Facendo seguito al precedente capitolo, vogliamo affrontare i problemi dell'instaurazione o rinuncia, della prosecuzione o interruzione di un determinato trattamento quando l'infermo - sempre in condizioni molto gravi o terminali - non sia in grado per qualunque motivo di manifestare il suo consenso e dissenso informato. Occorre subito dire che nessuno di questi problemi è risolvibile in modo univoco per tutti e in ogni circostanza. È però possibile e doveroso discuterli per due motivi. Primo motivo: si tratta sempre di scelte gravissime di coscienza che riguardano un'esistenza umana che non è la nostra. Di fronte all'angustia grave di tanti medici coscienziosi e di tanti parenti o amici dell'infermo è doveroso offrire, se non precetti concreti rigidi, almeno una linea di riflessione morale che li aiuti nella decisione. Secondo motivo: per evitare contrasti o incertezze e per tutelare i diritti dell'infermo, è talora necessario e augurabile che intervenga la comunità di cui l'infermo è membro - alla cui tutela ha quindi diritto - attraverso un intervento diretto di tipo legislativo, o indiretto come può avvenire tramite comitati etici ad hoc: e anche in questo caso una base di riflessione etica è sempre necessaria.
Un problema previo sorge quando l'infermo abbia lasciato, quando era in grado di decidere su di sé, inequivocabili disposizioni. Disposizioni di eutanasia attiva, o anche mirate ad accelerare con azioni dirette la morte, non potranno essere eseguite: qui non è in gioco la coscienza dell'infermo, ma la coscienza dei medico (o di chi comunque debba decidere). Ma disposizioni mirate a evitare trattamenti che non abbiano vera utilità terapeutica o possano avere esiti incerti - per esempio, la prosecuzione a tempo indeterminato della rianimazione in stato comatoso - o consentano al soggetto di sopravvivere intubato in ogni orifizio possibile, ritengo che possano e debbano esser seguite: ognuno ha diritto a morire in pace e soprattutto con dignità di fronte a chi lo assiste. L'idea che ciascuno si fa di "pace" e "dignità" è sempre altamente soggettiva, e quindi la volontà va in linea di principio rispettata anche da chi personalmente deciderebbe altrimenti.
Quando il medico è solo
Quando non si verifichi questo caso, del resto assai raro, il medico è talora solo a dover decidere (casi di emergenza, parenti o tutori irraggiungibili e sconosciuti ecc.). Il suo impegno è sempre quello di "stare per la vita", e cioè applicare tutti i trattamenti concretamente disponibili: ciò però va limitato, a mio giudizio, a trattamenti che diano una qualche speranza veramente terapeutica (di guarigione o di sensibile miglioramento). Quando questa speranza non vi sia, incombe allora il dovere di mettere in atto trattamenti palliativi adeguati: l'infermo può soffrire anche se non dà segni di coscienza. Il medico, quando debba decidere da solo, dovrà scegliere tra l'una e l'altra indicazione. Detto in modo sintetico: mentre l'infermo potrà rifiutare l'accanimento terapeutico, il medico dovrà rifiutare un accanimento che non sia veramente terapeutico. Molte cliniche hanno procedure standard, codificate per tutti i medici che vi operano, procedure rigide e che possono non rispondere a questo indirizzo etico. Nel medico la coscienza personale dovrà prevalere, anche se con sacrifici facilmente immaginabili.
Decidere per l'altro
Ma in genere vi sono altre persone che hanno un qualche titolo a intervenire nella decisione. E qui si danno due casi differenti. Un primo caso si verifica quando l'infermo sia un neonato o un bambino o un minore o un amente dichiarato tale: qui si ha sempre (o quasi) la figura di un proxy (un curatore) stabilito per legge. In genere saranno i genitori per i minori, o un tutore designato dalla pubblica autorità. La figura del proxy non è identica a quella del medico: il proxy deve tutelare al meglio l'interesse del tutelato, e questo può talora consistere anche nel rifiuto di trattamenti che diano qualche speranza di miglioramento temporaneo o di pura sopravvivenza in condizioni fortemente minorate; non però nel rifiuto di trattamenti con qualche speranza di guarigione o di miglioramento sensibile e stabile. Stabilire confini precisi è impossibile: variano le condizioni oggettive delle strutture sanitarie concretamente disponibili, variano le condizioni oggettive di vita (e di cultura) della famiglia in cui l'infermo è inserito, variano le condizioni soggettive di sensibilità dei proxy.
Un caso esemplare, molto discusso negli anni recenti, è quello della "spina bifida": un neonato può presentarsi con una malformazione della spina (che qui non possiamo spiegare) tale che: se non si opera subito, morirà entro poche ore o pochi giorni; se si opera subito, potrà sopravvivere anche a lungo, ma con funzioni fisiche e/o psichiche alterate anche gravemente. La decisione va presa rapidamente, e la gravità delle conseguenze dell’intervento è difficilmente prevedibile. È auspicabile che la vita vada salvata, anche se sarà una vita depauperata. Ma non sempre la famiglia avrà la possibilità materiale - oltre che psicologica - di sostenere tale carico, e non sempre la società sarà in grado di fornire le necessarie strutture di sostegno. Si dovrà moralmente o giuridicamente imporre sempre l'intervento, oppure la scelta di lasciar morire andrà valutata nella fattispecie concreta? Io scelgo questa risposta. Si noti che il caso è totalmente differente dall'aborto di un feto che si sa nascerà Minorato: in questo caso si pone in essere un'azione positiva mirante a sopprimere una vita, mentre nel nostro caso ci si limita a non intervenire. Come si vede, il dibattito sull'eutanasia passiva è sempre complesso.
Sempre all'interno di questo primo caso di proxy per minori, stabilito per legge, non si può ignorare un altro problema a cui in genere si presta poca attenzione. Il minore è sotto la potestà dei genitori o del tutore fino ad età praticamente adulta. Ma io ritengo che molti minori siano capaci di scegliere su se stessi assai prima: non per nulla la responsabilità penale del minore è fissata in Italia a 14 anni. Almeno a partire da quell'età, e in certi casi anche prima, laddove sia possibile - materialmente e psicologicamente - informare il minore del suo stato, ritengo che si debba in qualche misura tener conto delle sue scelte. E anche in questo caso è impossibile stabilire regole che valgano per tutti i soggetti e per tutte le situazioni.
Chi è il proxy di un adulto?
Un secondo caso è quello dell'adulto che per motivi fisici o psichici non sia in grado di deliberare ponderatamente su se stesso. Occorre però stare attenti a un equivoco grave: l'infermo in grado di intendere e di volere deve essere informato, sia pure con cautela, della gravità del suo stato. Molto spesso i parenti dicono: "E’ meglio non agitarlo ulteriormente, non spaventarlo, e decidere noi". Ciò è errato in linea di principio, e per tre motivi. Primo: l'infermo ha diritto ad affrontare la morte, o il rischio di morte, con consapevolezza e dignità. Per il cristiano poi la morte è il momento supremo dell'esistenza terrena, che dovrebbe essere accolto con animo sereno e anche gioioso. Secondo: un adulto può avere problemi di coscienza da risolvere, e può anche avere gravi responsabilità verso altri (la famiglia, la società, altre persone o enti) che devono esser sistemate, o torti che devono essere riparati. Di tutto ciò i parenti sanno talora ben poco, specie se l'infermo ha operato in complesse strutture societarie o pubbliche. Gli deve esser data la possibilità di sistemare tutte queste questioni pendenti. Terzo: la nostra Costituzione, e molte altre, vietano interventi medici senza il consenso dell'interessato. Si tratta di un diritto fondamentale dell’uomo, che io ritengo debba includere anche il rifiuto di intervento.
Tolto di mezzo questo equivoco, quando l'infermo adulto non sia veramente in grado di intendere e di volere chi deve essere considerato veramente proxy? La questione non è affatto semplice. Saranno i genitori, oppure il coniuge, oppure i figli? Nella famiglia vi possono essere sensibilità contrastanti, e talora interessi (p. es. economici) contrastanti. Può anche avvenire che un amico o un collega sia meglio in grado di valutare il vero bene dell'infermo. Può infine avvenire che nessun familiare sia presente al momento di decidere, e allora tutto sembra ricadere sulle spalle del medico. Io ritengo che, quando sia possibile, la decisione debba esser presa da un consulto tra familiari e medico, ed eventualmente il parroco o un sacerdote che sia amico di famiglia. Io sono da 50 anni in cura d'anime, e più di una volta ho potuto aiutare a raggiungere una decisione ragionevole e concordata. In base a quanto abbiamo visto in questo e nel precedente capitolo, la via giusta, il vero interesse dell'infermo, deve essere presunto in linea di principio evitando gli estremi di un'eutanasia passiva frettolosamente decisa e di un accanimento terapeutico senza serie speranze (si notino le espressioni "frettolosamente decisa" e "serie speranze": esse implicano sempre e inevitabilmente un qualche giudizio soggettivo). Ed è questo, io credo, il principio che il medico deve seguire quando è solo a decidere, e che deve consigliare quando discuta coi familiari: solo lui conosce il dato medico oggettivo. Qui si può aprire una casistica senza fine, ma sbaglierebbe il moralista - filosofo o teologo che sia - che pretendesse di indicare una soluzione univoca per ciascun caso.
La decisione estrema
Accennerò qui di seguito solo a qualche aspetto di una situazione particolare: l'interruzione della rianimazione.
Escludiamo subito il caso della morte cerebrale, che abbiamo discusso e definito nel capitolo sui trapianti. La morte debitamente accertata, secondo le attuali conoscenze scientifiche e secondo le nostre leggi, impone la cessazione della rianimazione. I posti in rianimazione sono sempre limitati, e devono esser liberi per chi ne abbia veramente bisogno. Escluso questo caso (che non rientra nell'eutanasia, perché la morte è già avvenuta e quindi non è conseguenza dello staccare la spina), resta però il problema. Pio XII, in un celebre discorso ai medici, aveva già stabilito che la rianimazione era da considerarsi un mezzo straordinario e quindi non rientrante nel dovere morale stretto della cura della salute. Oggi, sul piano tecnico, la rianimazione non ha niente di straordinario: ma è da ritenersi mezzo straordinario nel senso della tradizione morale cattolica, in quanto può presentare rischi (di vita fortemente menomata), costi (personali e sociali), incertezza di esito, inutile prolungamento di sofferenze. Sono tutti elementi che vanno valutati caso per caso sia dall'interessato quando ne è in grado, sia dal proxy, sia dal medico.
Il problema di "staccare la spina" si presenta in realtà concrete assai diverse. Si pensi a uno stato comatoso grave, oppure alla prevedibilità di un ricupero solo vegetativo (privo di funzioni superiori tipicamente umane) o comunque fortemente degradato, oppure al caso molto serio (e spesso dimenticato) della inevitabile limitatezza di posti disponibili. Un grosso dramma si ha quando mancano posti per un traumatizzato grave e giovane, con buone speranze di ricupero, mentre vi sono posti occupati da anziani per i quali non vi è speranza di vero ricupero di una vita significativa: è un caso che si presenta spesso in occasione di eventi catastrofici - terremoti, incidenti stradali o aerei o ferroviari, crolli ecc. - in cui i bisognosi di rianimazione superano i posti disponibili. Un centinaio di feriti gravi mettono in crisi le strutture sanitarie di qualunque grande città. Si tratta qui di un problema sociale, la cui estrema gravità - io ritengo, sia pure con qualche incertezza - può imporre talora di disattendere le scelte del proxy e anche del singolo medico di reparto.
Di fronte a tante incertezze, allo stato attuale della scienza e delle strutture disponibili anche nei centri ospedalieri meglio organizzati e tenendo conto delle discussioni in atto negli ambienti etici e in quelli medici, io suggerirei una direzione di massima del tipo che segue. Quando l'infermo in rianimazione offra fondate speranze di guarigione o di ripresa duratura di vita umanamente significativa, allora non si dovrebbe interrompere il trattamento, dato che esso ha un significato propriamente terapeutico. In caso contrario, quando cioè non vi siano fondate speranze nè di guarigione nè di una durevole ripresa di una vita con funzioni superiori (sia pure in qualche misura degradate), allora non si dovrebbe parlare di dovere morale di mantenere la rianimazione. Quando vi siano seri motivi (non precisabili una volta per tutte), la rianimazione potrà interrompersi, e l'infermo potrà esser lasciato morire in pace a casa o in reparto ospedaliero, non trascurando il dovere di usare tutte le terapie palliative (in specie l'idratazione via flebo).
Una morte umana
Concludendo questo difficile argomento, si deve notare come negli ultimi decenni sia invalsa l'idea della morte come scacco supremo, mentre invece per il cristiano e anche per il non cristiano veramente umanista la morte è il momento culminante dell'esistenza.
Nel secondo capitolo ho tatto notare che la vita biologica non è la vita tout-court: è il modo in cui la vita umana si presenta nello spazio-tempo, e la morte è parte di tale condizione spazio-temporale, e deve esser guardata come parte essenziale della vita, con tutta la serietà e il rispetto consoni a un momento solenne. Invece la morte è oggi spesso vista come fallimento della scienza medica (quanto spesso i familiari imputano ingiustamente al medico il fallimento!).
Vorrei ricordare che fino a pochi anni or sono (e ancora oggi in tutti i Paesi poveri, cioè per la maggioranza della famiglia umana) era normale morire di eutanasia passiva, a casa propria, interrompendo terapie ormai inutili, e praticando invece l'assistenza e il conforto costante dei familiari. Diceva Madre Teresa che per i morenti nelle strade di Calcutta non aveva terapie da offrire, ma poteva accompagnarli a una morte serena con un poco di acqua e tenendo loro la mano. E io stesso nella mia lunga vita in parrocchia mille volte mi son trovato ad accompagnare a una morte serena in casa malati terminali: con la sola presenza, una preghiera, un consiglio ai familiari sul modo di star sempre vicino all'infermo e di alleviarne la disidratazione con un po' di cotone inumidito. E si tratta sempre di eutanasia passiva: rinunciare a ulteriori, gravosi e inutili trattamenti per assicurare una morte veramente serena e dignitosa. Salvo casi di morte improvvisa, giunge sempre il momento in cui la morte propria e dei propri cari deve essere accettata: e solo così, per quanto sta in noi, divenire una morte umana.
Enrico Chiavacci
(testo tratto dal libro di Enrico Chiavacci LEZIONI BREVI DI BIOETICA)
Si ringrazia Cittadella Editrice www.cittadellaeditrice.com per la gentile concessione della pubblicazione di questo testo di Enrico Chiavacci.