L’idea di Chiesa Popolo di Dio
di Dario Vitali
Spesso su questa rubrica ho richiamato le due ermeneutiche del Concilio evocate da papa Benedetto XVI: “l’«ermeneutica della discontinuità e della rottura», opposta all'«ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa». Se si vuole indicare un esempio di ermeneutica della discontinuità e della rottura, il caso sicuramente più emblematico è quello del capitolo II della Lumen gentium, che mette a tema il popolo di Dio.
In effetti, gli anni dell'immediato post-Concilio sono stati segnati dal dibattito infuocato sull'ecclesiologia conciliare e sulla formula che meglio la esprimeva: "popolo di Dio" era diventato in quegli anni la cifra e la bandiera del rinnovamento conciliare, purtroppo frenato da gravi resistenze nella stessa aula conciliare ad opera di una minoranza, che propose e ottenne formule di compromesso come "sacramento", "corpo mistico", "comunione", capaci di svuotare o indebolire la forza sovversiva dell'idea di Chiesa-popolo di Dio. Non può sfuggire il carattere ideologico dell'affermazione: "popolo di Dio" si trasformava nel contenitore in cui si riversavano tutte le attese di rinnovamento ecclesiale, sbilanciate su un ideale "democratico", che si disponeva ostilmente verso tutto ciò che sapesse anche solo larvatamente di autorità.
Oggi non può non sorprendere tanta acrimonia e soprattutto tanto spreco di energie per una discussione che non trova giustificazione nella Lumen gentium. La diatriba era già viva ben prima del Concilio, quando — soprattutto in area tedesca — si volle opporre l'immagine di popolo di Dio all'identificazione della Chiesa con il "corpo di Cristo" proposta da Pio XII nella Mystici Corporis. Ma questa alternativa non appare nel testo della costituzione conciliare, che invece mostra di voler comporre le immagini, utilizzate per illustrare la natura e la missione "dell'unico soggetto-Chiesa", colto in momenti e sotto angolature diverse. Certo, si potranno cogliere asperità, anche imprecisioni e qualche incongruenza per il lungo iter redazionale del documento. Ma, se lo si legge senza prevenzione, bisogna ammettere che il capitolo sul popolo di Dio si inserisce con naturalezza in un contesto più ampio, che è quello del “mistero”, idea di fondo che guida tutta la Lumen gentium, ma anche la Dei Verbum e funziona da cornice in cui inscrivere tutti i documenti del Vaticano II.
Sullo sfondo del progetto di Dio la Lumen gentium sviluppa una visione trinitaria della Chiesa, che già nel cap. I è descritta come «popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito», secondo la celebre espressione di Cipriano di Cartagine. Certo, Cipriano usa plebs e non populus; ma è indubbio che si tratti del popolo di Dio, che in LG 2 comprende «tutti i giusti, a partire da Adamo, "dal giusto Abele fino all'ultimo eletto"»; in LG 3 è identificato con «tutti gli uomini chiamati alla unione con Cristo»; in LG 4 e LG 6 è adombrato nel pellegrinaggio della Chiesa verso la piena comunione con Cristo. La finale poi di LG 8, che conclude il cap. I e serve da raccordo al II, costituisce una cerniera che mostra Ia piena continuità e complementarità di prospettive dei due capitoli: «La Chiesa prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio, annunziando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga».
D'altronde, una regola di semplice buon senso - prima che un principio dell’ermeneutica - vuole che l’interpretazione di un testo non contraddica l'intenzione di chi quel testo lo ha scritto o almeno sottoscritto e non sovrapponga al testo un criterio di lettura diverso da quello che il testo manifesta. Ora, opporre l'ecclesiologia del popolo di Dio a quella della Chiesa-comunione, o della Chiesa-mistero, o della Chiesa-sacramento, a ben vedere, significa trasferire l’antitesi dentro la costituzione sulla Chiesa, supponendo quantomeno un processo redazionale che non avrebbe colto la contraddizione, e implicitamente dichiarare sprovveduti tanto i Padri quanto i periti che quel testo hanno sottoposto a infinite revisioni. Una vera ermeneutica del Concilio non può mai trasformarsi in pretesa di attribuire ai Padri conciliari un’intenzione ad essi estranea, riconducendo tutto e tutti a un disegno ecclesiologico che non ha attinenza con la mens dei protagonisti dell'evento conciliare e con la logica dei documenti.
Peraltro, affermare la continuità tra LG I e LG II non significa svuotare l’idea di popolo di Dio della sua forza innovativa. Significa però superare l'affermazione che solo nella sua versione “democratica" tale idea abbia carattere di novità. Con tutto ciò, il più delle volte basta una lettura fedele del testo per cogliere prospettive che sono molto più avanzate della supposta novità del Concilio declinata su registri ideologici.
(da Vita Pastorale, marzo 2009)