Partecipando ad una ordinazione presbiterale o ad una professione religiosa con il pronunciamento dei voti, nelle omelie e negli interventi di circostanza si sente di solito parlare di scelta radicale, del fatto che ci si trova di fronte a persone che hanno abbandonato tutto, che hanno lasciato tutto dietro di sé, che hanno saputo fare grandi scelte nella propria vita. Interventi dello stesso tenore si sentono anche in occasione di ricorrenze, di celebrazioni e di anniversari.
Devo confessare che tutti questi discorsi a dir poco mi infastidiscono, per il semplice fatto che li trovo alquanto autoreferenziali. Ed al tempo stesso, vuoti. Immancabilmente, questo gran chiacchierare è accompagnato da geremiadi e lamentazioni riguardanti la constatazione che non ci siano più giovani che abbiano oggi voglia di fare queste scelte radicali, non più disposti a lasciare tutto, come è stato per tanti in passato…
Mi sembra chiacchiere che lasciano il tempo che trovano. È difficile che in qualche modo colpiscano, facciano breccia, possano andare, tra i presenti, oltre ad un udire con le orecchie. L’irritazione nasce dalla percezione di un senso di vacuità. Si sta parlando per slogan, per frasi fatte. È raro ritrovarsi in una vera comunicazione di esperienza (forse anche perché, per comunicare certe esperienze, le parole non bastano e sarebbe più saggio lasciarci coinvolgere dalle suggestioni del silenzio – o, meglio, dal mistero che ha saputo ancora una volta avvolgere e coinvolgere l’esistenza di una persona).
Scelta radicale. Questo ritornello è uno slogan diffusosi negli ultimi decenni. Molti, evidentemente, lo ritengono adeguato ai tempi. Sottintende l’idea dell’impegno, della militanza. Profonda, totale, onnicomprensiva. Solo che questa frase fatta non sdogana un bel niente. La scelta del presbiterato o della vita religiosa può essere – oggi come in passato - tutto fuorché una scelta radicale. Tutto sommato, con le sue garanzie e la sua routine, la vita del seminario o del convento può assicurare ben altro che una vita d’impegno e di scelte radicali.
In fondo mi sembra che alla base ci sia un elemento molto semplice: chi ha fatto la promessa di celibato o il voto di castità, ritiene di essere così bravo e di aver già pagato un “dazio” così alto che necessariamente la sua deve essere considerata una scelta radicale. Si è talmente convinti di ciò che non passa neanche per l’anticamera del cervello che, probabilmente, ci sono coppie che nella loro vita matrimoniale hanno fatto e stanno facendo esperienze di vita con scelte ben più radicali di certe carriere ecclesiastiche e/o religiose. Genitori che con pazienza e amore, nel corso di tutta una vita, allevano figli portatori di handicap; famiglie che si aprono all’esperienza dell’affido familiare, accogliendo minori segnati da storie terribili; figli che accudiscono genitori anziani, accompagnando la loro fatica nel lento esaurirsi delle forze, della lucidità e della memoria, pur sommersi dalle incombenze della cura e dell’allevamento della nuova generazione.
Ma c’è una notevole differenza. Queste persone non prenderanno mai in mano un microfono, nel corso di una celebrazione non diranno di sé che sono bravi e che hanno fatto scelte radicali. Non riempiranno le pagine di libri per dire agli altri quanto hanno fatto. Vivono e vivranno nella loro quotidianità, nel silenzio del loro amorevole impegno, una vita che, spesso, pare loro naturale. Anzi, se per caso si trovano momentaneamente sotto i riflettori, si scherniscono, si dicono ben lontani da quanto sottolineato nelle lodi, si giustificano affermando di fare soltanto il proprio dovere.
A questo punto presbiteri e religiosi/e mi diranno che è vero: anche queste persone fanno scelte radicali. Ma è un’ammissione che non lascia spazio. Nella predicazione e nei momenti di circostanza si continua (e si continuerà) a presentare presbiterato e/o vita religiosa come la scelta radicale della vita umana. In questa nostra autoreferenzialità, tutto il resto finisce con il contare ben poco.
E veniamo al secondo ritornello: persone che hanno abbandonato tutto. Francamente, non vedo come si possa sostenere ciò. Nell’epoca della globalizzazione, ogni angolo, anche quello più remoto, può essere a portata di mano. Poche ore di aereo colmano distanze che, fino a tre generazioni fa, potevano essere superate soltanto con mesi di viaggio. Alcuni mezzi di informazione permettono di mantenerci costantemente in rapporto con le altre persone, ovunque siano sul pianeta. Abbiamo aumentato a dismisura le possibilità per restare in contatto – e di accumulare mezzi, beni, proprietà, redditi…
Per parafrasare un passo del vangelo di Matteo, potremmo dire: osservate come crescono i gigli del campo o come veste l’erba (6, 28-30). Sì, basta vedere come ci si veste, quante cose si accumulano nelle nostre stanze, quanti aggeggi informatici abbiamo tra le mani, quanta roba ci sta sommergendo… Ma noi siamo quelli che hanno abbandonato tutto! E in tale modo tendiamo a presentarci agli altri. Siamo ancora nello stesso meandro di autoreferenzialità: riteniamo che il celibato e la castità siano un dazio sufficiente per dire agli altri che siamo coloro che hanno fatto scelte radicali, che hanno abbandonato tutto dietro a sé. In realtà non solo non abbiamo abbandonato tutto, ma abbiamo trovato molto – e, probabilmente, in questo nostro trovare manca proprio l’elemento essenziale, l’Unico.
In fondo, un prete o un religioso hanno poco di che preoccuparsi relativamente al proprio futuro. Si fa comunque parte di un’organizzazione che permette di non occuparsi del futuro. Sia per il mangiare che per il resto. Se un ladro penetra in casa nella notte e si porta via il televisore, il mattino dopo la prima preoccupazione dell’economo sarà quello di sostituirlo con uno nuovo. E c’è anche da pensare che, in fondo, il ladro ha anche fatto un favore, poiché il modello acquistato sarà senza dubbio migliore.
Si può pensare di sostituire periodicamente il proprio personal computer – ancora perfettamente funzionante e più che sufficiente per il lavoro da svolgere – con un modello che abbia in sé tutti gli ultimi ritrovati tecnologici. E se per caso affiora sulle nostre labbra un desiderio, state certi che nel giro di poco tempo ci sarà qualcuno che, alla prima occasione, farà in modo di far arrivare un gradito regalo.
Si ha la certezza, ad esempio, di una vecchiaia tutelata. Forse solitaria, con poca condivisione nelle comunità, ma di sicuro economicamente, materialmente tutelata. E l’assistenza sanitaria sarà sempre migliore di quanti non si possono permettere una camera riservata in un ospedale privato gestito da suorine gentili, professionali e onnipresenti.
Continuando su questa lunghezza d’onda. La psicologia sottolinea come le nostre scelte siano sempre motivate da pro e da contro. Sul piatto della bilancia si ammucchiano molti elementi (spesso nascosti, inconsci) che fanno declinare le nostre scelte in un senso o nell’altro. Scegliamo, a volte, per disperazione. Per uscire – comunque ed a qualunque costo – da certe situazioni di vita. Oppure – ed è il caso più frequente – perché vediamo che i vantaggi che riceviamo sono molto più degli svantaggi. E questi vantaggi non sempre sono spirituali. Senso di appartenenza, garanzia per il futuro, contenimento dei sensi di colpa, ruoli riconosciuti, possibilità di manipolazione delle persone, fuga dalle proprie responsabilità, incapacità a tessere relazioni significative con le persone, infantilismo, esercizio del predominio… Sono alcuni esempi, alcuni nomi che possiamo dare, scandagliando nel nostro essere, nel nostro intimo più profondo, agli innumerevoli vantaggi – per nulla spirituali – che ancora oggi una vita presbiterale e/o religiosa può offrire.
Mi affretto ad aggiungere che non è così per tutti. Per fortuna, gli appelli evangelici alla conversione e al cambiamento risuonano in ogni tempo ed ogni tempo conosce persone che sanno accoglierli. Forse, per i preti e religiosi può risultare più facile cadere in certi meccanismi. Noi maschi siamo portati a dare più importanza alle cose piuttosto che alle relazioni. E, quindi, corriamo maggiormente il rischio di lasciarci invischiare nel possesso e nei meccanismi del potere. Pensando, magari, di fare tutto questo a fin di bene…
Ma si può anche parlare a non finire dei poveri, degli ultimi e degli emarginati. In fondo, essendo i protagonisti di una scelta radicale, ci sentiamo autorizzati a farlo, ritenendoci, spesso, loro portavoce. Pensiamo di essere in grado, di avere il dovere – anzi, il diritto – di parlare in loro vece.
Dimenticando che i poveri si mostrano spesso con aspetti sgradevoli, i loro corpi ed i loro vestiti puzzano, irrompono nei momenti meno opportuni nel tran tran delle nostre giornate, non rientrano nei nostri schemi – neanche in quelli che riteniamo importanti: la conversione e la salvezza – e vivono nel silenzio e nella marginalità, lontani da quei riflettori che spesso accendiamo, ma che risultano rivolti soltanto verso di noi.
Dovremmo tornare a focalizzarci sulle esigenze della vita evangelica. Quelle esigenze che interpellano tutti nella loro radicalità e non soltanto alcuni privilegiati. Dovremmo iniziare a guardare diversamente alla nostra esperienza di vita e a quella degli altri – tutti quelli che troppo a lungo, purtroppo, sono stati definiti semplici laici. Metterci all’ascolto di tanti che, nelle loro fatiche quotidiane, forse con molte meno pretese di noi, vivono con serietà la loro quotidiana umanità.
E lasciare che il silenzio abbia ragione, per una volta, di tanti nostri discorsi.
Faustino Ferrari