Un dibattito attuale derivato da un intervento di P. Rinaldo Falsini su
“L’altare verso il popolo è scelta conciliare”
L’altare verso il popolo
di P. Uwe Michael LangLA DISCUSSIONE: UNA SCELTA IMPRUDENTE?
Accolgo con piacere l’invito di Rinaldo Falsini a riaprire un dibattito sulla posizione dell’altare e l’orientamento nella preghiera liturgica (Vita Pastorale 10/2006, pp. 54-55). Questo è un dibattito che, nonostante le apparenze contrarie, non si è mai spento. Già negli anni ‘60 teologi di fama internazionale criticarono l’accoglienza rapida della celebrazione “verso il popolo”: tra di essi Josef Andreas Jungmann, uno degli artefici della costituzione del concilio Vaticano Il sulla sacra liturgia, l’oratoriano Louis Bouyer, uno dei grandi teologi del Concilio, e Joseph Ratzinger, allora professore di teologia a Tübingen e peritus del Concilio. Le osservazioni del giovane Ratzinger non hanno perso nulla della loro rilevanza: «Non possiamo negare più a lungo che, a poco a poco, si sono fatte strada esagerazioni e aberrazioni che sono fastidiose e disdicevoli. Ad esempio tutte le messe vanno celebrate di fronte ai popolo? E di assoluta importanza poter guardare il sacerdote in viso, o non potrebbe spesso essere benefico riflettere che anche lui è un cristiano e che ha ogni ragione per volgersi verso Dio con tutti gli altri confratelli cristiani della congregazione e recitare con loro il Padre Nostro?» (traduzione da J. Ratzinger, “Der Katholizismus nach dem Konzil” in Auf dein Wort hin. 81. Deutscher Katholikentag vom 13. Juli’ bis 17. Juli 1966 in Bamberg, Paderborn 1966,p. 253).
Interpretazione forzata
«Malgrado la loro grande reputazione», questi teologi «in principio non riuscirono a far sentire la loro voce: era troppo forte la tendenza a sottolineare il fattore comunitario della celebrazione liturgica, quindi a considerare assolutamente necessario il fatto che sacerdote e fedeli fossero rivolti l’uno verso gli altri»: sono le parole del cardinale Ratzinger, ora papa Benedetto XVI, nella sua prefazione al mio libro Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica (ed. Cantagalli 2006, Siena, p. 9). Oggi, il clima intellettuale e spirituale è meno polarizzato ed è stato possibile riprendere la discussione sulla posizione dell’altare e l’orientamento della preghiera; lo dimostrano le recenti opere al riguardo che sono state accolte con notevole attenzione fra gli studiosi di liturgia. Come dice Ratzinger, «la ricerca storica ha reso la controversia meno faziosa, e fra i fedeli cresce sempre più la sensazione dei problemi che riguardano una disposizione che difficilmente mostra come la liturgia sia aperta a ciò che sta sopra di noi e al mondo che verrà» (ibid.).
Purtroppo, non posso essere d’accordo con la tesi di padre Falsini che «l’altare verso il popolo è scelta conciliare». E’ ben conosciuto che i decreti del Concilio non prevedono nulla di tutto questo. La Sacrosanctum concilium non parla di celebrazione «verso il popolo». Padre Falsini rimanda all’articolo 128 del cap. VII della costituzione: «Si rivedano (…) i canoni e le disposizioni ecclesiastiche che riguardano il complesso delle cose esterne attinenti al culto sacro, specialmente per la costruzione degna e appropriata degli edifici sacri, la forma e la erezione degli altari». Ma la sua interpretazione di questo articolo mi sembra forzata.
L’istruzione Inter oecumenici, preparata dal Concilium per l’applicazione della costituzione sulla sacra liturgia ed emanata il 26 settembre 1964, contiene un capitolo sulla progettazione di nuove (!) chiese e altari che comprende il paragrafo che segue: «Praestat ut altare maius extruatur a parete seiunctum, ut facile circumiri et in eo celebratio versus populum peragi possit (Nella chiesa vi sia di norma l’altare fisso e dedicato, costruito ad una certa distanza dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo)» (Inter oecumenici, n. 91: AAS 56, 1964, p. 898).
Vi si afferma che sarebbe desiderabile erigere l’altare separato dalla parete di fondo in modo che il sacerdote possa girarvi intorno facilmente e sia così possibile celebrare rivolti verso il popolo. Jungmann ci chiede di considerare quanto segue: «Viene sottolineata solamente la possibilità. E questa [separazione dell’altare dalla parete] non è neppure prescritta, ma solo consigliata, come si può notare osservando il testo latino della direttiva [...]. Nella nuova istruzione la premessa generale di una simile disposizione dell’altare viene sottolineata soltanto in funzione di possibili ostacoli o restrizioni locali» (J. A. Jungmann, “Der neue Altar” ii Der Seelsorger, 37, 1967, p. 375).
In una lettera indirizzata ai capi delle Conferenze episcopali, datata 25 gennaio 1966, il cardinale Giacomo Lercaro, presidente del Concilium, dichiara che, riguardo al rinnovamento degli altari, «la prudenza deve essere la nostra guida». E prosegue spiegando: «Soprattutto perché, per una liturgia vera e partecipe, non è indispensabile che l’altare sia rivolto versus populum: nella messa, l’intera liturgia della parola viene celebrata dal seggio, dall’ambone o dal leggio, quindi rivolti verso l’assemblea; per quanto riguarda la liturgia eucaristica, i sistemi di altoparlanti rendono la partecipazione abbastanza possibile.
In secondo luogo si dovrebbe pensare seriamente ai problemi artistici e architettonici essendo questi elementi protetti in molti Paesi da rigorose leggi civili» (traduzione da G. Lercaro, “L’heureux développement” in Notitiae 2, 1966, p 160). Si deve ricordare in quel contesto anche una proposizione fondamentale delle norme generali sulla riforma della sacra liturgia della Sacrosanctum concilium: «Infine non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti» (cap. III. art. 23). In ogni caso, non ci si può appellare al concilio Vaticano Il per giustificare le radicali alterazioni cui sono state sottoposte le chiese storiche in tempi recenti.
Per quanto riguarda l’esortazione alla prudenza del cardinale Lercaro, Jungmann ci ammonisce a non dare per scontata l’opzione concessa dall’istruzione rendendola una «richiesta assoluta, ed eventualmente una moda, alla quale soccombere senza pensare» (Der neue Alltar, p. 380). L’Inter oecumenici consente quindi di celebrare la messa di fronte al popolo, ma non lo prescrive. Quel documento non suggerisce affatto che la messa celebrata volgendosi verso i fedeli sia sempre la forma preferibile di celebrazione eucaristica. Le rubriche del rinnovato Missale Romanum di papa Paolo VI presuppongono un orientamento comune del sacerdote e del popolo per il momento culminante della liturgia eucaristica.
L’istruzione indica che, al momento dell’orafe fratres, della Pax Domini, dell’Ecce, Agnus Dei e del Ritus conclusionis, il prete debba volgersi verso i fedeli: questo parrebbe implicare che in precedenza sacerdote e popolo fossero rivolti nella stessa direzione, ovvero verso l’altare. Alla comunione del celebrante la rubrica dice ad altare versus, istruzione che sarebbe ridondante se il celebrante fosse già dietro l’altare e di fronte al popolo. Tale lettura viene confermata dalle direttive della Institutio generalis, anche se queste, di tanto in tanto, sono diverse da quelle dell’Ordo Missae. La terza Editio typica del rinnovato Missale Romanum, approvata da papa Giovanni Paolo II il 10 aprile 2000, e pubblicata nella primavera del 2002, mantiene queste rubriche.
Un richiamo caduto nel vuoto
Tale interpretazione dei documenti ufficiali è confermata dalla Congregazione per il culto divino. In un editoriale di Notitiae, il bollettino ufficiale della Congregazione, si chiarisce che la disposizione di un altare che permetta la celebrazione verso il popolo non sia questione sulla quale la liturgia stia in piedi o cada. L’articolo suggerisce inoltre che, in questo problema come in molti altri, il richiamo alla prudenza del cardinale Lercaro è più o meno caduto nel vuoto sull’onda dell’euforia postconciliare. L’editoriale osserva che il cambiamento di orientamento dell’altare e l’uso della lingua corrente sono cose molto più facili che l’entrare nella dimensione teologica e spirituale, della liturgia, studiarne la storia e tener conto delle conseguenze pastorali della riforma (“Editoriale: Pregare ‘ad orientem versus’” in Notitiae 29, 1993, p. 247).
Nell’edizione riveduta dell’Ordinamento generale del Messale romano, pubblicata a scopo di studio nella primavera del 2000, si trova un paragrafo che riguarda la questione dell’altare: «Altare exstruatur a parete seiunctum, ut facile circumiri et in eo celebratio versus populum peragi possit, quod expedit ubicumque possibile sit [L’altare sia costruito separato dalla parete in modo che si possa girare facilmente intorno e celebrare di fronte al popolo - il che è desiderabile ovunque sia possibile]» (n. 299). La sottile formulazione di questo paragrafo (possit - possibile) indica con chiarezza come la posizione del sacerdote celebrante di fronte al popolo non sia resa obbligatoria: l’istruzione consente semplicemente entrambe le forme di celebrazione.
In ogni modo la frase aggiunta «che è desiderabile ovunque (o comunque) sia possibile (quod expedit ubicumque possibile sit)», si riferisce alla previsione di un altare a sé stante e non al fatto che sia desiderabile una celebrazione versus populum. Eppure diverse recensioni dell’Ordinamento generale riveduto sembrano suggerire che la posizione del celebrante versus orientem o versus absidem sia stata dichiarata indesiderabile o persino proibita. Tale interpretazione è stata tuttavia respinta dalla Congregazione per il culto divino rispondendo a una domanda del cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna (sorprende che sia stata pubblicata non su Notitiae, ma sulla pubblicazione ufficiale del Pontificio consiglio per i testi legislativi, Communicationes 32, 2000, pp. 171-172). Naturalmente il paragrafo in questione dell’Ordinamento generale va letto alla luce di questo chiarimento.
Una breve digressione storica sulle riflessioni del padre Pierre Jounel: il concilio Vaticano I si tenne nel transetto destro di San Pietro e perciò si celebrava la messa all’altare nell’abside del medesimo transetto volgendo “le spalle ai padri” (espressione inadeguata). Invece, le sessioni del concilio Vaticano II furono tenute nella navata centrale. La messa si celebrava “verso l’aula conciliare”, perché San Pietro è una basilica con l’ingresso orientato a est, verso cui il celebrante che stava dietro l’altare si volgeva durante la liturgia eucaristica (vedere cap. Il del mio libro Rivolti al Signore).
In realtà, la questione soggiacente al dibattito liturgico è la ricezione del Concilio. Come Benedetto XVI ha detto nel suo fondamentale discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, ci sono due ermeneutiche opposte: l’ermeneutica della discontinuità e della rottura e l’ermeneutica della riforma: «L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare». Al contrario, l’ermeneutica della riforma, «del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato», ci guida a una rilettura dei testi conciliari nel contesto della tradizione ecclesiale. Perciò non possiamo lasciare in disparte la riflessione sulla storia e sulla teologia dell’orientamento liturgico, neanche interpretando il Concilio, come propone Falsini nel suo articolo. Come ho provato a mostrare in Rivolti al Signore, la direzione comune del sacerdote e dei fedeli nella preghiera liturgica appartiene a tutta la tradizione cristiana, d’Oriente e d’Occidente, e ha un significato ancora più attuale per la vita della Chiesa odierna.
(da Vita Pastorale, gennaio 2007)
LA RISPOSTA
Una recezione definitiva e totale
di P. Rinaldo Falsini
Ringrazio Michael Lang per l’attenzione riservata al mio articolo “L’altare verso il popolo è scelta conciliare” (Vita Pastorale, 10/2006, pp. 54-55), non altrettanto per la sua disponibilità «a riaprire un dibattito sulla posizione dell’altare e l’orientamento nella preghiera liturgica», prescindendo dalla “scelta conciliare” anzi rifiutandola pregiudizialmente. Scrivevo infatti che «riconosciuta la piena legittimità conciliare della scelta, si può aprire un nuovo dibattito che prenda sul serio l’esperienza della riforma liturgica compiuta in questi quarant’anni e al tempo stesso le critiche mosse alla medesima per trovare una soluzione concordata».
Dovrei quindi interrompere il dialogo che Lang ha iniziato ripetendo il contenuto del volume Rivolti al Signore, che non interessa direttamente i lettori. Tuttavia non voglio rifiutarmi al confronto, premettendo però due principi fuori discussione che possono guidare con serenità il nostro dialogo.
1 La celebrazione verso il popolo è una posizione prevista e proposta dal Concilio come ho “documentato” nel mio intervento; 2 La recezione della proposta come modalità più adeguata da parte della Chiesa cattolica è stata immediata e “universale” come testimoniano i quarant’anni della riforma liturgica.
Tutto il resto può essere oggetto di discussione, ma restando entro questo ambito.
La volontà del Concilio
Michael Lang ripete quanto scritto dal cardinale Joseph Ratzinger, che la Sacrosanctum concilium cioè non parla di celebrazione «verso il popolo». La costituzione per sua natura non entra nei dettagli, ma il mio intervento, in riferimento al titolo, è la documentazione oggettiva, e non un’interpretazione un po’ forzata, tanto meno una “tesi”, che il problema della celebrazione verso il popolo ha coinvolto i padri conciliari nella discussione sia in aula e sia nella commissione liturgica, quindi nella votazione dell’articolo 128 del cap. VII sull’”Arte sacra e la sacra suppellettile”, al quale era allegata una Declaratio predisposta già nella commissione preparatoria, dalla quale è stata tratta la frase che dispone «la separazione dell’altare dalla parete per occupare un posto centrale fra presbiterio e fedeli, con la possibilità di celebrare rivolti ai fedeli». Su questo fatto indiscutibile, che ho avuto la fortuna di poter raccontare utilizzando il materiale della commissione conciliare di liturgia in quanto addetto alla segreteria, e che ha incontrato vivo apprezzamento in molti studiosi in Italia e oltre le Alpi, Michael Lang tace, sorvola, dopo aver detto che «non può essere d’accordo». Così, ignorandone l’origine conciliare, prosegue il suo sguardo sul testo dell’Inter oecumenici nelle varie vicende per giungere al suo vero obiettivo, l’orientamento nella preghiera liturgica.
Ritornando al Concilio, all’inizio di ogni congregazione generale veniva celebrata nell’aula la santa messa rivolti verso l’assemblea, mentre, commenta Jounel, al concilio Vaticano I, il celebrante voltava le spalle ai Padri. La stessa istruzione fu composta dal Consilium della riforma, utilizzando il materiale della preparatoria, e pubblicata il 26 settembre 1964, in pieno svolgimento del Concilio, per entrare in vigore il 7 marzo 1965, a Concilio ancora aperto. Quindi la celebrazione rivolti al popolo appartiene a pieno titolo al Concilio, dalla discussione all’attuazione, e ha contribuito indubbiamente alla sua convinta e totale adesione.
Accoglienza immediata
La recezione ecclesiale del documento Inter oecumenici, ordinato «a rendere la liturgia rispondente allo spirito del Concilio per promuovere la partecipazione attiva dei fedeli» (n. 4), fu pronta e impegnata, in particolare il capitolo relativo ai luoghi della celebrazione, partendo dall’altare. A questo proposito dobbiamo insistere che la celebrazione rivolti al popolo non è un atteggiamento isolato né tanto meno primario e nemmeno indispensabile, bensì un aspetto della centralità dell’altare rispetto a tutta l’assemblea con il sacerdote.
Lo conferma il n. 91: «E’ bene che l’altare maggiore sia staccato dalla parete per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo. Nell’edificio sacro sia posto in luogo tale da risultare come il centro ideale a cui spontaneamente converga l’attenzione di tutta l’assemblea».
Michael Lang annota tutto questo, ma dopo avere sottolineato due inviti alla misura e alla prudenza, rispettivamente di A. Jungmann e del cardinale Lercaro, contro interpretazioni ed eccessi per l’euforia del momento. Non ho difficoltà a riconoscerlo e a ricordare.
Nel 1970 usciva la prima edizione del Messale romano (ed. italiana 1973) dotata dell’Institutio generalis che al n. 262 riportava letteralmente il testo sopra citato con nuove parole iniziali «L’altare maggiore sia costruito {...]». Nella seconda edizione italiana del 1983 la Cei introdusse alcune precisazioni, di cui il n. 14 riguardava l’altare, con tono più deciso: «L’altare fisso della celebrazione sia unico e rivolto al popolo. Nel caso di difficili soluzioni artistiche per l’adattamento di particolari chiese e presbiteri, si studi, sempre d’intesa con le competenti commissioni diocesane, l’opportunità di un altare mobile opportunamente progettato e definitivo. Se l’altare retrostante non può essere rimosso o adattato, non si copra la sua mensa con la tovaglia».
Ormai la recezione, in Italia, era definitiva e totale, non lasciata alla libera scelta come Lang asserisce, confrontando le rubriche dell’Ordinano del messale italiano con l’institutio generalis.
Ma il testo autorevole per il nostro problema è rappresentato dall’editoriale “Pregare ‘ad Orientem versus” della rivista della Congregazione per il culto divino, Notitiae n. 322, 1993, pp. 245-249. che Lang cita scegliendo soltanto qualche frase “innocua” alla sua tesi sulla semplice possibilità.
è coerente con l’idea teologica di fondo, riscoperta e provata dal movimento liturgico (…). La teologia del sacerdozio comune e del sacerdozio ministeriale, distinti essentia, non gradu, ordinati l’uno all’altro (LG 10) si esprime certamente meglio con la disposizione dell’altare versus populum. “Non pregavano gli antichi monaci fin dall’antichità gli uni uniti agli altri per cercare la presenza del Signore in mezzo a loro?”».Convito e sacrificio
Vorrei riportare, sempre dalla stessa pagina, un’osservazione che ritengo risolutiva dell’idea serpeggiante che il sacerdote rivolto al popolo metta meglio in risalto il significato della messa come convito, mentre il sacerdote con il popolo rivolto all’altare metta in rilievo la dimensione sacrificale considerata prevalente. Ecco il testo: «Un motivo figurativo merita ancora di essere sottolineato. La forma simbolica dell’eucaristia è quella di un convito, ripetizione della cena del Signore. Non si dubita che questo convito sia sacrificale, memoriale della morte e risurrezione di Cristo, però dal punto di vista figurativo il suo punto di riferimento è la cena» (pp. 247-248).
L’editoriale propone infine alcuni orientamenti pratici, come: 1) «La celebrazione dell’eucaristia versus populum domanda al sacerdote una maggiore e sincera espressività della sua coscienza ministeriale»; 2) «L’orientamento dell’altare versus populum esige con maggiore rigore un uso più corretto dei diversi luoghi del presbiterio [...]»; 3) «La collocazione dell’altare versus populum è certo qualcosa di desiderato dall’attuale legislazione liturgica». Ma non vanno dimenticate altre osservazioni come: «L’espressione rivolti al popolo non ha un senso teologico, ma topografico-presidenziale. Teologicamente pertanto la Messa è sempre rivolta a Dio e rivolta al popolo ecc.».
Non vorrei esagerare, ma questa valutazione autorevole è la riprova che l’altare verso il popolo è da considerarsi ormai “recepito” a pieno titolo dalla Chiesa cattolica. Gli interventi successivi confermano il fatto. La terza edizione del Messale romano del 2000 aggiunge al n. 299, dopo le parole «celebrare rivolti verso il popolo», l’inciso «la qual cosa è conveniente realizzare ovunque sia possibile», che va attribuito all’intero periodo. In particolare introduce il nuovo n. 303 relativo alle nuove chiese per l’unicità dell’altare e a quelle con il vecchio, altare suggerendone uno nuovo, senza danneggiarne il valore artistico.
Un altro episodio degno di menzione è il volume L’altare, mistero di presenza, opera dell’arte, a cura di Goffredo Boselli del monastero di Bose, che raccoglie gli Atti del secondo convegno internazionale (31 ottobre-2 novembre 2004), di cui il secondo ambito di ricerca è dedicato alla presentazione e valutazione di alcune realizzazioni di altare dal Vaticano Il ad oggi in Europa, una panoramica iconografica altamente significativa. Sempre in tema di pubblicazioni in rapporto alla recezione molto positiva sul piano pastorale è l’articolo del teologo e parroco Severino Dianich su “La posizione del prete all’altare” in Vita Pastorale, 7/2006, pp. 66-67.
Vengo all’ultimo paragrafo. All’accusa della nostra rilettura del testo conciliare; «lasciando in disparte la riflessione sulla storia e sulla teologia dell’orientamento liturgico», mi limito a rispondere che nei precedenti interventi su queste stesse pagine ho scritto che non esiste una tradizione comune d’Oriente e d’Occidente circa l’orientamento della preghiera liturgica: alla citazione iniziale dell’articolo posso aggiungere Vita Pastorale 6/1993, pp. 8-9; 10/1993, pp. 60-61; 4/2001, pp. 50-51.
Sulla stessa mia posizione si collocano l’editoriale citato di Notitiae pp. 246-247 e in particolare P. Gy, che proprio sul piano storico documenta contro L. Bouyer e J. Ratzinger che la celebrazione verso il popolo è attestata a Roma e in Africa e la questione verso oriente risale alla liturgia papale di Avignone (cf. Maison-Dieu, 229,2002/1, p. 174). Infine, come suggerito, spostando l’interpretazione conciliare alla luce del discorso di Benedetto XVI, seguendo come proposta il volume Rivolti al Signore, che io ritengo “unilaterale”, il problema viene ad assumere aspetti che per ora esulano dal nostro dibattito. Mi auguro di intervenire sull’orientamento nella liturgia eucaristica.
(da Vita Pastorale, gennaio 2007)
LE ALTRE TRADIZIONI
La prassi delle Chiese orientali
di Stefano Parenti *
Nel dibattito che di recente si è riacceso nella Chiesa romano- cattolica intorno alla posizione del celebrante all’altare non mancano riferimenti alla prassi delle Chiese ortodosse,e in genere orientali, che nella celebrazione dell’eucaristia hanno conservato fino ad oggi la tradizione della preghiera orientata, per la quale presidente e assemblea sono insieme rivolti verso l’altare nell’abside che si suppone sia edificata a est, mentre l’ingresso della chiesa si colloca a ovest. L’informazione è esatta ma tutt’altro che completa perché nel sistema liturgico del rito bizantino non solo l’eucaristia ma ogni celebrazione è orientata, dalla liturgia delle ore ai sacramenti, dai riti di benedizione a quelli di suffragio. La preghiera orientata, anzi, è la norma anche in casa: le icone davanti alle quali la famiglia si riunisce per pregare sono disposte sulla parete orientale ed è a quel centro ideale che tutti si rivolgono per la preghiera della mensa. Quindi ad essere orientata non è soltanto la liturgia, ma l’intera vita cristiana, dal battesimo alla sepoltura. Nei cimiteri dei paesi a maggioranza ortodossa colpisce infatti la posizione unidirezionale delle tombe, tutte rivolte a est, a dire che i defunti sono lì in attesa della risurrezione annunciata da Cristo che tornerà da oriente (Mt 24,27). E’ una tradizione così profondamente radicata che anche dove vigeva il socialismo reale, sotto un regime molto attento a obliterare i segni del cristianesimo, le tombe con la stella rossa erano ugualmente posizionate a oriente come le tombe dei credenti. Questa circolarità sempre auspicata tra liturgia comunitaria, preghiera personale-familiare e vita di tutti i giorni le Chiese ortodosse l’hanno raggiunta integrando nel culto la devozione delle masse. La radice ultima del forte attaccamento degli orientali alle celebrazioni liturgiche sta proprio nel fatto che l’abituale solennità con le quali si svolgono non ne ha attenuato il carattere fortemente popolare. Una tradizione liturgica, un “rito” (bizantino, romano, ambrosiano, ecc.), è ben oltre che un “modo” di celebrare i misteri della salvezza. E’ un sistema coerente e coordinato, fatto di gesti e parole significativi anzitutto per la comunità celebrante, così che ogni rito cristiano è sempre portatore di una visione propria e particolare di quello che celebra. La disposizione e la fruizione dell’edificio che accoglie l’assemblea per la liturgia di questa visione è parte integrante e tutt’altro che secondaria.
Due sistemi fondamentali
Un Oriente cristiano in quanto tale non esiste; esistono invece delle Chiese orientali che hanno una tradizione liturgica propria, a volte comune a più Chiese. Per l’architettura liturgica abbiamo due sistemi fondamentali, siriaco e bizantino antico. In ambedue i sistemi la liturgia della Parola ha uno spazio ben definito e propri arredi nel centro della chiesa: in Siria troviamo il bema, una piattaforma rialzata con la cattedra episcopale, gli scanni per i presbiteri e gli amboni per la proclamazione della Parola. L’altare è nell’abside rivolto a oriente e con una cortina che pende all’ingresso del santuario/presbiterio. I celebranti vi entrano soltanto all’inizio della liturgia eucaristica e per le preci conclusive della liturgia delle ore, essendo il santuario luogo dell’intercessione e del sacrificio, non solo eucaristico, ma anche del quotidiano sacrificio di lode (vespri e mattutino-lodi).
A Costantinopoli al centro della chiesa troviamo un unico ambone monumentale, mentre la disposizione del presbiterio richiama le attuali chiese di rito romano con cattedra episcopale e seggi per i presbiteri nell’abside e, davanti alla cattedra, un altare isolato. Per riprendere le parole dell’Institutio generalis del Messale romano del 1969 (par. 262) è davvero un altare «costruito staccato dalla parete per potervi facilmente girare intorno», ma non per celebrarvi verso il popolo. Nel rito costantinopolitano la relazione tra altare e celebrante viene tratteggiata dalle preghiere presidenziali che conosciamo da un codice scritto in Calabria verso la fine dell’VIII secolo, il Barberini gr. 336, dove colui che presiede l’azione liturgica è definito più volte «servitore dell’altare».
Come nel Canone romano, l’altare di pietra rimanda all’altare del cielo dal quale discende sui presenti e sui doni eucaristici la grazia dello Spirito Santo. Il punto focale, almeno nella tradizione bizantina, non è però l’altare, ma la cattedra vuota dove il Cristo, presente in tutte le celebrazioni liturgiche, siede invisibilmente. La cattedra vuota indica anche la provvisorietà delle liturgie terrene in attesa della liturgia eterna che viene già celebrata nei cieli e attende soltanto il compimento alla fine dei tempi. A volte si legge o si sente dire che la celebrazione orientale con colui che presiede posto dinanzi all’altare intende sottolineare la dimensione sacrificale dell’eucaristia piuttosto che quella conviviale.
Che dire allora della liturgia delle ore? La verità è che ogni tradizione va compresa nel contesto del proprio sistema teologico e, almeno in ambito ortodosso, la teologia liturgica è unica per i sacramenti e la preghiera delle ore: la liturgia è personalistica e il suo scopo è la santificazione della comunità, non degli elementi naturali o del tempo. Quello che si intende sottolineare, almeno a data antica, non è l’aspetto sacrificale, ma la dimensione cosmica della liturgia, intesa come possibilità offerta a presidente e assemblea di concelebrazione nella liturgia eterna celebrata nei cieli. Anche quando dopo l’iconoclasmo (anno 843) la grande basilica bizantina cederà il posto a un modello di chiesa più piccolo, ispirato all’architettura monastica, la percezione resterà la medesima.
Nella relazione al convegno di Bose “Lo spazio liturgico e il suo orientamento”, anticipata su Avvenire del 1° giugno scorso, Enzo Bianchi sottolineava che «i due modi possibili di celebrare l’eucaristia non possono, presi singolarmente, esaurire la totalità del mistero celebrato». Nel caso dell’Oriente cristiano certamente non si tratta della pretesa di esaurire la totalità del mistero, ma di optare per un sistema simbolico ritenuto più congeniale e funzionale al proprio modo di celebrare i misteri, che restano sempre tali in quanto opera di Dio.
La differenza è evidente quando si celebra la liturgia delle ore in un edificio adattato al rito bizantino o in una chiesa orientata. Ai vespri l’abside si trova nella penombra illuminata dalla luce debole del tramonto che filtra dalle finestre della parete di fondo posta a occidente, e dall’abside inizia l’accensione delle candele e dei lumi per il lucernare, che culmina con il canto dell’inno a Cristo “Lieta luce di gloria santa” che illumina le tenebre. Inversamente alla fine delle lodi mattutine l’abside e il presbiterio posti a oriente sono inondati di luce e da lì inizia lo spegnimento dei lumi e delle candele perché «è venuto a visitarci dall’alto un sole che sorge». E’ chiaro allora che una chiesa non orientata indebolisce la mistagogia dei segni legata alla liturgia delle ore, che nelle Chiese ortodosse è celebrata quotidianamente “con il popolo”, non solo nei monasteri ma in ogni chiesa parrocchiale. Tuttavia anche in un edificio geograficamente non orientato la simbologia non viene meno: il presbiterio con l’altare e la cattedra restano il punto focale per tutti i partecipanti.
Non è un problema ecumenico
Gli autori che auspicano l’adozione nelle liturgie d’Occidente della celebrazione orientata, o almeno del suo incremento, non omettono di evidenziare che l’opzione versus populum prospettata dall’istruzione postconciliare Inter oecumenici del 26 settembre 1964 e subito applicata dovunque, avrebbe allontanato la Chiesa di rito romano dalla comune tradizione cristiana, creando così un ennesimo problema ecumenico. Personalmente credo che una tale preoccupazione vada ridimensionata. La celebrazione versus populum praticata nella Chiesa romano-cattolica non costituisce un problema nelle relazioni tra le Chiese in vista della ricomposizione dell’unità cristiana ed è un tema assente anche in campo accademico, dove le riserve verso la prassi liturgica cattolica riguardano aspetti ritenuti più importanti, come lo spostamento della cresima/confermazione a dopo la prima comunione o la prassi generalizzata della comunione dalla riserva eucaristica e sotto il solo simbolo/specie del pane.
Il vero problema sta in una certa attitudine mentale che considera le Chiese orientali come il museo di se stesse, intente a conservare una tradizione sulla quale non è possibile neanche discutere, e alle quali ci si può sempre rivolgere quando si ha bisogno di qualche argomento (ex Oriente lux!) per sostenere ogni genere di tesi, salvo poi ignorarne la tradizione quando si scopre che non coincide con i nostri desideri e interessi. Un approccio scientifico, e quindi disinteressato, al patrimonio e all’esperienza liturgica dell’Oriente cristiano, e non solo del passato ma anche del presente, metterà sul tappeto una realtà, forse poco conosciuta, ma non per questo meno vera: nella Chiesa ortodossa di Grecia esiste un movimento in favore della celebrazione versus populum, che in alcune occasioni viene regolarmente praticata. E non si tratta di liturgie alternative che si tengono in qualche parrocchia di cui nessuno ricorda il nome, ma della solenne celebrazione della liturgia detta di san Giacomo, il formulario eucaristico originario della Chiesa di Gerusalemme, presieduta nella propria cattedrale dall’arcivescovo di Atene o dal metropolita del Pireo, regolarmente teletrasmesse dalle numerose emittenti televisive di proprietà della Chiesa o sotto il suo controllo.
Negli ultimi anni l’arcivescovo di Atene, Cristodoulos, celebra versus populum la liturgia eucaristica del Sabato santo, e non all’altare nel presbiterio, ma sul simulacro (epitàphios) della tomba vuota di Cristo posto nel centro della chiesa in mezzo ai fedeli. In Russia neanche a parlarne, ma quello che non è possibile a Mosca lo è ad Atene perché in materia liturgica esiste nelle Chiese ortodosse un duplice principio, operante anche se non codificato, quello dell’autodeterminazione di una Chiesa locale e della non interferenza delle altre, quando non è in discussione il deposito della fede.
La fenomenologia del movimento nella Chiesa di Grecia per la liturgia versus populum è interessante anche per alcune analogie con quanto è avvenuto nella Chiesa romano- cattolica, visto che in ambedue: le Chiese troviamo a monte un movimento più generale per la riforma liturgica, un tema sul quale il santo Sinodo di Atene si è espresso più volte negli ultimi anni con interesse prioritario. Più incerta invece è l’analisi delle motivazioni, e qui entra in gioco l’aspetto culturale e antropologico del problema.
Per le Chiese ortodosse gli argomenti addotti in campo cattolico (aspetto conviviale dell’eucaristia, partecipazione attiva, opportunità pastorale) non bastano se non possono dimostrare radicamento e relazione con la tradizione ecclesiale intesa in senso dinamico. Ecco allora che a commento di una foto di una celebrazione ortodossa versus populum si trova una didascalia che spiega come in quell’occasione la liturgia si svolge “al modo antico”. Foto e commento sono apparsi su Peiraiki Ekklisia, il mensile ortodosso più diffuso e influente in Grecia. E a proposito ricordo l’espressione interessata, ma non sorpresa, del collega Robert Taft quando ho avuto occasione di mostrargli il servizio, a conferma che la liturgia è dovunque una realtà in movimento, anche se non sempre immediatamente percettibile. Il movimento liturgico ortodosso oggi è molto vivo e si esprime anzitutto nella promozione degli studi, particolarmente in Russia, e nella riflessione comune su temi di storia, teologia e pastorale liturgica, spesso in collaborazione con istituzioni o studiosi cattolici.
versus populum resta episodica. La non accoglienza di questa e altre riforme liturgiche, come una certa ipersensibilità al “nuovo”, deve essere compresa a partire dalla storia di queste Chiese, dove in un passato anche recente le riforme sono sempre state auspicate e messe in atto dai movimenti ecclesiali che con la gerarchia hanno avuto rapporti conflittuali anche a motivo dello spiccato impegno politico di leader e aderenti durante la dittatura dei colonnelli. Così la proposta della celebrazione versus populum spesso è stata intesa soltanto come espressione di contestazione o di particolarismo ecclesiale, e quindi isolata e scoraggiata. A costo di generare delusione, come si può vedere, in tutte queste faccende la teologia liturgica non ha avuto e non ha un grande ruolo.Le Chiese malabarese e maronita
Qualcosa di simile, ma con motivazioni di altro genere, è avvenuto di recente anche nell’Oriente cattolico. Dopo il Vaticano Il la Chiesa malabarese (India meridionale) e in parte quella maronita (Libano ed emigrazione), hanno adottato di propria iniziativa la celebrazione versus populum, una scelta apparentemente incomprensibile se si tiene presente che proprio le Chiese di cultura liturgica siriaca hanno tanto sottolineato nei testi e nella disposizione dell’edificio di culto l’importanza della celebrazione orientata. In realtà, dopo l’occupazione portoghese del 1498, i malabaresi avevano perso l’autonomia ecclesiastica e perfino la gerarchia indigena (ripristinata soltanto nel 1896), subendo un’intensa latinizzazione. La celebrazione orientata è rimasta in uso fino al Vaticano Il, ma le Chiese da secoli ormai avevano perso il bema centrale per la liturgia della Parola e la cortina dinanzi al santuario/presbiterio, così quando nella Chiesa romana si è fatta strada la celebrazione versus populum era del tutto naturale per i malabaresi farla propria. Il colmo è che l’operazione è stata camuffata all’insegna dell’inculturazione indiana: non c’è nulla di specificamente indiano nella messa malabarese versus populum, al contrario, come ho fatto notare in Liturgia dei dizionari San Paolo, e ben prima di Uwe Michael Lang, «si ha l’impressione che l’inculturazione [...] continui piuttosto a guardare verso modelli liturgici europei [...] in un vero aggiornamento della latinizzazione» (Cinisello Balsamo 2001, p. 1391).
Nel 1996 la Congregazione per le Chiese orientali ha emanato una istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei canoni delle Chiese orientali, un documento importante e ben scritto, ma assai singolare nella sua concezione, nel presumere di poter riformare liturgie mal celebrate in base a norme canoniche. Nel § 107, dopo aver richiamato i motivi che esigono nelle tradizioni orientali la celebrazione versus orientem, si afferma: «Tale prassi, minacciata in non poche Chiese orientali cattoliche per un nuovo, recente influsso latino, ha dunque un valore profondo e va salvaguardata come fortemente coerente con la spiritualità liturgica orientale». Ma l’istruzione non è stata accolta con favore e alcuni episcopati sono giunti a ostacolarne la traduzione nelle rispettive lingue perché il documento metteva in discussione tutta una serie di abitudini contratte nel tempo e che ora le Chiese considerano come tradizione propria e distintiva, specialmente laddove l’acquisizione di elementi del rito romano è avvenuta per distinguersi dal rito delle Chiese ortodosse di origine.
Cosa allora le Chiese d’Oriente, almeno quelle che hanno mantenuto la propria fisionomia, possono offrire alle Chiese sorelle d’Occidente? Non modelli da imitare, ma un paradigma su cui riflettere, quello cioè della circolarità tra liturgia, teologia liturgica, architettura, spiritualità, devozione popolare. Se nel rito romano la celebrazione versus populum risulta pienamente coordinata con l’intero sistema liturgico attualmente vigente, allora ogni confronto con altri sistemi liturgici, dell’antichità, di Trento o delle Chiese orientali, sarà istruttivo, anche formativo, ma in nessun caso normativo e in grado di modificare il presente in modo durevole.
* (Professore straordinario di liturgie orientali e liturgia comparata. Facoltà di liturgia del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, Roma)
(da Vita Pastorale, gennaio 2007)
Sul libro di Uwe Michael Lang
Alcune semplici osservazioni
di Riccardo Barile
Le questioni suscitate e dibattute richiedono un’erudizione superiore alla cultura di un operatore pastorale medio. Qui invece vorremmo limitarci a proporre alcune attenzioni di semplicità basica, accessibili a tutti e che sarebbe opportuno tenere presente.
1 La questione antropologica. Cogliere il senso dell’oriente suppone cogliere anche gli altri punti cardinali e vivere all’aperto per vedere dove il sole nasce e dove tramonta. Questa è una dimensione antropologica che l’uomo cittadino o non ha più o ha molto indebolita, poiché vivendo tra case mediamente alte né acquisisce tale orientamento né lo usa nella vita giornaliera. Certo, l’oriente teologico è infinitamente di più, ma per sussistere ha bisogno di questa dimensione antropologica, oggi per lo più assente.
2 La non rilevanza dell’orientamento. La facilità di disporre di una base antropologica non è tutto, poiché per certe esperienze cristiane ritenute fondanti essa va costituita o ricostituita quando manca: così la Chiesa per l’eucaristia richiede di entrare nella pratica del pane di frumento e del vino di uva anche laddove non se ne fa uso. Dovremmo dunque far reimparare a regolarsi sui punti cardinali perché la preghiera cristiana ritrovi il suo vero e pieno senso? No, poiché bisogna distinguere tra posizione fisica e orientamento spirituale (verso Dio per Gesù Cristo): solo quest’ultimo è determinante, mentre la posizione fisica è più relativa (cf risposta della competente Congregazione in Enchiridion Vaticanum 19/1300-1345).
3 Le convenienze e le inconvenienze dell’orientamento. Ammesso che con l’evoluzione storica l’oriente di fatto significa l’abside (EV 19/1303), alcune parti della celebrazione verso l’abside possono rivelarsi opportune o per l’assetto artisticamente intoccabile del luogo di culto, o per orientare la preghiera verso la gloria, verso un polo escatologico. Ciò però richiede di rispettare la natura della preghiera, per cui ciò che va benissimo per una colletta diventa problematico quando alla parola è associato il contesto di un convito, come nella preghiera eucaristica. Inoltre la teoricità della discussione non deve far dimenticare le absidi delle quali si dispone e dunque verso che cosa ci si rivolge. Nel migliore dei casi verso Gesù Cristo: ma la preghiera non è rivolta al Padre? E quando nelle absidi o nei punti di gloria c’è la Madonna o addirittura un santo? Si pregherà rivolti ad essi? Via... non diamo occasione al legittimo scatenarsi di una nuova riforma protestantel
4 Una via anglosassone e una via italiana? Nel libro le note sono 245 e le citazioni risultano ovviamente qualcuna in più. Ebbene, escludendo i documenti del magistero e i Padri, non si arriva a dieci citazioni italiane, comprese 4 o 5 di Ratzinger che per metà sono traduzioni dal tedesco. Conclusione: quella sollevata è una problematica anglosassone, suscitata forse da forti contrasti di pratica liturgica, ma che non appartiene alla pastorale e alla teologia
5 I molti vantaggi del sospetto. In un libro in traduzione italiana del 1999 edito dalla Lev, Paul De Clerck (L’intelligenza della liturgia) alle pp. 153-156 già auspicava che per alcune preghiere il presidente e gli altri si rivolgessero verso un polo escatologico o di gloria. La proposta era accettabile perché senza riferimenti aggiunti al sacro, al sacrificio e alla presenza reale, come invece avviene nell’odierno dibattito. E allora perché non sospettare quale teologia c’è dietro a tali proposte? Ma non solo quale teologia o quale Chiesa, ma anche quali simpatie politiche? Di più, quale psicologia e quale “affettività”? Questi “sospetti” non possono mai essere rivolti a chi in concreto sostiene una posizione, ma risultano utili e fecondi non per valutare le persone che parlano, ma per capire quale clima si crea agitando in un certo modo certe questioni.
(da Vita Pastorale, gennaio 2007)