Le rappresentazioni culturali:
credenza o esperienza?
di Aldo Natale Terrin *
Introduzione
a) Il mondo delle scienze positive è scardinato
Il rapporto dicotomico tra scienze naturali e scienze dello spirito, che storicamente è stato al centro di divisioni e di malintesi non è più così forte. Le scienze fisiche non sono più in grado di mettere in crisi i mondi religiosi e le loro acquisizioni. Le reciproche accuse tra «naturalisti» e coloro che sono aperti in genere al mondo dello «spirituale» si vanno spegnendo e nessuna disciplina intende più portare la sua epistemologia conoscitiva su un campo che non conosce più né vincitori n vinti.
Tutto si sta modificando e trasformando entro le scienze stesse. Oggi anche nelle scienze fisiche si riconosce che vi sono «imprevedibilità», «discontinuità», «convergenze non lineari», «singolarità di eventi», emergenze nuove e così via1, mentre, per altro verso, le scienze dello spirito riconoscono sempre più il loro impianto nella realtà fisica e fisiologica, con tutti i problemi connessi2. Le scienze fisiche diventano «più flessibili» e le scienze dello spirito diventano meno estranee al mondo degli «eventi naturali». Infatti non possono pretendere di porsi fuori dal mondo.
Il nuovo quadro, che si istituisce a partire dalla diverse concezione epistemologica delle scienze, contempla, pertanto, la messa in esercizio di un contesto antropologico frutto di una sensibilità più sfumata e attenta dove non c’è più spazio per le contrapposizioni e per i dualismi di facile lega del passato. Non è che sia mutata l’essenza della ricerca scientifica, ma si tratta di vedere oggi come nelle scienze naturali non sia più di casa la prevedibilità e la determinazione e come le cose si muovano in modo alquanto diverso da quella che era la visione classica newtoniana. Dunque, si tratta di tenere conto di qualcosa di cui non si era mai tenuto conto. Ora, tutto ciò ha a che fare con l’intero nostro modo di metterci in rapporto con il nostro ambiente, con il nostro modo intenzionale e intersoggettivo di essere al mondo. Ci riguarda dunque in maniera essenziale.
Questo nuovo stato di cose potrebbe essere indicato ad esempio, attraverso una delle tante questioni del tipo se sia possibile descrivere in natura qualcosa senza specificare il relativo quadro di riferimento. Se si intende avere una prima intuizione circa questo nuovo porsi di fronte al mondo, basterebbe osservare il fatto che quando diciamo «destra», «sinistra», «sotto», «sopra», «fermo», «in movimento», queste distinzioni perdono improvvisamente la loro ovvietà appena si entra nel campo della fisica contemporanea3. Oppure è sufficiente immaginare le nuove concezioni circa il tempo, discontinuo e quantico, in fisica4 tempo legato, per altro verso, a tali variazioni culturali in antropologia da sconvolgere il pensiero stesso di una cultura5. Ci si accorge, d’improvviso, che il mondo non è stabilito una volta per sempre e che piuttosto — come scrive, in maniera alquanto provocatoria, l’antropologo Tyler — «le descrizioni della realtà sono solo imitazioni della realtà. Sono mimesi, ma mimesi che creano solo illusioni di realtà, come nelle finte realtà della scienza. E’ il prezzo da pagare per far fare al linguaggio il lavoro degli occhi»6.
Una volta accertata questa prima tesi, è mia intenzione far vedere, in seconda battuta, come, se i mondi religiosi in maniera legittima si stanno affrancando da una soggezione indebita alle scienze e stanno acquistando un nuovo statuto di validità, in nome di una rivalutazione del simbolico fuori dall’oggettivazione, per altro verso, proprio questi mondi cosiddetti spirituali vivono in gran parte ancora in un contesto oggettivistico e acritico. Non si può più supporre di poter governare il mondo a partire da una manciata di assiomi ritenuti semplicemente oggettivi e autoevidenti nello stesso tempo. In particolare, intendo denunciare una contraddizione. Se le scienze da sempre ritenute a sfondo positivistico stanno abbandonando l’oggettivismo e il gioco troppo facile della determinazione causale in nome di una complessità sempre più articolata nella comprensione del mondo, sembra che vi sia una contropartita da richiedere anche da parte del mondo delle religioni e del mondo teologico. In particolare, all’affrancamento delle scienze e della cultura dall’oggettività come criterio di verità, ci deve essere una corrispondente presa di coscienza da parte delle credenze religiose in cui non si pretende più una corrispondenza perfetta, una «disponibilità» piena dell’oggetto, facendo appello semplicemente a una improponibile metafisica della presenza.
b) Le scienze positive sono sempre meno positive, mentre le scienze religiose che di natura dovrebbero essere «simboliche» si appellano sempre più ad una positività che spaventa.
L’antropologia culturale, nella rivisitazione di questo nuova prospettiva epistemologica, in cui si ha che fare in qualche modo con «dinamiche sporche», o forse con il punto dell’epistemologia stessa7, e non più con l’elegante scienza deterministica che tutto prevede, non può certo consegnare nulla di nuovo alle scienze religiose o alla teologia, ma può portare l’attenzione su un modo più significativo e meno oggettivistico di concepire la realtà umana. Dunque l’antropologia può essere di stimolo alla riflessione teologica e cristiana per un inserimento più consapevole di quella che potremmo chiamare la visione simbolica entro il quadro delle scienze contemporanee, rendendo la verità religiosa più attenta al fatto che l’oggettivismo non gode più di alcuni priorità; anzi l’antropologia potrà evidenziare come tale oggettivismo diventa per lo più un fardello inutile e dannoso per le varie epistemologie contemporanee, e dunque è qualcosa che fa ancor meno presa in ordine alla significazione simbolica e religiosa. In definitiva, il procedimento in corso in rapporto alla scienza e all’antropologia culturale, indicando come centrale la crisi di ogni rappresentazione, esige un’occorrenza parallela e indispensabile: anche le credenze stesse e la teologia dovrebbero, a loro volta, sottrarsi in qualche moda a uno schema troppo referenzialistico, tipico del realismo metafisico, in quanto sembra sempre più difficile che i contesti religiosi si possano ancora comprendere all’interno delle vecchie epistemologie. La nuova mentalità scientifico-culturale infatti non sa a che cosa possano servire le verità eterne e oggettive, mentre si trova a fare sempre più i conti con i «frammenti», con le «dissonanze» e con le «discontinuità». In particolare, quella che veniva chiamata l’orno-teologia — secondo la visione heideggeriana8 — appare davvero un peso morto all’interno dell’esperienza in genere, e dentro l’esperienza religiosa in particolare. Soltanto se le credenze vengono mantenute a un alto livello di tensione e di dinamicità possono avere oggi un profilo qualificato, dato per scontato che la soggettività ha una sua parte fondamentale e inalienabile nella costruzione della realtà.
La posizione attuale del sapere scientifico
1. La difficoltà attuale nel controllo del progresso scientifico
Il mondo scientifico sfugge a ogni controllo. Il mondo attuale si presenta come una grande fabbrica di novità. Tutto si trasforma, tutto diventa fattibile. Il sangue di Prometeo scorre impetuoso nelle vene dell’uomo tecnologico e informatico contemporaneo. L’ybris di questo uomo è smisurata e ancora nessuno è in grado di immaginare gli scenari a cui approderà. Non sappiamo se porterà la vicenda dell’uomo sulla terra verso tragedie e catastrofi finali — Dio non voglia — o se invece non stia per aprire nuovi orizzonti di conoscenza, di possibilità, di grandezza e non conduca dunque verso una «super-coscienza» positiva dell’uomo sul pianeta terra. Per ora non è possibile anticipare il futuro in quanto ci sono troppe variabili, i segni sono troppo ambigui e la decifrazione di queste variabili da parte di una comunità o di un gruppo è sempre in parte ideologica e cointeressata. Sappiamo soltanto per il momento che oggi tutto è a rischio e che la tele-tecnoscienza stessa non è in grado di valutare gli esiti di questa sua invasività e violenza a cui sottopone la natura.
Progressi enormi e abnormi nello stesso tempo.
Un primo modello scientifico è stato solo oggettivamente. Se, ad esempio, è grazie ad essa che oggi sappiamo che cos’è la cellula, la molecola, l’atomo, la particella, gli elettroni, i quanti di energia, il codice iscritto nel DNA, se è per essa che conosciamo il genoma umano, lavoriamo con l’aiuto di menti artificiali, ecc..., sappiamo anche che proprio tale scienza sta all’origine di tali scoperte grazie al suo metodo analitico che disgiunge, separa, divide, controlla, e sappiamo anche che, alla fine, essa, non avendo alcuna capacità sintetica e orizzonte di comprensibilità dell’intero, è del tutto impotente a valutare i vantaggi o a calcolare i danni, in una parola, a misurare la risonanza delle sue stesse scoperte9. Questo compito, del resto, essa sostiene che non è di sua pertinenza. La scienza procede e basta: Die Wissenschaft denkt nicht (La scienza non pensa), direbbe Heidegger. Essa non conosce limiti se non quelli interni al suo stesso metodo di lavoro, ma intanto però, sotto le sue incalzanti scoperte, la nostra vita cambia e cambiano radicalmente anche le abitudini. Questo è stato il primo grande manifesto e anche il primo grande disagio creato dalle scienze a sfondo sitivistico.
2. L’uomo sta cambiando con il progresso scientifico
Un secondo modello scientifico si rende conto che l’uomo cambia con la scienza che produce. L’altro esito del progresso scientifico, ancor più problematico fino al punto di diventare esiziale, è che l’uomo si accorge che nel frattempo anch’egli sta cambiando e si trasforma con la trasformazione tecnico-scientifica del mondo. L’uomo assume una nuova natura, cambia il suo linguaggio, si racconta il mondo in modo diverso10. Si può dire che stiamo diventando, ogni giorno di più, succubi inconsci del mondo che cercavamo di dominare in un feedback continuo e minaccioso, rischiando di volta in volta effetti boomerang imprevedibili su noi stessi e su tutta l’umanità. Come sotto lo sguardo di Medusa, l’uomo oggi è sottoposto ad una trasformazione che si rivela sempre più difficile a decifrare. La scienza infatti esalta, fa intravvedere nuovi mondi possibili, spinge incessantemente verso orizzonti aperti, ma porta nello stesso tempo a un convincimento sempre più radicato e ad un tempo assai insidioso: insegna lentamente e inconsciamente a vivere sotto il dettato che conoscere il mondo non significa contemplare il mondo, ma trasformarlo11. E la forza di penetrazione di questo imperativo pragmatico non è affatto indifferente alla vita dell’uomo sulla terra, costituendo in qualche modo un attrattore occulto, che sta inesorabilmente introducendo un radicale sovvertimento di quell’humus da cui l’uomo dichiarava un tempo la sua provenienza e a cui confessava incondizionatamente la sua sottomissione.
3. Anche l’uomo che studia il mondo fa parte del mondo (Tyler)
Un terzo modello scientifico scopre una «correlazione» non più oggettivistica tra il mondo e se stesso. La prima contropartita di questo stato di cose a livello conoscitivo, conseguente ad una segmentazione a oltranza del sapere, può essere vista sotto un segno del tutto negativo. Oggi infatti, come unico risultato di questa impossibilità, appare che tutto diventa un gioco, tutto si muove come in un grande girotondo di idee, si perde ogni punto di riferimento e di orientamento e nel frattempo, una sottile vena di ipocondria epistemologica pervade l’uomo contemporaneo che non è più in grado di cogliere una vera differenza tra razionalità e relativismo12. Ma, nello stesso tempo, tale lato defettivo e negativo del conoscere non ostacola la fatticità della scienza, la quale non è sconfessata nel suo proprio terreno e continua il suo lavoro, sospingendo inavvertitamente l’uomo verso lidi che egli stesso non conosce e non sa controllare.
Forse in questo movimento e sconvolgimento non è un caso che le innovazioni tele-tecnologiche in atto siano traducibili negli stessi termini con cui parliamo dell’esperienza religiosa: hanno in sé qualcosa di ambiguo, di pauroso e di esaltante nello stesso tempo. Da una parte, in esse si gioca il tremendum, la paura di qualche cosa che non potremo più dominare. E in questo senso creano ansia, perplessità, consapevolezza dei rischi che l’umanità sta attraversando, dall’altra però in queste innovazioni vive l’elemento fascinans: si resta pur sempre affascinati, sconvolti, inebriati dalle potenzialità e dagli orizzonti che si schiudono davanti13. Si imparano nuovi linguaggi digitali, si scopre il segreto della mente umana, ci si muove irresistibilmente verso ulteriori nuove potenzialità, ci si esalta dei risultati e così cresce quell’ebbrezza che spinge ancor di più l’uomo a continuare nell’opera titanica di trasformazione della terra. Ma soprattutto si scopre, alla fine, che l’uomo si sottrae a ogni possibile processo di oggettivizzazione, tende a sottrarsi a ogni chiarificazione di carattere computazionale, a ogni neurofisiologia troppo invadente, così come si sottrae d’istinto ad ogni teologia oggettivante.
Ora, in questo contesto di innovazione e di trasformazione accelerata e incessante dove il tremendum e il fascinans si tendono la mano, dove la paura e il delirio si accompagnano, occorre sostare un momento e chiederci come ci troviamo noi ad essere e a vivere. Noi, ancora per adesso, ma forse non più per lungo tempo, «piccoli abitatori della terra», «chi siamo noi?» o, per dirla con un verso di Rilke, «quando siamo noi?». E’ importante chiederci come ci troviamo e come ci comportiamo dal punto di vista della fruizione di queste novità sconvolgenti. Queste infatti tendono a infrangere quell’ultimo corredo di tradizioni che portavamo con noi e che d’improvviso scopriamo essere un’eredità pressoché inutile. Ma questa non è l’ultima parola. Potremmo scoprire anche che la stessa esperienza religiosa richiede delle purificazioni e delle spoliazioni e che, dunque alla fine, tutto ciò può contribuire a rendere meno banale il mistero che sta a fondamento delle nostre credenze.
Sicuramente le tele-tecnoscienze, secondo questo procedere, hanno prodotto in noi degli «stordimenti di senso» per cui non siamo più in grado di congiungere il passato con il presente nella nostra stessa esperienza di significato. Si è prodotta in noi d’improvviso la convinzione che non siamo più in grado di parlare dì verità, ma forse soltanto dì coerenza. Ora, però, ci domandiamo: questa nuova autocomprensione non potrebbe forse essere assunta in maniera positiva anche all’interno dei mondi religiosi? Non può forse alla fine rivestire un aspetto catartico e liberatorio, riportandoci su un piano più chiaramente flessibile ed embrionalmente anche simbolico-trascendentale, piano che le scienze religiose e in primis la teologia rischiano sempre di dimenticare o di dilazionare all’infinito, nonostante le varie dichiarazioni? E chiaro, non si tratta affatto di sfruttare una situazione di incertezza, di «pescare nel torbido» affermando semplicemente che, se le teorie scientifiche sono controverse, le verità teologiche avranno la possibilità di mettersi meglio in bella evidenza — come è stato giustamente denunciato da qualche teologo e scienziato14 —, ma si tratta piuttosto di riconoscere un background epistemologico che corrode dall’interno ogni conoscenza e con il quale anche la teologia è tenuta a fare i conti.
4. A che livello si pone la teologia?
Viviamo in un contesto post-moderno e post-fondazionalista15 in cui ormai da tempo si percepisce l’insufficienza del pensiero moderno, in particolare di quello che credeva ciecamente alla verità scientifica nel rendere conto della condizione umana. In questo quadro, però, la teologia e le scienze religiose non considerano sufficientemente il fatto che oggi il cosiddetto razionalismo è «in sospetto», se inteso come sapere onnicomprensivo della realtà, come mathesis universalis e non si rendono conto che non si è più disposti a credere alla scienza in maniera cieca, come un tempo.
Le scienze non sognano più qualcosa come un progresso sicuro, che si basi semplicemente sulla cumulatività delle conoscenze. Questo diverso atteggiamento nasce a partire da una circolarità dinamica di tutto il sapere. Ora se questo presupposto dinamico e circolare implica in qualche modo anche una smentita parziale della storia e della tradizione del pensiero occidentale, riguardante anche un certo pensiero filosofico e teologico, per altro verso è un pensiero liberante e liberatorio rispetto al positivismo di tutti i tempi.
In questa visione più libera, si tratta soprattutto di dare corso ad un nuovo e positivo inizio anche per le scienze religiose e la teologia. Vi è stata una profonda crisi di una scienza «residuale», imbevuta di positivismo e determinismo. Questa non crede più di poter dettare legge ad ogni altro sapere e non pensa di estirpare il valore di ogni conoscenza cosiddetta simbolica. Ma più in profondità, anche l’identità tra pensiero ed essere dovrebbe essere in qualche modo revocata o almeno ripensata.
Ora, tutto questo non appare più specchiarsi nell’ampio spettro di nuova comprensione adeguata del pensiero postmoderno e non sembra affatto, per altro verso, che questa crisi epistemologica comporti necessariamente anche una crisi del pensiero religioso. Anche se il filosofo Plantinga, ad esempio, legato a una concezione classica, crede che, in questo mutato quadro epistemologico, non si salvaguardi più il senso religioso, e pertanto si dice ancora pronto a sostenere che la visione del post-moderno è dovuta soltanto ad una provvisoria «crisi di nervi»16, il problema — a mio avviso — è riduttivo se viene posto in questi termini. La realtà è un’altra: il post-moderno si fa portavoce di un’esigenza nuova. Vi è oggi l’idea del tutto legittima che a fondamento dell’epistemologia ci stia qualcosa di molto più decisivo, tale da sconvolgere il pensiero classico17. Si tratta di una crisi che va associata alla crisi parallela e più originaria dei fondamenti della scienza e del pensiero oggettivo, dove ormai si sta dissolvendo quel presupposto, mai totalmente dimostrato, secondo cui tra linguaggio e realtà sussiste una relazione intrinseca, necessaria e coerente.
Ma se questa è la nuova consapevolezza, dovrebbero esserci dei riflessi anche nelle scienze religiose, le quali non si dovrebbero sentire in grado di farsi portatrici di verità assolute, oggettive, dimostrabili, ma dovrebbero parlare più un linguaggio di fede e di credenza religiosa.
5. Conoscere è un tipo di «credenza»
Se si parte dalla vicinanza del significato di credenza con il concetto di conoscenza, come per altri motivi sembra indispensabile, è evidente che apparirà però anche la difficoltà di semantizzare il concetto stesso di credenza, che dovrebbe nel linguaggio ordinario fare da tramite tra una conoscenza comune chiara e condivisa e una conoscenza/credenza più flessibile e soltanto creduta vera e valida. Quest’ultima infatti, in seguito al pensiero epistemologico diventato più debole, pretenderebbe lo stesso statuto di validità delle altre conoscenze, pur non essendo una credenza osservabile o evidente e pur non avendo un chiaro statuto di controllabilità.
A partire da questo contrasto luce/ombra delle conoscenze/credenze si capisce come l’impiego del termine «credenza» sia uno dei termini più problematici nella nostra cultura complessa e come sia, per sua natura, commisurato in modo vincolante alla chiarificazione dei motivi e dunque sottoposto in qualche modo al concetto stesso di razionalità. Se infatti si partisse da un concetto di credenza popolare e tradizionale per cui tutte le credenze sono false credenze — come ipotizza C. Bell18 — non ci sarebbero complicazioni. Noi siamo in presenza soltanto di conoscenze, il cui diverso valore sarebbe commisurato ai tipi di razionalità che tali conoscenze esprimono. Poiché questa è la situazione, spesso oggi si preferisce in maniera appropriata parlare più semplicemente di credenze in genere, puntando poi tutto «diversi tipi di credenza in rapporto alla razionalità».
Ma non si intende rinunciare a qualificare ogni conoscenza come credenza, in quanto il concetto di credenza ci dice la non apoditticità della conoscenza caricandosi di una ambiguità semantica che la rende assolutamente attuale. In tal modo si può vedere la fragilità della conoscenza tendente a divenire credenza e avvicinandosi in questo al senso popperiano di ipotesi scientifica — come viene proposta dalle scienze oggi —, e si può vedere anche la forza della credenza come convinzione, con la possibile conversione della credenza in conoscenza attraverso un atto autoreferenziale, in un quadro o più prossimo alle scienze dello spirito e alla visione internalista della conoscenza19.
6. Il posto delle credenze religiose e della teologia: il loro riscatto
Dopo l’incursione che abbiamo compiuto nel campo del rapporto tra scienze naturali e scienze dello Spirito intorno al nuovo e più ampio significato da attribuire alla credenza, si crea uno spazio di maggiore libertà per l’insieme della esperienza e delle credenze religiose. Questo spazio è dettato da una nuova maniera di porsi davanti alla conoscenza, che istituisce ormai un campo simbolico di mutue appartenenze tra mondo delle scienze naturali e mondo delle scienze del significato, dove gli intrecci e i mutui rapporti che ne risultano non permettono più dicotomie a lungo termine.
Ora, su questo sfondo la tesi, già affiorata, consiste nell’affermare che le credenze religiose e la teologia non dovrebbero più preoccuparsi di conservare integro il loro angolo visuale, ma piuttosto dovrebbero piuttosto guardare alle grandi conoscenze attuali con libertà e coraggio, sapendo che tutto deve essere oggi ripensato e rinegoziato, anche se occorre riconoscere che questa svolta produce una certa ritrosia nelle scienze religiose e nella teologia e forse un certo traumatismo, la cui ferita potrà essere sanata soltanto lentamente.
Ciò è dovuto al fatto che da sempre la religione protegge e crea sicurezze. La religione è il luogo in cui emblematicamente non si discutono le asserzioni religiose e in cui si respinge qualsiasi forma di dubbio. Ora, la situazione attuale proprio nel momento in cui lascia più spazio alle credenze non permette più sicurezze né epistemologiche, né religiose, se non in quanto sono sorrette dall’affidamento e dalla fede. Ma bisogna convincersi che questo è il nostro mondo.
Oggi ci troviamo a vivere in una situazione che ci rende il mondo più fragile di prima, a livello conoscitivo. E’ necessario capire, in particolare, che siamo tiranneggiati da una crisi totale delle rappresentazioni, dei sensi, dei significati, delle logiche20, in quanto la tele-scienza è riuscita non solo a intaccare le verità classiche e le varie metafisiche della presenza, ma è riuscita anche a «scheggiare» dalla sua prospettiva gli stessi criteri di verità, così come i concetti di ordine, sostanza, natura, energia, il rapporto soggetto/oggetto, il concetto di spazio e tempo per cui ormai siamo consapevoli che il vecchio ideale dell’episteme di una conoscenza assolutamente certa e dimostrabile sarà per sempre un’utopia21 e la conoscenza sarà sempre più una «conoscenza personale»22. Ed è altrettanto necessario rendersi conto che tutto non viene per una «crisi di nervi» o perché non si è più disposti ad abitare in un mondo costruito dagli altri. Al contrario, è il fallimento dell’epistemologia classica e della fisica newtoniana ivi connessa che ci costringe a rivedere tutti i nostri paradigmi conoscitivi. Per questo, potremmo dire con Luhmann che l’epistemologia contemporanea è fondata più su un «costruttivismo» di base, per cui, finito il mondo fondato sulla causalità lineare, classica e sulla distinzione tra osservatore (soggetto) e realtà osservata (oggetto), oggi l’impianto conoscitivo tende a gravitare sull’autoreferenzialità dei sistemi 23. La conoscenza è intesa, per lo più — entro la teoria dei sistemi — come un insieme di osservazioni e di differenze, non più basate sul vero e falso e il terzo escluso, secondo la logica di Aristotele, ma piuttosto su un campo in cui tutto è fondato sulla semplice separazione tra spazio fisico e concettuale, e dunque tra «dentro» e «fuori» nel momento in cui tracciamo una distinzione24.
E con questo nuovo apparato conoscitivo basato su epistemologie autoreferenziali che dobbiamo abituarci a convivere, volgendo poi lo sguardo alle nostre credenze e alla nostra esperienza religiosa e teologica. Per questo ci chiediamo: dal punto di vista teologico si può guardare positivamente ad una svolta che si è prodotta all’interno del sapere? Questa domanda potrebbe confluire in quest’altra: alla fine, quella corrispondenza univoca della verità al mondo, fatta valere nella teologia in maniera analoga al determinismo della fisica newtoniana, era indispensabile al nostro credere o, piuttosto, non dimostrava il limite delle nostre stesse credenze attraverso il legame con un mondo religioso «positivista» e perciò stesso abbastanza sterile?
7. Il discorso religioso come discorso auto-implicativo
L’esperienza religiosa — potremmo dire — è un esempio concreto della credenza in quanto intesa come un tipo di conoscenza tout court. Ora, per dirla con filosofi contemporanei quali Swinborne e Alston e non certo per fare apologetica, tale credenza afferma semplicemente che in rapporto alla trascendenza, ogni esperienza che facciamo avrà una certa precedenza e sarà da ritenersi genuina almeno fin tanto che questa tesi non entra in competizione con una tesi esplicativa e scettica più forte. Questa posizione, tenendo conto del contesto pluralistico in cui viviamo, potrebbe esse suffragata e essere tradotta anche in quella visione che oggi alcuni altri studiosi a indirizzo sociologico chiamano la teoria della rational choice, come scelta più appropriata. Ciò è presente, ad esempio, nella concezione proposta di recente da Rodney Stark e R. Finke25.
Ma si può articolare quest’idea prendendola anzitutto a prestito da Swinborne26 per poi elaborarla brevemente con le integrazioni di Alston. Benché ci siano altri problemi da risolvere nella visione di Swinburne, c’è un’intuizione significativa del filosofo e cioè il fatto che la percezione di una realtà conta come «evidenza intenzionale» in ordine alla sua verità almeno finché non si riesca a percepire il contrario. Tutto ciò sembra discendere dal fatto che l’esperienza religiosa non trova conflitti diretti fuori di sé e dunque appare qualcosa di primitivo, come la percezione immediata di un bambino, la quale deve essere ritenuta accettabile e valida, finché non appaia con altrettanta evidenza il contrario rispetto a tale credenza di base.
In maniera più articolata e forse convincente sullo stesso tema, ci si può affidare poi per un approfondimento al discorso del filosofo della religione Alston 27, il quale si pone in maniera vicina — a mio avviso — sia al valore socio-culturale della credenza, sia alla sua scansione quasi a livello trascendentale, trovandosi in tal modo sullo stesso contesto attribuito all’apriori religioso di R. Otto. Egli difende la «circolarità della credenza» e in particolare difende la tesi che chi crede in Dio non si comporta affatto in modo irrazionale quando interpreta le esperienza religiose come esperienze di Dio, traducendo poi in eventi socio-culturali il senso della sua fede. Nella sua difesa dell’esperienza religiosa, Alston lega poi il senso di Dio anche a contesti sociali e culturali già dati in una visione globale e gestaltica della realtà, concedendo spazio a qualcosa come una «ragione pratica».
Ora tutto ciò di nuovo ci porta nelle vicinanze della rational choice a livello sociologico di Rodney Stark ed epistemologicamente si pone nella stessa lunghezza d’onda del neo-pragmatista R. Brandom, per l’importanza concessa alle pratiche sociali. Un’esperienza religiosa infatti include introspezione, memoria e ragione, ma include anche percezione e simpatia: ha dunque dei risvolti pragmatici, anche se non deve lasciarsi attrarre da un facile esternalismo28.
Credo che qui il filosofo inglese Alston, per la congiunzione degli aspetti trascendentali con la pratica sociale, si dimostri anche un grande antropologo. Naturalmente egli non trascura l’aspetto critico, per cui fa notare che ci possiamo chiedere giustamente se tali esperienze siano affidabili. Ma poi, nella considerazione di ogni sapere, e a parziale disimpegno della tesi critica circa l’esperienza religiosa, egli osserva che è molto difficile sottrarsi a un argomento che non sia circolare in ogni ambito del sapere. E qui l’autore porta esempi in cui anche le altre scienze oggi ammettono di basarsi su un’analoga «circolarità epistemica. Portando il discorso su una certa parità auto-referenziale tra le conoscenze proprio a partire da questa minore forza conoscitiva offerta ad ogni sapere, l’autore afferma: «Il corso dell’argomento ci ha condotti alla conclusione che in relazione a quelle sorgenti di credenza di cui possiamo avere molta più sicurezza, in realtà vale la stessa situazione: anche per quelle fonti di credenza non abbiamo sufficienti ragioni di carattere non circolare per accettarle come affidabili»29. Appare chiaro che qui Alston mette a confronto l’esperienza religiosa e le credenze religiose con le ipotesi e i procedimenti in campo scientifico.
Appendice: parole profetiche di A.N. Whitehead
Mi sia permesso concludere questo contributo parole profetiche di Whitehead, che così scrive:
«L’esperienza religiosa è visione di qualcosa che sta al di là, dietro e dentro il flusso permanente e immediato delle cose; qualcosa che è reale e tuttavia tende alla realizzazione; qualcosa che forma una possibilità remota e tuttavia la più significativa dei fatti presenti; qualcosa che dà significato a tutto ciò che è transeunte e che tuttavia si sottrae alla comprensione qualcosa il cui possesso è il supremo bene e tuttavia sta al di là di ogni concetto; qualcosa che è ad un tempo l’ideale più grande e nello stesso tempo costituisce la ricerca senza speranza. La reazione più immediata della natura umana alla visione religiosa è la preghiera... Tale visione non esercita mai la forza. E’ sempre presente, ha soltanto la forza dell’amore che serve unicamente allo scopo di portare a termine l’armonia senza tempo… La preghiera a Dio non è una misura di sicurezza, è piuttosto un’avventura spirituale, una grande fuga verso l’Irraggiungibile. La morte della religione va di pari passo con il venir meno della grande speranza di un’ avventura»30.
* Docente di fenomenologia della Religione all’Istituto di Liturgia Pastorale - Santa Giustina di Padova
Note
- Tutto ciò in particolare a partire dalla meccanica quantistica. Cfr. per esempio lo studio filosofico della meccanica quantistica da parte di R.A. Healey, The Philosopby of Quantum, Mechanics. An Interactìve Interpretation, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1989. Per una ricognizione globale si veda K. Kelly, Out of Control), Urrà Apogeo, Milano 1996; vedi anche E. Morin, Ordine, disordine, organizzazione, Feltrinelli, Milano 1983. In maniera,più ampia e da vari punti di vista G. Bocchi - M. Ceruti (a cura di), La sfidta della complessità, Feltrinelli, Milano 199710.
- Si veda emblematicamente e per un primo avvio: G. M. Edelm.an - G. Tononi. Un universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazione, Einaudi, Torino 2000.
- Ma si veda anche soltanto ciò che scrive Bateson su destra e sinistra. Ad esempio, destra e sinistra non appartengono allo stesso linguaggio a cui appartengono alto e basso. Come riconosce Bateson, «destra e sinistra sono parole di un linguaggio interno, mentre alto e basso sono parti di un linguaggio esterno»: cfr. G. Bateson, Mente e natura, Adelphi, Milano 200211, pp. 115 e ss.
- Si veda esemplarmente J. Earman, World Enough and Space-Time. Absolute versus Relational of Space and Time, MIT Press, Cambridge (MA) 1989.
- Per questo si veda BL. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà. Raccolta di scritti a cura di J.B. Carroll, Bollati Boringhieri, Torino 1970. Per una sintesi dei dibattiti intorno a questi ed a problemi analoghi cfr. E Shore, Culture in Mind, Oxford Univ. Press, Oxford 1996.
- Cfr. J. Cufford – G.E. Marcus (a cura di), Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnogafia, Meltemi, Roma 1997, p. 179.
- Il Writìng Culture Debate a cui fa capo a volume citato sopra, Scrivere le culture, a cura di J. Clefford e G.E. Marcus, resta ancora un punto di partenza antropologico non facilmente contestabile.
- Cfr. M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, La Nuova Italia, Firenze 1994.
- Per questa tesi si veda in particolare E. Morin , Ordine, disordine, organizzazione, Feltrinelli 1983, pp. 16 e ss.
- Una voce che oggi in particolare denuncia questa dinamica come un destino è il filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti. Cfr. U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’ètà della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999.
- Si veda il bel libro di B. LAt0ur, La scienza in azione. Introduzione alla sociologia della scienza, Edizioni di Comunità, Torino 1998 (or. Science in Action. How to follow Scientists and Engineers through Society, Harvard Univ. Press, Cambridge 1987.
- Si veda ad esempio C. Geertz, Contro l’antirelativismo, in ID, Antropologia e filosofia, il Mulino, Bologna 2000, pp. 57 e ss (orig. Available Light. Anthropological Reflections on Philosophical Topics, Princeton Univ. Press, Princeton N.J. 2000)
- Cfr, R. Otto (1920) Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, Feltrinelli, Milano 19945, p. 22 e p. 42.
- Si veda ad esempio R.J. Russell, Quantum Physics in Philosophical and Theological Perspective, in R. J. Russell - W.R. Stoeger - G.V. Coyne (edd.), Physics, Philosophy, and Theology, Vatican City State, Rome 1988, p. 370.
- Cfr. J.W. Van Huyssteen, Is the Postmodernist always a Postfoundationalist, in «Theology today» 50(1993), 373-386
- Cfr. A. Plantinga, Warranted Christian Belief Oxford Univ. Press, Oxford 2000, p. 436, dove egli tra l’altro scrive che una delle ragioni in cui si costruisce il postmoderno sta nel fatto che «is a son of Promethean desire not to live in a world we have not ourselves constituted or stnctured» (tr. it.: «è una, sorta di desiderio prometeico il non vivere in un mondo che noi non abbiamo costruito e strutturato da noi stessi»).
- Si veda per questi il lavoro di R. Penrose, Ombre della mente, Rizzoli, Milano 1996, dove il grande matematico cerca una nuova relazione tra mente e materia a partire dalla teoria quantistica.
- L’osservazione è di C. Bell. Cfr. C. Bell, «The Chinese Believe in Spirits»: Belief and Believing in the Study of Religion, in N.K. Frankenberry (ed.), Radical Interpretation in Religion, Cambridge Univ. Press, Cambridge 2002, pp. 100, qui 106.
- La visione internalista della conoscenza sostiene l’idea che la coscienza in quanto tale è il vero punto di riferimento di tutto il sapere e che il soggetto pensante non ha confronti con nessun’altra realtà di questo mondo.
- Ch. G.E. Marcus - M. Fisher, Antropologia come critica culturale, Meltemi, Roma 1998, in particolare l’introduzione.
- Cfr. K. Popper, La logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1973
- Si veda l’importante lavoro di M. Polanyi, Personal Kwnoledge: Towards a Post-Critical Philosophy, Chicago Univ. Press, Chicago (III.) 1974 (trad. it. La conoscenza personale, Rusconi, Milano 1990).
- Cfr. N. Luhmann, Die Wissenschaft der Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1992, in particolare, p. 204
- Si veda il famnoso lavoro di G. Spencer Brown, Laws of Form, Bantam Books, Toronto 1973, ripreso e commentato ampiamente da N. Luhmann, op. cit.
- Cfr. R. Stark - R. Finke, Acts of Faith: Explaining the Human Side of Religion, California Univ. Press, Berkeley 2000.
- Cfr. R. Swinburne, The evidential Value of Religious Experient in A.R. Peacocke (edd.), The Sciences and Theology in the Twentieth Century, Oriel Press, Stocksfield 1981.
- Cfr. W.P. Alston, Perceiving God: The Epistemology of Religious Experience Cornell Univ. Press, Ithaca 1991.
- In modo sintetico la visione esternalista di ogni esperienza — e quindi anche di quella religiosa — ritiene che gli stati mentali e i rispettivi contenuti mentali sono individuati sempre (o quasi) in relazione ad oggetti e proprietà esterne al singolo soggetto.
- Cfr. W.P. Alston, Perceiving Cod.., pp. 14 1-146, qui p. 146 (trad. mia).
- Cfr. A.N. Whitehead, Science and Modern World, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1925. Ho potuto disporre del testo tedesco: Wissenschaft und moderne Welt, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1988, pp. 222-223 (la traduzione dal tedesco è mia, c’è anche una traduzione italiana La scienza e il mondo moderno, Bollati Boringhieri, Torino 1979).