la struttura finanziaria dell'impresa ha via via preso il posto di quella reale, incentrata sulla produzione di beni e servizi. Come ha esemplificato S. Zamagni, se un tempo i contratti avevano la funzione di permettere la circolazione di merci, oggi mirano anche a "creare prodotti finanziari".
Abbiamo assistito a quel processo di smaterializzazione dell'economico che ha portato in primo piano la moneta, compresa la moneta elettronica, e in generale i cosiddetti beni immateriali. Di per sé il libero movimento dei capitali non è un fatto nuovo nella nostra storia; quello che costituisce il dato innovativo dei processi della globalizzazione economica è l'enorme importanza assunta dai mercati finanziari. Si tratta della cosiddetta "finanziarizzazione dell'economia", e cioè della riduzione della ricchezza al solo scambio di moneta. Si fa sempre più presente questa inedita situazione in cui "la gran parte dei capitali scambiati in borsa ha un valore fittizio, a causa degli incroci azionari e di altri espedienti. Il mondo sembra schiavo di banconote dietro le quali c'è solo la copertura di un'altra carta con un timbro statale o privato. Ma lo pseudo capitale ha ormai sedotto ampi strati della popolazione. È la seduzione di un potere più forte del potere: l'apparenza. Spettri di carta sotto il cui segno la vita economica diventa luogo di illusione e, appunto, di apparenza".
CAPITALISMO GLOBALE
Noi abbiamo a che fare, dunque, con un’economia globale che non è più articolata principalmente sul commercio dell'acciaio, delle automobili o del grano, tanto per intenderci, quanto invece sullo scambio di azioni, obbligazioni e monete. I mercati finanziari sono i soggetti e la vera forza propulsiva, o la causa di tracolli repentini delle economie. Gli stessi mercati finanziari nazionali sono sempre di più assediati dal potere di un unico mercato globale, che favorisce una visione singolarmente apolide dei capitali: questi si spostano liberamente, seguendo la logica della rendita maggiore. I dati, ad es., ci dicono che l'investimento dei paesi industrializzati in azioni dei cosiddetti "mercati emergenti" è aumentata di ben 197 volte, dal 1970 al 1997. Con altre parole, questo vuole anche dire che il nord del mondo dalla globalizzazione sta solo guadagnando.
Il punto che attira maggiormente la nostra attenzione, almeno sul piano analitico, è il fatto che la moderna economia globale non trova paragoni con dinamiche precedenti tipiche del sistema economico. L'economico è prevalentemente gestito attraverso denaro elettronico, che di fatto esiste soltanto come serie di numeri nei computers: "Nella nuova economia elettronica globale - ha scritto Giddens - i manager che gestiscono fondi di investimento, banche e grandi aziende multinazionali, oltre al denaro di milioni di investitori privati, possono trasferire enormi capitali da una parte all'altra del mondo con un clip sul mouse. Così facendo, rischiano di destabilizzare economie apparentemente solidissime, come è accaduto l'anno scorso nell'Est asiatico". Ciò significa, detto in maniera più brutale, che fino a questo momento la finanziarizzazione dell'economia ha rappresentato un potente strumento di amplificazione della capacità di speculare sugli andamenti dei mercati e delle monete, diventando così un fattore decisivo delle sorti di molti paesi, soprattutto dei paesi più poveri.
I cosiddetti paesi in via (una via che già di per sé era lunga e tortuosa, e che ora sta diventando ancora più lunga e tortuosa...) di sviluppo hanno scoperto il mercato e visto crescere rapidamente i redditi. Con qualche precisazione. Questi paesi, come ben sappiamo, sono privi di una solida infrastruttura finanziaria, di un sistema bancario moderno e, soprattutto, di un sistema legale adeguato. In secondo luogo, sappiamo anche che in tali paesi domina un'oligarchia che per lo più non rende conto a nessuno del proprio operato, ed è stata l'unica ad approfittare della liberalizzazione per arricchirsi rapidamente e aumentare il divario interno tra ricchezza e miseria. Anche se non è l'unico motivo, quest'ultimo si presenta certamente come quello decisivo nel provocare una recrudescenza di conflitti etnici e religiosi che parevano superati. Infine, là dove predominano la corruzione e un sistema economico-legale chiaramente inefficiente, il capitalismo globale non ha fatto altro che compromettere ulteriormente il processo di sviluppo.
È per questo che osservatori attenti, come S. Latouche, affermano che con la globalizzazione si è verificata la morte dello sviluppo, con l'inevitabile aumento delle diseguaglianze. "La polarizzazione della ricchezza tra le nazioni e tra gli individui raggiunge oggi livelli senza precedenti. La ricchezza del pianeta è aumentata di sei volte dal 1950, ma è regredita in 100 paesi su 179; e così pure la speranza di vita. Le trentadue persone più ricche del mondo hanno un reddito pari al prodotto interno lordo dell'Asia del Sud. In queste condizioni, non è più attuale parlare di sviluppo". Da un altro versante, forse con minor radicalismo, anche Giddens tuttavia riconosce non solo che bisogna smontare l'ingenua visione che fa della globalizzazione solo una forza benigna, ma anche che si deve affermare che essa crea un mondo di vincitori e di vinti. "E in effetti le statistiche sono inquietanti. La percentuale di reddito a disposizione di quel quinto della popolazione mondiale che rappresenta la fascia dei più poveri è crollata negli ultimi dieci anni, dal 2,3 all'1,4 %. Dall'altro lato, la porzione appannaggio del quinto più ricco è salita ulteriormente".
UN CAPITALISMO SENZA DEMOCRAZIA?
Tra le varie questioni sollevate dalla globalizzazione economica, ve n'è una particolarmente cruciale. Essa riguarda la nascita di una nuova figura del potere, ossia quella di un potere globale, deterritorializzato, che si sposta saltando qualunque vincolo, per colpire e realizzare interessi che fino a questo momento sono gli interessi di chi già era forte. A farne le spese è soprattutto la figura del potere politico così come l'abbiamo conosciuta, a partire dalla modernità e dai suoi sviluppi, specialmente nella sua versione democratica. Il dato centrale, a tale proposito, riguarda la costante crescita della divaricazione tra controllo politico istituzionalizzato (legato al territorio) e ambito in cui vengono decise le istanze: più significative per la nostra vita personale e collettiva. Come abbiamo visto l'ambito economico è quello più esemplare all'interno di questo scenario inedito. La questione imprescindibile, allora senza tanti giri di parole diviene la seguente: riuscirà la democrazia con la sua figura del potere distribuito partecipato e dialogante a fare fronte all’avvento di questo nuovo potere globale, insofferente verso ogni regola e vincolo?
Alla luce dei fatti fin qui verificatisi, possiamo solo dire che si tratta di una sfida in atto, le cui sorti non sono ancora decise (c'è spazio per lottare e per resistere, ma una strategia di questo tipo, probabilmente, è destinata a essere perdente). Il tempo sta dalla parte del nuovo Leviatano della globalizzazione. Cresce la schiera di coloro che fanno professione di fede sull'ineluttabilità della globalizzazione. Le alternative, realisticamente parlando, fanno fatica ad emergere: non abbiamo in questo momento alcuna strategia capace di opporsi altrettanto globalmente agli effetti destabilizzanti dell'economicismo globale. In maniera preoccupante, infine, assistiamo al dilagare di una politica delle porte aperte alla libera circolazione dei capitali finanziari e commerciali, accompagnata dalla riduzione al minimo delle regole e dalla massimizzazione della flessibilità dei mercati del lavoro e della finanza. Tra i vari aspetti che meritano un approfondimento particolare, vi è quello che concerne gli effetti sul lavoro quotidiano degli uomini e delle donne nelle nostre società. Gli imperativi della flessibilità, efficienza, produttività, competitività, utilità, individualismo, stanno plasmando forme di vita che mascherano una silenziosa rivoluzione antropologica, di fronte alla quale emerge l'impotenza del nostro bagaglio etico.
Il nuovo uomo flessibile è l'incarnazione di una precarizzazione dell'esistenza che risulta funzionale esclusivamente alla nuova aggressività dell'economico-globale. Non c'è soltanto, come abbiamo visto, un'ulteriore divaricazione tra ricchi e poveri nel pianeta, ma la disgregazione all'interno delle nostre società tra quelli che sono flessibili e competitivi e quelli che vengono sganciati perché non lo sono: persone, città, parti di regioni, regioni intere. C'è qui un dato nuovo: mentre nel passato le ineguaglianze potevano implicare dinamiche di assorbimento, di riduzione della povertà, i fenomeni di sganciamento, propri della società globale, sono invece definitivi, strutturali. La globalizzazione è un processo che comporta una destrutturazione sociale non ricomponibile. Si guarda ai costi, in primo luogo, e i costi della ricomposizione sociale sono troppo alti, pongono vincoli, esigono il confronto democratico. Per questo, siamo un po' tutti più accondiscendenti verso un nuovo darwinismo sociale: se uno non ce la fa, o è per colpa sua, o è perché costa troppo alla competitività del sistema. Nell'uno come nell'altro caso risulta logico il suo sganciamento.
PER UN NUOVO CONTRATTO SOCIALE
È giunto il tempo per avviare un nuovo contratto sociale su scala mondiale, grazie al quale si utilizzi la produttività per soddisfare i bisogni di base connessi alla dignità della persona. Un nuovo contratto sociale per ricontrattare la cittadinanza e la nuova configurazione del diritto sociale, pericolosamente eroso dalla proliferazione dei diritti particolari, frutto della seconda modernità neoindividualistica. Lo spaesamento destrutturante del mercato globale e flessibile esige che si proceda verso una rifondazione dello stesso legame sociale, mettendo in discussione il primato assoluto dell'individuo, ricollocandolo in quelle comunità che ne garantiscono l'identità, che impongono doveri e assumono diritti non alienabili.
Senza una riscoperta della politica non è possibile arginare un economico che tracima da tutte le parti, imponendo se stesso come unica regola. La globalizzazione non ha sancito la morte della politica, ma soltanto la morte di una politica incapace di assolvere al proprio compito. Così come il capitalismo globale riuscirà a trionfare soltanto se la democrazia non saprà affrontare la sfida di una cittadinanza globale, che esige nuove regole e una nuova creatività normativa, la cui novità non è data tanto dalle dimensioni delle applicazioni, ma da una nuova consapevolezza dei valori, quali la libertà e la giustizia, la partecipazione e la cittadinanza, la dignità umana e il valore della vita.
Si tratta di coltivare una nuova grammatica umana elementare, arricchita dalle nuove declinazioni dell'autenticità, integrata nello schema originario dell'intersoggettività, non reticente di fronte alla nuova fisionomia assunta del senso del nascere e del morire, attenta alle nuove coordinate del sé narrativo, in grado di valorizzare quella rivoluzione degli affetti che percorre le nostre società postindustriali, per costruire una convivenza in cui l'economico sia rimesso "al suo posto come semplice mezzo per vivere e non come fine ultimo" (S. Latouche).
Lorenzo Biagi
(da Rivista di Teologia Morale, n. 127 (2000), pp. 323-330)