Formazione Religiosa

Martedì, 13 Marzo 2007 01:05

Il Messale di Pio V è "superato": perché? (Rinaldo Falsini)

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Le nostre liturgie

Il Messale di Pio V è "superato": perché?

di Rinaldo Falsini

Recenti voci hanno rimesso sul tappeto la questione del Messale anteriore al Concilio. È stato però giustamente accantonato.

Dopo la discussione sull’altare, scegliamo come tema del dibattito attuale non il rito cosiddetto di Pio V (che non esiste, come ho scritto su Settimana 24, 2003, p. 2), ma il Messale di Pio V del 1570. E non tanto la sua abrogazione da parte di Paolo VI (cf Bugnini A., La riforma liturgica, Roma 1983, pp. 297-298) o la sua possibile legittimazione anche e nonostante l’indulto (Ecclesia Dei, 1988), ma il suo totale "superamento", quindi la sua inaccettabilità per la vita odierna della Chiesa.

Non ci appelliamo a interventi legislativi favorevoli o sfavorevoli, ma semplicemente alla sua realtà oggettiva, alla sua composizione «sul piano storico, teologico e liturgico». Non possiamo negare la sua rappresentatività dal 1570 al 1970 per l’intera Chiesa cattolica, ma oggi ci appare nell’impossibilità di rappresentarla per le sue gravi carenze.

Due sono i motivi principali che conducono a questa conclusione: il suo carattere di Messale "plenario" e il silenzio assoluto sulla partecipazione, se non sulla presenza, della comunità cristiana o assemblea del popolo di Dio

Il termine "Messale plenario" è usato dal secolo IX-XI per indicare il libro nel quale venivano raccolti tutti i testi e le letture (lezionario), delle preghiere (orazioni, prefazi, canone romano, ecc.) e canti (antifonario) ad uso "personale" del sacerdote. Si pensi a quei sacerdoti che dovevano spostarsi per varie ragioni, privi dei ministranti: appartenenti alla curia papale, i frati mendicanti, i monaci per la messa privata, ecc. Corrisponderebbe ai nostri messalini e tale rimane, anche se il formato è diverso, manifestando perciò una visione sfigurata della celebrazione, mortificando in particolare la liturgia della Parola.

Un lezionario, nella liturgia dei primi secoli, specie a Roma, era il libro associato per sua natura al sacramentario: proprio il sacramentario era il primo nome dell’attuale Messale. Si pensi che il lezionario richiedeva il lettore, il ministro più antico dopo il sacerdote, il luogo proprio, cioè l’ambone, e che l’evangeliario è il libro che viene baciato e deposto sull’altare. Quindi l’espressione "Messale completo" contiene un significato negativo e superato per la messa.

A questa esigenza ha risposto in abbondanza la riforma del Vaticano II con la pubblicazione nel 1969 dell’Ordo lectionum missae suddiviso in vari lezionari, di cui quello domenicale e festivo prevede tre letture (dall’Antico e dal Nuovo Testamento), per un triennio A-B-C. Si ottiene un bilancio imponente, un totale di circa 560-570 brani biblici rispetto a un totale di 150 pericopi del Messale di Pio V, che nelle domeniche è privo della lettura anticotestamentaria.

Anche il vuoto della presenza e della partecipazione dei fedeli è stato adeguatamente colmato, precisando sul piano teologico che soggetto celebrante di ogni azione liturgica, in primo luogo l’eucaristia, è l’assemblea che il sacerdote presiede e guida con la collaborazione diretta dei ministri (SC 26-29; 33). La versione in lingua volgare ha fatto percepire, tra l’altro, il "noi ecclesiale": «Noi tuoi ministri e tutta la tua famiglia»; «Noi tuoi ministri e il tuo popolo santo». Per notare la differenza, basti pensare all’inizio dell’Ordo missae. Il Messale di Pio V dice: «Il sacerdote preparato quando si avvicina all’altare, fatta la riverenza, si segna»; e il Messale di Paolo VI: «Quando il popolo si è radunato, il sacerdote con i ministri si reca all’altare, mentre si esegue il canto d’ingresso». La differenza è abissale, confermata poi dalle modalità di partecipazione dall’inizio al termine, dalla preghiera dei fedeli alla comunione al corpo e al sangue del Signore, ricevuta dopo quella del sacerdote dal medesimo sacrificio (cf SC 55).

Potremmo continuare con l’analisi del confronto estendendola soprattutto al rilevante nuovo repertorio eucologico, dalle orazioni classiche di ogni messa (con l’aggiunta di quelle dell’edizione italiana), ai prefazi e alla stessa anafora (da una a quattro), ma non possiamo dimenticare che il Messale di Pio V nella sua forma attuale – quella del 1962 che prevede l’intervento dell’assemblea nelle risposte al sacerdote – risale direttamente al concilio di Trento (1545-1563) in analogia con il Messale di Paolo VI che si richiama al concilio Vaticano II (1962-1965).

Ma, a differenza dell’attuale che si fonda sulla costituzione Sacrosanctum concilium (1963), il concilio di Trento non riuscì a portare a compimento il suo progetto di riforma, affidandone la revisione sotto la responsabilità del Papa a una commissione specifica che concluse il suo lavoro nel 1570, anno di promulgazione da parte di Pio V. Il Concilio nella sessione 22 del 1562 ebbe modo di esprimere il suo pensiero a proposito della lingua liturgica e, solo a causa della vivace polemica con i protestanti, scartò a malincuore la lingua volgare raccomandandosi caldamente a tutti i sacerdoti per una catechesi sui testi del Messale.

Con la bolla Quo primum (14.7.1570) Pio V riassumeva i criteri seguiti dalla commissione, quello in particolare di avere «restituito il libro all’antica norma dei santi Padri» e ordinava a tutta la Chiesa di seguire il testo autentico del nuovo Messale, eccetto quelle Chiese o ordini religiosi che possedevano un messale di almeno 200 anni. L’unità della liturgia sotto la guida della Chiesa di Roma, «madre e maestra di tutte le Chiese», diventava il principio che sarà perseguito e controllato, mediante la Congregazione dei riti del 1588, con fermezza fino ad oggi: una liturgia unitaria e centralizzata. Perciò in questo periodo storico non si registrano mutamenti di rilievo.

Invece il criterio della "norma dei santi Padri", per difficoltà avvenuta di ordine oggettivo, non arrivò oltre il secolo VIII. Ne sono la riprova il canone romano a voce bassa venuto nel secolo VII, l’altare spostato verso l’abside o a muro dal secolo VI, origine e sviluppo della messa privata dal secolo IX, ecc. Anzi ebbe come punto di riferimento l’unità liturgica instaurata da Gregorio VII (1073-1085) poiché da circa tre secoli la direzione era passata ai vescovi e alle autorità politiche francofone e germaniche.

La riforma di Pio V si basava principalmente sul Messale e relativo ordinario della messa che da tempo era in uso presso la Cappella papale. Questo tipo di messale, detto secundum consuetudinem romanae Curiae o romanae Ecclesiae, compare verso il secolo XIII e si diffonde grazie all’adozione da parte dei Frati minori. L’ordine francescano, fondato nel 1209 da san Francesco d’Assisi, nel capitolo generale tenuto a Bologna nel 1243 promulgò un Ordo per sacerdoti modellato su quello della Curia romana. I due messali si incontrano e l’editio princeps stampata a Milano nel 1474 porta il titolo della Curia e dei Frati minori: confrontata con quella ufficiale di Pio V mostra poche differenze.

Dopo Pio V le modifiche sono di piccola entità e riguardano soprattutto i santi canonizzati. Ci dispensiamo da ulteriori rilievi, salvo quello del calendario, legato strettamente alla Chiesa di Roma città, di cui sono testimonianza le "stazioni" alle singole chiese di Roma, soppresse ovviamente nel messale di Paolo VI, che ha allargato la visione ecclesiale universale, compreso il dialogo ecumenico.

Al termine di questa fugace rassegna storica e di confronto fra il Messale di Pio V e il Messale di Paolo VI, siamo in grado di rispondere a quanti hanno apertamente criticato l’accantonamento del primo con la promulgazione del secondo il 3.4.1969 mediante la costituzione apostolica Missale romanum.

L’accusa dice che il divieto dell’uso del Messale di Pio V «che si era sviluppato nel corso dei secoli fino dal tempo dei sacramentari sulla liturgia, ha comportato una rottura della storia della liturgia» (VP 6/1997, p. 10). L’accusa è manifestamente gratuita, poiché l’unità oggettiva rappresentata dal Messale di Pio V non è stata infranta anzi completata con l’aggancio alla "norma dei santi Padri", soprattutto completata e arricchita in risposta alle esigenze della vita attuale della Chiesa.

Il nuovo Messale rappresenta il culmine evolutivo; non è la sconfessione del passato, ma il suo superamento. Il salto di qualità è nettissimo: arricchimento su tutti gli aspetti qualitativi e quantitativi, teologici, liturgici, pastorali e spirituali. Il divieto dell’uso del Messale di Pio V è un richiamo a tutti i fedeli perché si nutrano e si abbeverino all’unica mensa imbandita dal concilio Vaticano II per diventare un solo corpo in Cristo

(da Vita Pastorale, 2 2007)

Letto 3261 volte Ultima modifica il Martedì, 29 Maggio 2007 18:11
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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