Dei vizi e delle virtù
Una sorta di interludio
di Cettina Militello
Mi ha condotta a riflettere sui vizi capitali la voglia - e la possibilità che me ne veniva - di «prendermela a mio modo con il mondo e la Chiesa in cui viviamo». Ebbene, credo di dover aggiungere ancora qualcosa - una specie di interludio - che mi consenta il passaggio alle "virtù cardinali", anzi alle non-virtù, visto che mi fermerò a leggere il ribaltamento eclatante di giustizia, fortezza, prudenza, temperanza. A reggere e supportare l'ingiustizia, la debolezza, l'imprudenza, l'intemperanza, resta infatti quella che a suo tempo avevo indicato come «incomunicabilità programmatica, sottrazione di sé, per eccesso di autostima, alla provocazione dell'alterità, quale che sia».
Ebbene, il vizio o la non virtù resta pur sempre questo: ricusarsi all'altro, ricusarsi al dialogo, ricusarsi all'incontro. Forse a livello civile il discorso è semplicemente "rozzo". Le nuove orde barbariche, ignoranti e presuntuose quanto egoiste, cieche alla propria stessa storia recente, brillano per superficiale grossolanità. Ma a livello ecclesiale, pur se il dubbio corre circa una memoria corta che fa cominciare la storia nelle insoddisfazioni di fine ottocento e delle compensazioni per il perduto potere temporale, non parlerei di rozzezza quanto piuttosto di egotistico ricusarsi alla provocazione di situazioni e persone, forti del convincimento che basta e avanza essere i soli e autorizzati depositari della verità.
Il vivere ristretto, inelegante, dei nostri giorni è scandito dall'insipiente e gridato ricusare i problemi: non c'è crisi, non c'è povertà, non c'è malessere, tutto va bene; guai ai profeti di sventura - anzi i guai li provocano le loro fantasie negative. Divertiamoci pure. Basta con i profili virtuosi. Non siamo santi. Al grido dei guru del nuovo corso s'accompagna, non meno urlata, l'indifferenza, anzi, purtroppo una invidiosa approvazione. Galleggiamo nel non senso di un'esistenza volta al singolarissimo e individuale profitto. Bravo chi l'ha raggiunto, e tanto basta.
La crisi in cui ci dibattiamo
Di fronte a tutto questo, mi chiedo: ma noi, noi Chiesa, dove siamo? La crisi che viviamo non è certo iniziata ieri, al contrario. I diktat narcisistici e antievangelici che la caratterizzano li abbiamo uditi o no? e perché stiamo in silenzio? Cosa ci ha indotti ad approvare comportamenti, parole, stili di vita pubblica e privata, privi di dignità e, peggio, perniciosi e ferali nella emblematicità che hanno assunto sul piano del modello in una fase culturale di cambiamento epocale. Ciò che sta davanti ai nostri occhi non è l'emergere di ingiustizia, imprudenza, debolezza, intemperanza e delle loro molteplici "famiglie"? Non lo dico riferendomi unicamente agli altri, lo dico innanzitutto di noi stessi.
Ci soccorre senz'altro, offrendoci una possibile chiave interpretativa, quella che abbiamo chiamato la costitutiva "ambivalenza" del vizio. Si - esemplifico con le virtù - il problema è pur sempre: dove comincia e dove finisce la prudenza? dove la temperanza, la fortezza, la giustizia? C'è un limite sottile tra la loro legittima flessione e l'infrazione che ne diventa ripulsa, negazione. È meccanismo che abbiamo spesso visto attivo a proposito dei vizi capitali. Si, vizi e virtù corrono parimenti sulla linea di una umanità che sanciscono o negano, di una ragionevolezza che attestano o offendono. Corrono così sulla linea dialettica della potenzialità distruttiva o costruttrice; flettono la passionalità che ci connota. È questo il nostro limite. Ma è questa anche la molla, la qualità propriamente umana che ci connota.
Prenderne atto probabilmente potrebbe offrirci un criterio riflessivo e operativo meglio adeguato del nostro ricorrere continuativo, e alla fine poco significante perché troppo ristretto, alla "non negoziabilità" delle questioni umanamente e cristianamente fondamentali basandoci rassicurati sulla generalità della "legge naturale". Tanto più che spesso essa maschera, più che la verità, un'ideologia complice sempre di una precisa congiuntura culturale. Alla domanda legittima d'autonomia, iscritta nell’imago Dei, e riscritta nella partecipazione alla "regalità kenotica" del nostro Salvatore, troppo spesso si oppone una visione "dispotica" dell'esistenza, volta a disegnare una umanità immatura, non emancipata, cosisticamente subordinata, quasi la redenzione non fosse mai avvenuta, quasi mai fossimo stati "liberati". La vita insomma come non vita, passività senza azione, sopportazione in carcere, ed esilio dal "paradiso perduto". Donde la rivolta, la ricerca altra, diametralmente opposta.
Questione fondamentale diventa allora ciò che abbiamo detto "il gioco della vita". Perché, è chiaro, la vita va vissuta, non sopportata. E poiché il patirla, malgrado tutto, ci è obbligato - saremmo morti altrimenti - la sfida è proprio quella sulla qualità del "patirla", ossia del viverla intensamente e in maniera ottimale. Insomma, non negare la vita o sfuggirla, ma assumerne la dialettica conducente al "gioco della vita" e da esso derivante, assumerla come criterio integrativo, se non suppletivo, della legge naturale facendone metodo adeguato a pregnanze produttive.
In ciò potrebbe soccorrerci, io credo, l'"ironia". Nella storia essa è stata un'arma delle donne. Penso alla figura biblica di Sara, al suo franco sorridere dinanzi alla prospettiva di una maternità fuori natura. E penso a Socrate, al suo filosofico ancorarla alla tecnica femminile dell'accompagnare il nascere della vita. Si, abbiamo bisogno di una maieutica, di un'arte capace di estrarre dal più profondo del cuore e della mente energie tali da far prevalere il positivo sul negativo nella dialettica ambivalente che oppone vizi a virtù. Solo così avvertiremo lucidamente gli uni e le altre e saremo capaci di sconfiggere gli uni e praticare le altre.
Ciò che ci sta a cuore
In altri termini, nel passaggio dai vizi alle virtù, pur declinandole al negativo nel loro fallimento, ciò che ci sta a cuore è proporre la "naturalità" dialettica al modo di "seme" delle beatitudini evangeliche. Si, vorremmo che l’homo patiens, che vive e si sente vivere, che anela a dar ragione di sé, scoprisse come sua vocazione attiva la beatitudine. L'uomo, il cristiano, naturaliter beatus. E ciò comporta non chiudersi agli altri, ma al contrario l'aprirsi agli altri. Ciò comporta maturare sino in fondo la coscienza del proprio limite e proprio perciò affidarsi, accettare e accogliere l'altro/a, riconoscendolo a sé compagno di azione "secondo" giustizia, fortezza, prudenza, temperanza. Le virtù "cardinali" insomma, come "cardine" della vita di ognuno di noi e delle nostre comunità tutte, perché protese (virtus significa appunto possibilità/forza) alla realizzazione piena della vita umana,
Come accostarle previamente? "Fortezza" è reduplicazione di virtù. Osserva Cartesio (Les passions) che essa spinge potentemente a conseguire lo scopo da raggiungere. "Giustizia" è operazione sullo jus, dunque operatività della "norma". E. Mounier (Traité du caractère) osserva che il gusto della giustizia introduce in un mondo davvero nuovo soltanto se è tale da trasferire dal prendere al donare, dalla gelosia alla generosità; gli fa eco P. Ricoeur (Philosophie de la volonté), affermando che l'esigenza della giustizia si radica nella convinzione che l'altro vale in faccia a me e che le sue esigenze valgono tali quali le mie; vetta della giustizia è che l'altro mi è "tu". "Prudenza" è piuttosto un tipo di "sapienza"; una scienza, osserva L. Lavelle (L'activité spirituelle) nel cui contesto teoria e pratica coincidono; la prudenza, insomma, come la sola scienza in cui si dà identità tra conoscere e agire. È la "temperanza" che riporta a moderazione e ad adeguare: con ricorso a metafora musicale, fa della vita uno strumento ben accordato - appunto "ben temperato" - comporta il dominare qualsiasi genere di ubriacatura.
Non è difficile, dunque, cogliere per un verso la circolante simbiotica delle virtù cardinali; dall'altra constatare come il paradosso - in via metodica lo diciamo ironia - ne veicoli la dialettica soggiacente. Poiché «il tuo guaio», dice Francesco di Sales, «è che ti preoccupi dei vizi più di quanto ami le virtù» (Oeuvres XV, 357).
(da Vita pastorale, n. 9, 2009, pp. 39-40)