Ma Giona, che rappresenta Israele, non è disposto ad acconsentire alla compassione di Dio e a farsene tramite presso i pagani Anche a questo singolare profeta (e, in lui, a tutti noi) è chiesta una conversione, quella a un Dio che è longanime, di grande amore e che si lascia impietosire.
Un profeta di nome Giona, figlio di Amittai, compare nella prima metà del secolo VIII, sotto il regno di Geroboamo II. La notizia è riportata da 2Re 14,25-27: «Egli [Geroboamo] ristabilì i confini di Israele dall'ingresso di Amat fino al mare dell'Araba secondo la parola del Signore Dio di Israele, pronunciata per mezzo del suo servo, il profeta Giona figlio di Amittai, di Gat-Khefer, perché il Signore aveva visto l'estrema miseria di Israele, in cui non c'era più schiavo né libero, né chi lo potesse soccorrere. Egli, che aveva deciso di non fare scomparire il nome di Israele sotto il cielo, li liberò per mezzo di Geroboamo, figlio di Joash».
Questa breve notizia presenta una figura e accenna a degli avvenimenti completamente diversi dalla figura e dagli avvenimenti del nostro libro. Se l'autore si fosse ispirato a questo passo. avrebbe costruito una storia rovesciata rispetto a quella che ci ha dato. Secondo l'antica notizia, infatti, Giona parla a Israele, non ai pagani e il suo messaggio è la liberazione di Israele, non la salvezza dei pagani. Nel nostro libro, invece, il tema di fondo non è la liberazione di Israele, ma la conversione di Israele.
Dalla notizia del secondo libro dei Re il nostro autore prende solo il nome «Giona, figlio di Amittai». Per il resto la sua narrazione è completamente libera. Non appartiene al genere storico: il suo scopo, infatti, non è di riportare degli eventi reali. Il suo intento è di comunicarci un'idea, e lo fa non mediante un ragionamento teorico o una predica, ma mediante un racconto. La Bibbia ama raccontare. Spesso insegna narrando. Come Gesù con le sue parabole. E come le comunità cristiane primitive, che per rispondere alla domanda: «Chi è Gesù?», raccontarono la sua storia.
Il nostro piccolo libro appartiene al genere «parabola» o, se si preferisce, al genere «novella». I personaggi sono favolosi e tipicizzati: Giona rappresenta Israele e, più profondamente, il lettore; i marinai e Ninive rappresentano il mondo pagano.
Il racconto
Rileggiamo il racconto passo per passo. È come una rappresentazione filmica in due tempi e cinque scene, più un intermezzo. Tutto procede in un rapido alternarsi di azioni e di dialoghi. Le descrizioni sono assenti: solo qualche raro aggettivo.
Prima scena: 1,1-3
Il luogo è Giaffa. I personaggi sono Dio e Giona. La narrazione inizia senza prologo, titolo e introduzione. Non è detto il luogo né il tempo: dove fu rivolta la parola di Dio a Giona? quando? Personaggi e vicende sono come senza luogo e tempo, sottratti alla storia: sono di ieri e di oggi.
L'attacco è chiaramente di stampo profetico: «Fu rivolta a Giona questa parola del Signore». Ma non si dice che Giona sia profeta, né qui né altrove nel libro. E il Signore con la sua parola che dà inizio a tutta la vicenda, e sarà lui a guidarla sino alla fine. Ma non la concluderà. Il racconto, infatti, si chiude con una domanda lasciata in sospeso. Al lettore rispondere.
Ninive è detta la «grande» città: grande e malvagia. Ninive era famosa per la sua grandezza (idea che sarà ripetuta anche più avanti), ma soprattutto per le sue campagne militari, le sue deportazioni di popoli interi e le sue torture. L'aggettivo «grande» (gadol) è uno dei termini preferiti dall'autore. Tutto è grande nel suo racconto: Ninive, la tempesta, il timore dei marinai, il pesce, la gioia e la tristezza di Giona. Dio comanda a Giona di andare a Ninive, ma Giona fugge lontano dal Signore, verso Tarsis, all'altro capo del mondo. Non è detto il perché della fuga. L'autore ne tiene nascosto il motivo per rivelarcelo più avanti (4,2). Si dice che «scese»: il viaggio è, dunque, dalla montagna al mare. Tarsis era probabilmente situata sulla costa meridionale della Spagna. Città famosa, come famose erano le sue industrie metallurgiche e le sue navi di altura, capaci di affrontare le tempeste.
Tarsis nella Bibbia è ricordata diverse volte. Isaia invita gli abitanti di Tiro a fuggire lontano, a Tarsis: «Passate in Tarsis, fate il lamento, abitanti della costa» (23,6). Più bello un altro passo del libro di Isaia (66,18-19): «Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue. Essi verranno e vedranno la mia gloria. Io porrò in essi un segno e manderò i loro superstiti alla gente di Tarsis, Put, Lud, Mesech, Rosh, Tubai e di Grecia, ai lidi lontani che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria: essi annunzieranno la mia gloria alle nazioni». Ezechiele 38,13 ricorda i suoi mercanti ed Ezechiele 27,12 elenca i suoi articoli di commercio: argento, ferro, stagno e piombo.
Giona fugge dunque dal Signore, il più lontano possibile. Due volte è detto «lontano dal Signore». Comunque qui traspare per la prima volta la tensione fra il Signore e Giona, tensione che costituisce la struttura portante dell'intero racconto: perché questa tensione? qual è la sua profonda radice?
Seconda scena: 1,4-16
Il luogo è la nave, in alto mare. I personaggi sono Dio, Giona, i marinai, il capitano.
«Ma il Signore...»: Dio riprende l'iniziativa. Non si può fuggire dal Signore. Si legga, ad esempio, un passo di Amos (9,2-4):
Anche se penetrano negli inferi,
di là li strapperà la mia mano
se salgono in cielo,
di là li tirerò giù;
se si nascondono in vetta al Carmelo,
di là li scoverò e li prenderò,
se si occultano al mio sguardo in fondo al mare,
là comanderò al serpente di morderli;
se vanno in schiavitù davanti ai loro nemici,
là comanderò alla spada di ucciderli.
Dio «getta» una grande tempesta. Lo stesso verbo è utilizzato più avanti per una serie di azioni che hanno come punto di partenza il gesto di Dio. «Gettatemi in mare», dice Giona. E i marinai, sia pure a malincuore, lo «gettano» in mare.
«Intanto Giona...»: il racconto fa un passo indietro e pone un contrasto fra Giona e i marinai: questi lavorano e pregano, Giona dorme. La descrizione è rapidissima, con tre verbi: scese, si coricò, si addormentò.
La prima struttura del racconto è la tensione fra Giona e Dio, la seconda è fra Giona e i pagani (i marinai e poi, più avanti, i niniviti). I marinai pagani sono più simpatici di Giona, più positivi. Pregano i loro dei, hanno timore del Dio di Israele, sono restii a gettare Giona in mare e fanno di tutto per evitarlo. Sono marinai di varie nazionalità e di diverse religioni: «Ciascuno invocava il suo Dio».
Il dialogo fra il capitano e Giona è concitato. Una serie di domande. Giona, obbligato, rivela finalmente la sua identità e la sua fede. Parlando ai pagani, presenta Dio come il Creatore e, in sintonia col contesto, ne sottolinea il dominio sulla terra e sul mare. Annuncia costretto e controvoglia, ma il suo è pur sempre un annuncio corretto ed efficace. E i marinai si affidano al Dio che annuncia. Giona fugge lontano dal Signore, è un disobbediente, ma è un ortodosso.
Terza scena: 2,1-11
Il luogo è il ventre del pesce. I personaggi sono Dio e Giona.
Per la terza volta Dio riprende l'iniziativa: «Dio comandò al pesce».
Dio salva Giona, ma lo salva per una missione. Fine del primo tempo.
Intermezzo: la preghiera di Giona: 2,2-10
Con ogni probabilità la preghiera di Giona è stata inserita nel racconto in un secondo tempo. Il linguaggio è diverso da quello del resto del libro. La situazione non quadra con il contesto: Giona ringrazia come se la liberazione fosse già avvenuta, mentre in realtà è ancora prigioniero nel ventre del pesce. Infine, neppure l'atteggiamento interiore di Giona è coerente: qui è sottomesso e pieno di fiducia, mentre prima e dopo è sempre recalcitrante.
Tuttavia, il salmo svolge una sua funzione. Costituisce una pausa narrativa, un intermezzo musicale. E suggerisce una lettura - sia pure parziale - della vicenda. Commenta infatti un tratto della narrazione e cioè la salvezza di Giona dal profondo del mare. Dio salva Giona. Dio salva ogni uomo. Dio salva da tutti i pericoli. Non commenta, però, la parte più importante del racconto, cioè la missione di Giona.
Il salmo inizia nella forma dell'invocazione e termina nella forma del ringraziamento. La situazione dell'orante è doppiamente infelice: è in pericolo di vita ed è lontano dal Signore. Una serie di metafore, molto eloquenti, descrivono la sofferenza e l'abbandono, il pericolo e l'angoscia. Eccole: il profondo degli inferi, l'abisso e il cuore del male, le correnti, i flutti e le onde, l'acqua fino alla gola, le alghe avvinte al corpo, le radici dei monti, le spranghe della terra, la fossa. L'idea è quella dell'uomo che sprofonda. Ma Dio solleva: «Tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita». Il grido del ringraziamento è un annuncio: «La salvezza viene dal Signore». In questa frase è racchiusa tutta la fede di Israele.
Quarta scena: 3,1-10
Il luogo è Ninive. I personaggi sono Dio, Giona, i niniviti, il re, gli animali. Inizia il secondo tempo. Inghiottito dal pesce e scaraventato, poi, sulla riva del mare, Giona è di nuovo davanti al Signore, che riprende l'iniziativa. L'attacco è simile all'inizio: «Il Signore rivela nuovamente la parola a Giona». Il racconto ritorna da capo. Ma ora Giona è diverso e obbedisce: ha capito che è inutile fuggire.
La grandezza di Ninive è descritta al superlativo: «Grande persino per Dio». Per percorrerla occorrono tre giorni di cammino. L'annuncio di Giona non suona come un invito alla conversione, ma come una sentenza: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta». Tuttavia, lo spazio di tempo concesso - quaranta giorni - già suggerisce una possibilità. Perché Dio avverte prima? perché lascia uno spazio di tempo?
Con sorpresa i niniviti credono «al Dio». Non si dice che credono nel Dio di Israele, che cambiano religione. Si dice semplicemente che hanno ritenuta vera la minaccia del Signore, cioè l'annuncio fatto da Giona. E si convertono. Non fuggono dalla città, né ricorrono ai loro idoli, ma cambiano vita. Alcune immagini sono belle: per esempio quella del re che si alza dal trono e siede nella polvere. Il cambiamento è davvero radicale. I niniviti non sono sicuri che la conversione sortisca l'effetto. Ma è pur sempre una possibilità, e l'afferrano: «Forse Dio si pentirà, placherà l'incendio della sua ira e non periremo».
«E Dio si pentì»: è un linguaggio robusto, molto diverso dal linguaggio piatto e asettico della nostra teologia. Se l'uomo cambia, Dio può cambiare. È una delle lezioni del libro. Con una precisazione: chiunque può cambiare, anche Ninive.
Il «pentirsi» di Dio ricorre diverse volte nella Bibbia. Nel racconto del diluvio si legge che Dio «si pentì» di aver creato l'uomo. In Esodo 32,14 si legge che: «Il Signore si pentì della minaccia che aveva pronunciato contro il suo popolo». Geremia scrive: «Il Signore si pentirà della minaccia che proferì contro di lui» (26, 13); «Se questo popolo si pentirà della sua malvagità, allora io mi pentirò del male che pensavo di fargli».
La storia potrebbe terminare qui, con la conversione dei niniviti e il pentimento di Dio. La lezione sarebbe chiara: Dio perdona chiunque, appena vede un sincero pentimento. Ma c'è una sorpresa: il racconto continua.
Quinta scena: 4,1-11
Il luogo è vicino a Ninive, a oriente. I personaggi sono Dio, Giona e un ricino.
Questa scena mostra che al narratore non interessano solo la conversione di Ninive e il perdono di Dio, bensì anche, e forse più, la reazione di Giona. Nel personaggio Giona è rappresentato Israele, cioè il lettore a cui l'autore si indirizza. Come reagisce?
Ci viene detto finalmente perché Giona fuggiva: sospettava che Dio perdonasse troppo facilmente. Giona non lo ritiene giusto. E ne è indispettito. Ed è anche deluso perché la sua parola è stata smentita. «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta», egli ha proclamato. E, invece, non è stata distrutta. Giona conosce Dio: «So che sei un Dio pietoso e clemente, paziente e misericordioso, che ti penti delle tue minacce». Giona professa la sua conoscenza di Dio citando un testo liturgico e notissimo: Es 32,14. Ma non è d'accordo.
Dio istruisce Giona mediante la parabola in azione del ricino. Gli ripete due volte la domanda: «È giusto che tu sia adirato?». Vuole che Giona rifletta. L'ultima parola è di Dio ed è una domanda lasciata in sospeso. Su questa domanda - insolitamente lunga per il normale periodare ebraico - cade tutto il peso del racconto. Dio rivolge la domanda a Giona, e l'autore la rivolge al lettore. La domanda interessa sia coloro che si credono buoni e condannano i cattivi, invidiosi se Dio perdona loro; sia coloro che sono cattivi e sono in cerca di salvezza.
Tempo, ambiente e messaggio
Vocabolario e tematica suggeriscono di collocare questo nostro libretto nel tardo postesilio. Una datazione più precisa è difficile: probabilmente siamo verso la metà del V secolo a.C. Il regno di Giuda non esiste più e la Giudea è ridotta a una secondaria provincia dell'impero persiano.
Il libro denuncia le contraddizioni della comunità giudaica, che la sconfitta, i molti disagi e le amarezze portano all'irrigidimento. Una scrupolosa osservanza religiosa e molta attenzione alla purezza razziale, ma anche una mentalità chiusa, nazionalista, schematica e irrigidita: tutto il bene di qua e tutto il male di là, tutta la salvezza per i giudei e tutta la condanna per le nazioni pagane. Una comunità siffatta è certamente religiosa, ma finisce col non comprendere perché mai Dio conceda prosperità e perdono anche alle nazioni pagane. La bontà di Dio verso tutti gli uomini diventa un problema.
Il messaggio del libro va in due direzioni. Una verso Ninive, cioè verso i pagani, dicendo che occorre convertirsi, pena la catastrofe. La seconda va verso Israele e dice che occorre gioire, come Dio, della salvezza e del perdono del nemico. Il primo insegnamento è ovvio, il secondo è duro.
I profeti si sono sempre interessati alle nazioni pagane, ma quasi sempre per minacciarne la distruzione. Anche Giona si interessa di Ninive per minacciarne la distruzione, ma Dio cambia la sua minaccia in perdono. Questo è sorprendente.
Occorre precisare maggiormente. Ninive non rappresenta soltanto il mondo pagano, ma il mondo degli oppressori. Il profeta Nahum (3,1-4) la descrive così: «Città sanguinaria, piena di menzogna, colma di rapine, non cessa di depredare... Affascinante e incantatrice, faceva mercato dei popoli con le sue tresche e delle nazioni con le sue malie». Ebbene, Dio ama anche questa città. Dio ama anche gli oppressori, e se appena è possibile, li salva.
Questa è la lezione sorprendente, dura da accettare da parte di un popolo oppresso, che sognava l'intervento punitivo di Dio.Qualcosa di simile possiamo scorgere, per esempio, nell'atteggiamento di Gesù nei confronti degli odiati pubblicani, prototipi degli oppressori stranieri.
Possiamo concentrarci sulla figura di Giona per evidenziare tutte le contraddizioni della sua religiosità.
Scoperto sulla nave, Giona confessa con orgoglio davanti ai marinai la sua fede: «Sono ebreo e servo del Signore». C'è qui tutta la distanza che separa i giudei monoteisti dai pagani politeisti. Ma c'è anche tutta la contraddizione di certa religiosità: Giona dice di servire il Signore e dimentica che gli sta disobbedendo. C'è una contraddizione fra le parole e la vita.
E c'è una contraddizione ancora più profonda. Giona è ortodosso: conosce molto bene Dio e la sua professione di fede è perfetta. È quella del catechismo tradizionale: «So che sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato» (4,2). Conosce Dio, ma non lo comprende, soprattutto non condivide il suo modo di agire. Lo conosce in astratto. Israele sa tutto su Dio, ma poi non lo comprende quando Egli agisce di conseguenza.
E così non è soltanto Ninive che deve convertirsi, anche Giona deve convertirsi, anche Israele. È appunto questo il significato dell'ultima scena, la più originale e sorprendente, verso la quale tende tutto il libro.
Oltre al messaggio centrale che abbiamo individuato, ci sono altri aspetti minori, ma ugualmente interessanti. I niniviti non si convertono alla religione di Israele. A Dio basta che cessi la malvagità. Ninive non fu minacciata perché non adorava il vero Dio, ma perché la sua violenza era grande. I niniviti «si convertirono dalla vita cattiva e dalle azioni violente» (3,8). Compare qui il termine hamas (violenza), che nei profeti sintetizza le ingiustizie sociali più diverse.
Il racconto si apre con l'ordine di Dio (1,1) e si chiude con una sua domanda (4,10 ss.). Tra questi due estremi si sviluppa una storia completamente nelle sue mani. E un'altra lezione. Che Giona cerchi di fuggire o di morire, ciò non impedisce a Dio di raggiungere il suo scopo.
Ancora: la parola che dà luogo alla salvezza viene da Israele, non direttamente da Dio. Israele corre sempre il pericolo di escludersi dalla gioiosa apertura di Dio, tuttavia resta pur sempre il tramite della salvezza. Dio non ha un'altra parola da dire, se non quella che ha già detto a Israele e che Israele deve portare al mondo.
Il libro di Giona ha degli antecedenti o è nato improvvisamente, senza radici? Il libro costituisce senza dubbio un vertice ed una novità ma le radici ci sono.
Isaia 2,2-4 annuncia il pellegrinaggio dei popoli verso Sion, tema ripreso e sviluppato da Isaia 60 (cfr. Ag 2,6 ss.; Zac 8,23; 14,16 ss.). In questi passi c'è la speranza della conversione dei pagani che, quindi, sono visti positivamente, con simpatia. Manca, però, del tutto il contrasto fra i pagani che si convertono e un profeta di Israele che recalcitra.
In altri passi per esempio Geremia 18,7-8 - si parla di un pentimento di Dio, che desiste dalle sue minacce nei confronti dei popoli.
Dio perdona loro, appena vede un po' di pentimento: «D'improvviso parlo contro un popolo e contro un regno, da sradicare, abbattere e annientare. Ma se quel popolo si converte dalla sua malvagità, mi pentirò del male che avevo pensato di procurargli».
Come si vede, questo concetto è esattamente illustrato dal libro di Giona, privato però dell'ultima scena. L'ultima scena è originale.
È tempo di concludere. L'autore ha scelto la forma della novella per spingere i suoi lettori a guardare con gioia e speranza il mondo, anche se distante e ostile, e a non ripiegarsi su se stessi. Si tratta di aderire profondamente e concretamente alla compassione di Dio. Ciò non deve restare solo una professione di fede, ma diventare mentalità e azione.
Non dire che è inutile darsi pena per questa città. Devi, invece, annunciarle coraggiosamente il giudizio e godere poi del suo eventuale ravvedimento. Ciascuno deve fare propria la domanda che Dio ha rivolto a Giona. «Ti rattristi per un nonnulla e per un nonnulla gioisci, e io non dovrei rattristarmi per la distruzione del mondo e rallegrarmi per la sua salvezza?». Si noti il sorprendente capovolgimento, che è sempre il segno della genialità di Dio (e degli uomini che di lui parlano): una storia di misericordia non rivolta ai peccatori, ma ai giusti. Anche loro devono convertirsi!
Giustamente san Gerolamo termina il suo commento ricordando la parabola del figliol prodigo: «Si doveva rallegrarsi e far festa perché questo tuo fratello era morto ed è tornato vivo, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,32)*.
* Consiglio la lettura di H. Walter Wolff, Studi sul libro di Giona, Brescia 1982; L. Alonso Schöckel – J.L. Sicre Diaz, I profeti, Roma 1984, pp. 1145-1174.