Sul celibato ecclesiastico
di Emmanuel Leroy Ladurie
Nelle sue lettere a Tito e Timoteo, san Paolo scrive che « il vescovo deve avere una sola donna”. Certo il Cristo ammetteva quest’idea, pur privilegiando la semplice castità, cioè l’autocastrazione (puramente simbolica), come quelli dei suoi discepoli che volevano situarsi in modo assoluto in una prospettiva celeste. E tuttavia il vescovo o il prete doveva decidere da sé: userà o no dei diritti coniugali che gli spettano nei confronti della sposa che Dio gli ha dato?. Nessuna legge canonica, e in ogni caso civile o cristiana, proibiva questo “uso”. San Gregorio di Nazianzio (nato nel 330) ricorda che quando fu generato suo padre era già vescovo. Quanto al prete Novaziano, non gli viene rimproverato il suo matrimonio, ma la violenza in “virtù” della quale ha provocato un aborto di cui fu vittima la sua compagna. Sinesio, che fu vescovo di Tolemaide, rivendicava il diritto di vivere con sua moglie dopo la consacrazione episcopale, e di avere così molti figli. Sant’Atanasio (nato verso il 295) nella sua lettera al monaco Draconzio, fa allusione ai prelati sposati e padri di famiglia. Clemente di Alessandria (nato verso il 150) dichiara che la Chiesa ammette benissimo che uno sia il marito di una sola donna e che poco importa che l’uomo in questione faccia professione di essere prete, diacono o laico. Se questo signore vive il suo matrimonio in maniera irreprensibile genererà molta progenie e nessuno vi troverà da ridire.
Un po’ più tardi il concilio di Gangres lancia l’anatema contro qualcuno che pretende che non si possa partecipare ai santi misteri (messa, ecc.) in compagnia di un prete sposato. Tutt’al più la Costituzioni apostoliche verso l’anno 400 della nostra era proibiscono ai preti vedovi di concludere una nuova unione coniugale.. Un certo Socrate (omonimo del filosofo) segnala che un gran numero di preti illustri nonché di vescovi ebbero (durante il loro magistero) dei figli dalle loro legittime spose. Al concilio di Nicea, nel 325, Pafnuzio, venerabile anziano e celibatario indurito, si leva contro coloro che vogliono che vescovi e preti si astengano da ogni commercio coniugale dopo la loro ordinazione. Il testo di Pafnuzio è superbo: “La relazione sessuale del marito e di sua moglie, possiamo crederlo, è anche una forma di castità, e ognuno deve seguire le preferenze del suo cuore.” Le parole di Pafnuzio, illuminate, troncheranno la discussione a Nicea, nel senso coniugale.
L’importante è di notare che in epoche assai antiche non esisteva nessuna legge della Chiesa che costringesse il clero al celibato. A partire dal IV° secolo, e soprattutto dal V° della nostra era, la Chiesa romana invece evidenzia il celibato come uno dei valori supremi del sacerdozio. Tale è la lezione di un concilio del 386, sotto la direzione del papa Siricio: “I Ministri del culto dovranno rinunciare per sempre alle opere della carne”. Da allora sant’Agostino e san Gerolamo faranno fuoco e fiamme contro un autore chiamato Vigilanza (sic) eccessivamente tollerante per le debolezze umane, troppo umane: san Paolino da Nola e san Salviano di Marsiglia dovranno dunque vivere con le loro mogli come con sorelle.
Non contestiamo questa evoluzione “castissima”. Ma nel nostro tempo di rarefazione estrema di vocazioni al sacerdozio, sarebbe certamente indicato di ritornare alle consuetudini della primitiva Chiesa delle dieci generazioni iniziali, questa Chiesa che ci viene sempre data come esempio. Nel Belgio attuale pochissime vocazioni si manifestano: bisogna dunque ricorrere a preti polacchi o congolesi, uomini di valore, ma che hanno talora difficoltà a comunicare, per ragioni linguistiche, con i loro greggi. Non si potrebbero reclutare dei celebranti nell’immensa colonia dei pensionati, compresi i non vedovi. Una volta formati, debitamente ordinati, diventerebbero senza dubbio ottimi soldati al servizio dell’esercito pacifico di un certo Cristo. Questa è la lezione che si potrebbe trarre da alcuni vecchi testi dei più antichi padri della Chiesa.
(In Le monde des religions, 17, p. 43)