Appunti sull'ecclesiologia del Vaticano II
di Erio Castellucci
Dire «ecclesiologia del Vaticano II» è dire, semplicemente «Vaticano II»: come è noto, infatti, l'ultimo concilio ecumenico ha scelto un unico grande tema di fondo, sul quale ha modulato tutte le sue note: la Chiesa. Ma trattare della Chiesa non ha voluto dire, per i padri e i periti conciliari, fermarsi a un'autocontemplazione compiaciuta, bensì individuare le sorgenti della sua vita e attività, precisarne modalità, relazioni, fini.
Le quattro Costituzioni conciliari costituiscono i grandi punti cardinali che orientano il cammino della Chiesa: la Sacrosantum concilium ne approfondisce la dimensione liturgica ed eucaristica; la Dei Verbum mette in rilievo la centralità della Parola di Dio (Scrittura e Tradizione); e la Gaudium et spes articola il rapporto con il mondo nelle svariate e complesse dinamiche in esso implicate, all'insegna dell'unico grande criterio della condivisione e della carità. Queste tre costituzioni articolano così i tre grandi pilastri sui quali l'edificio ecclesiali si regge e cresce: la Liturgia, la Parola e la Carità.
La Lumen gentium, in questo quadro, emerge come la «magna charta» del Vaticano Il, e in quanto tale ne raccoglie ed esprime tutti gli elementi ecclesiologici essenziali. Se in essa convergono logicamente le altre tre costituzioni conciliari, da essa si diramano i decreti e le dichiarazioni: i decreti Unitatis redintegratio sull'ecumenismo e Orientalium Ecclesiarum sulle Chiese orientali cattoliche sono quasi l'espansione di LG 15, così come la dichiarazione Nostra aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane lo è di LG 16; il decreto Ad gentes sull'attività missionaria della Chiesa riprende e approfondisce il tema già abbozzato in LG 17; il decreto Christus Dominus sull'ufficio pastorale dei vescovi articola e traduce gran parte del terzo capitolo di LG (18-27); i decreti Presbyterorum ordinis sul ministero e la vita dei presbiteri e Optatam totius sulla formazione sacerdotale approfondiscono la teologia e spiritualità dei presbiteri, anche in chiave formativa, concentrata in LG 28; il decreto Apostolicam actuositatem sull'apostolato dei laici è quasi una traduzione operativa del quarto capitolo di LG (30-38), così come il decreto Perfectae caritatis sul rinnovamento della vita religiosa del sesto (43-47). I tre documenti non compresi in questa ramificazione mettono in luce altri aspetti della vita ecclesiale non direttamente tematizzati da LG: l'importanza dei mezzi di comunicazione sociale per l'annuncio del Vangelo (decreto Inter mirifica), la natura e gli scopi dell'educazione cristiana nel mondo attuale (dichiarazione Gravissimum educationis) e la libertà religiosa in rapporto alla missione ecclesiale (dichiarazione Dignitatis humanae).
La molteplicità e complessità dei documenti rende impensabile offrire un quadro anche solo approssimativo dell'ecclesiologia del Vaticano II in poche pagine. Indichiamo piuttosto alcune idee-guida di LG - quasi degli slogan brevemente commentati - di cui oggi appare particolarmente urgente il recupero: anche perché in buona parte disattesi. Data l'indole del presente contributo e lo spazio a disposizione non riportiamo indicazioni bibliografiche, con l'eccezione dell'ultimo «manuale» di ecclesiologia in lingua italiana, dove si potrà reperire una bibliografia pressoché completa in merito al nostro argomento. (1)
1. La Chiesa non è semplicemente società e Corpo mistico di Cristo, ma anche e primariamente sacramento e mistero trinitario. Nel primo capitolo di LG (1-8) sono poste le basi teologiche per l'inserimento della Chiesa nella storia salvifica, cioè per una ecclesiologia misterica.
La cosiddetta concezione «societaria» e visibilista di Chiesa, accentuata dalla reazione dei controriformisti nei confronti dell'«invisibilismo» protestante e arricchita nell'Ottocento dal motivo della «societas perfecta, inaegualis, hierarchica», in polemica contro le ingerenze degli stati verso la Chiesa, venne ridimensionata e fu integrata già dalla Mystici Corporis di Pio XII (1943) nella concezione teologicamente più profonda della Chiesa come «corpo mistico di Cristo», dove ritornava in primo piano la presenza attuale e vivificante del Signore nella Chiesa. Il Vaticano II operò, a sua volta, un altro ridimensionamento e un'ulteriore integrazione, estendendo le radici teologiche della Chiesa all'intera storia della salvezza. La Chiesa, per il concilio, non è solo una società (cf. quanto resta di questa ecclesiologia, riveduta e corretta, soprattutto in LG 8, 9 e 14) e neppure semplicemente il corpo mistico di Cristo (cf. l'assunzione di questa immagine in LG 7): è, più ampiamente, opera trinitaria (cf. LG 2-4).
Da questo squarcio di orizzonti derivano alcune importanti implicazioni. Il Vaticano Il, prima di tutto, ha evitato di legare a tal punto l'origine della Chiesa alla volontà esplicita di Gesù prima della Pasqua, da farne un elemento decisivo di legittimazione ecclesiale. Nell'impostazione precedente diventava irrinunciabile la dimostrazione della «storicità» di certe parole di Gesù in ordine alla Chiesa (che sostanzialmente si concentravano nel brano di Mt 16,16-19), per difenderne l'istituzione divina. Il concilio, conoscendo la questione e le innumerevoli dispute svoltesi in merito dall'inizio del XX secolo, nell'aggancio cristologico di LG 3 da una parte si attiene ai dati più sicuri della critica storica («Cristo, per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il regno dei cieli e ce ne ha rivelato il mistero») e dall'altra presenta chiaramente il mistero pasquale come punto d'innesto «pieno» della Chiesa nel mistero di Cristo: l'inizio e la crescita della Chiesa «sono simboleggiati dal sangue e dall'acqua che uscirono dal costato aperto di Gesù crocifisso»...
Ma LG non si ferma a questo primo allargamento di orizzonti e ne opera, come accennato, un secondo: la Chiesa affonda le sue radici non sul solo mistero cristologico bensì sull'intero mistero trinitario. La storia teologica della Chiesa, come illustra LG 2, inizia, infatti, nell'atto stesso della creazione dell'universo, continua nella volontà di Dio di radunare gli uomini non singolarmente ma come popolo e nell'elezione di Israele. Questa medesima storia, poi, procede dopo la Pasqua: LG 4, intarsio di citazioni bibliche, ricorda gli innumerevoli risvolti dell'azione dello Spirito nella vita della Chiesa. Il tutto si può riassumere con le affermazioni che la Chiesa «già prefigurata sino dal principio del mondo, mirabilmente preparata nella storia del popolo d'Israele e nell'antica alleanza e istituita “negli ultimi tempi", è stata manifestata dall'effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei secoli» (LG 2); essa è, come afferma Cipriano, «un popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (cit. in LG 4).
La coestensione della Chiesa alla storia salvifica si può esprimere con i concetti di mistero (cf. il titolo dell'intero primo capitolo di LG) e sacramento (cf. LG 1). Il primo concetto fa risaltare le dimensioni inimmaginabili della Chiesa, che non è semplice aggregazione umana ma opera trinitaria; il secondo concetto mette in rilievo la compresenza e coessenzialità nella Chiesa di umano e divino (cf. LG 8), trascendente e storico: per cui la Chiesa conciliare non è né un'entità spirituale che sorvola la storia né, inversamente, una società umana tra le altre. Dal rinnovamento conciliare delle radici teologiche della Chiesa discende dunque la necessità di una vera e propria «conversione» dai modi più superficiali (diffusi purtroppo anche tra gli stessi cristiani praticanti) di intenderne la vita e la missione.
2. La Chiesa non è formata solo dal sacerdozio ministeriale e gerarchico, ma anche e fondamentalmente dal sacerdozio battesimale di tutto il popolo di Dio.
Il Vaticano II, specialmente nel capitolo secondo di LG (9-17), pone le basi teologiche per una ecclesiologia comunionale e, all'interno di essa, per una riflessione rinnovata sulla teologia del ministero ordinato e del laicato. La riduzione «gerarcologica» dell'ecclesiologia - secondo l'efficace espressione di Y. Congar - che giunge alle soglie del Vaticano Il e bussa alla sua porta, viene radicalmente corretta ed integrata dal concilio.
La concentrazione dell'idea di «Chiesa» nel clero, e più ancora nell'episcopato, quando non addirittura nel solo papato, venne a poco a poco allentata dai testi conciliari attraverso il recupero della nozione di «popolo di Dio» come descrizione globale e più adeguata della Chiesa. Si può dire che il popolo di Dio è il soggetto storico e umano della Chiesa, mentre la Trinità ne è il soggetto misterico e divino.
La famosissima inversione dei capitoli secondo e terzo di LG per cui ora risulta che la trattazione sul popolo di Dio precede quella sulla gerarchia - è fortemente simbolica dell'enorme balzo compiuto dal Vaticano II. La realtà ecclesiale di base è quella battesimale-cresimale-eucaristica, che comprende tutti i membri del popolo di Dio; questa realtà poi si specifica di diverse direzioni, ruoli e compiti, alcuni legati alla natura della Chiesa e altri solo a certi momenti della sua storia. Il ministero ordinato, dentro al popolo di Dio - non sopra né accanto - svolge la funzione di richiamare efficacemente l'origine continua della grazia, Cristo risorto nello Spirito, che continua a donarsi attraverso la Parola, i Sacramenti e la Carità. La connotazione «battesimale» dell'ecclesiologia conciliare ha permesso quindi di collocarvi il sacerdozio ordinato nella sua luce più adeguata, che è quella «ministeriale». Si apre così lo spazio per un'effettiva missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, in quanto essi sono a pieno titolo - in virtù del battesimo e della fede - componenti del popolo di Dio e quindi «soggetti» ecclesiali: e come tali collaboratori e corresponsabili e non semplici esecutori.
Anche questo secondo aspetto è lungi dall'essere assorbito nella coscienza teorica e pratica dei cristiani. Per quanto sia sempre più frequente l'affermazione che la Chiesa è composta da «tutti noi», perdura la convinzione che «la» Chiesa è in realtà concentrata sulla gerarchia. Sono ancora poco sviluppati - o maldestramente percorsi - i sentieri riaperti dal Vaticano II con la dottrina del «sacerdozio comune», del «senso di fede» e della dimensione carismatica di tutto il popolo di Dio (cf. LG 10-12).
3. La missione della Chiesa non è una fase episodica e passeggera della sua vita e attività, ma la sua stessa natura. È la base teologica per un'ecclesiologia missionaria che superi le riduzioni ereditate nel corso degli ultimi secoli.
Una riduzione, prima di tutto, orizzontale: il discorso sulla missione non veniva condotto avanti teologicamente per l'intera Chiesa, ma solo per alcuni suoi membri, sia nel campo extraecclesiale che in quello intraecclesiale. In campo extraecclesiale veniva chiamata missione solo l'opera che alcuni uomini conducevano nel mondo non ancora evangelizzato: in tal modo si era creata la mentalità della delega, per la quale la missione era demandata ad alcuni, detti appunto «missionari». In campo intraecclesiale la missione veniva riservata ai preti e ai vescovi. Se intesa, infatti, in senso ampio, essa indicava l'azione salvifica della Chiesa: questa azione salvifica, però, era ricondotta all'attività sacramentale dei sacerdoti nei confronti dei fedeli, così che i primi erano considerati i soggetti e i secondi i destinatari della missione, mentre il rapporto dei laici con le realtà temporali non era ancora considerato parte dell'attività salvifica vera e propria della Chiesa. Se intesa invece in senso stretto, la missione indicava l'abilitazione giuridica che veniva data al sacerdote per esercitare il suo potere di ordine nella comunione ecclesiale (missio canonica racchiusa all'interno della potestas iurisdictionis).
La seconda riduzione - pastoralmente conseguente ma teologicamente precedente la prima - si può definire verticale: non si parla, se non sporadicamente, di Chiesa per natura missionaria fino al Vaticano II. Il concilio ha posto invece la dimensione missionaria al centro stesso della sua ecclesiologia, facendo della missione non più un tema occasionale e periferico, ma una dimensione irrinunciabile dell'ecclesiologia: la Chiesa è essenzialmente missionaria; la missione è la sua stessa natura e non esiste per altro se non per portare Cristo al mondo. Mentre fino al nostro secolo si tendeva a dire che la missione è solo un momento della Chiesa - momento che avrà fine quando tutto il mondo sarà cristiano - il concilio, accogliendo stimoli dalla teologia precedente, ha precisato che la missione non cesserà mai, perché appartiene alla natura della Chiesa. Prima del concilio si trascurava la radice teologica della missione, che è l'opera trinitaria: è la missione del Figlio da parte del Padre e la missione dello Spirito da parte del Padre e del Figlio a costituire la Chiesa. Proprio in forza della missione trinitaria la Chiesa - tutta la Chiesa - è proiettata fuori di sé, verso il mondo. E la grande inquadratura di LG 2-4 e AU 2-4, che culmina nella seguente affermazione riassuntiva: «La Chiesa peregrinante per sua natura è missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre» (AU2).
La missionarietà come dato essenziale, perché impronta trinitaria e connotazione comune dei battezzati, non sembra ancora caratterizzare le comunità cristiane. Da più parti, anche molto autorevoli, si lamenta ancora, almeno nella Chiesa italiana, un'eccessiva cura verso la conservazione dell'esistente (strutture, tradizioni e usi...) e una scarsa audacia missionaria. Sia Novo millennio ineunte di Giovanni Paolo II che Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia della CEI, invitano ad adottare decisamente il paradigma della missione: segno che ancora la coscienza e la prassi ecclesiale sono lontane dall'averlo fatto.
4. La Chiesa non è solo l'universalità del popolo di Dio, ma anche e inseparabilmente la comunità locale dei fedeli raccolti attorno al vescovo. È la base per una teologia della Chiesa locale che riconosca spessore alla diocesi e, subordinatamente, alla parrocchia. Il testo che fece da «pioniere» si trova, notoriamente, in SC 41: «La principale manifestazione della Chiesa si ha nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il vescovo, circondato dal suo presbiterio e dai ministri». Più volte definito «svolta copernicana», questo testo accoglie in casa cattolica l'ecclesiologia eucaristica ignaziano-orientale, considerando la Chiesa come realtà sacramentale prima che come realtà societaria. In quest'ottica, dunque, la «più alta manifestazione della Chiesa» non consisterà nell'esercizio del potere primaziale ai massimi livelli (era questa l'accentuazione del Vaticano I), bensì nella compresenza della celebrazione eucaristica, del popolo di Dio che partecipa attivamente e pienamente, e del ministero nei suoi vari gradi, compresa la pienezza episcopale.
La prospettiva è ripresa in LG 26, dove si legge tra l'altro che nelle comunità eucaristiche locali, «sebbene spesso piccole e povere o che vivono nella dispersione, è presente Cristo, per virtù del quale si raccoglie la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica». Ma è soprattutto LG 23 che, nel contesto della trattazione sulla collegialità episcopale, presenta le affermazioni più rilevanti sulla Chiesa locale: parla infatti delle «Chiese particolari, formate a immagine della Chiesa universale, nelle quali e a partire dalle quali esiste la sola e unica Chiesa cattolica». Il rapporto Chiesa particolare/Chiesa universale non è di somma o sottrazione. Il testo citato delinea piuttosto tale rapporto in due direzioni: dalla Chiesa universale alla Chiesa particolare è di immanenza: «tutta» la Chiesa è presente «nelle» Chiese particolari, le quali sono «immagine» della Cattolica; dalla Chiesa particolare alla Chiesa universale è di origine: «tutte» le Chiese conducono a formare la Chiesa universale, poiché è «a partire dalle» singole Chiese particolari che si forma concretamente la Cattolica.
Una Chiesa particolare/locale non è dunque semplicemente una parte di Chiesa, ma è tutta la Chiesa presente in quel luogo, perché in essa è presente tutto il mistero di Cristo e non solo una sua parte. Con l'aiuto di CD 11, non è difficile individuare gli elementi costitutivi della Chiesa particolare: il Vangelo, l'Eucaristia, il vescovo, l'azione dello Spirito Santo. E quindi presente l'intero mistero di Cristo nella Parola di Dio, che risuona integralmente in ogni Chiesa locale; nei sacramenti, specialmente nel ministero pastorale del vescovo, guida di ogni Chiesa locale, e in sommo grado nell'Eucaristia, celebrata in ogni Chiesa locale; è presente l'intero mistero di Cristo, infine, nello Spirito di carità che si irradia in ogni Chiesa locale, con doni, carismi e ministeri diversi. L'unità della Chiesa, così, deriva dalla presenza integrale dell'unico mistero di Cristo in ogni comunità eucaristica presieduta dal vescovo.
Il Vaticano II, pur senza approfondirla, ha così offerto gli spunti per una vera e propria «teologia della Chiesa particolare/locale». È chiaro che non si tratta di contrapporre la dimensione locale a quella universale della Chiesa:
ogni singola comunità presieduta dal vescovo è davvero «Chiesa» solo se si trova in comunione con tutte le altre Chiese nel mondo; comunione espressa e garantita dalla Chiesa di Roma. Non è più in virtù di un principio solamente giuridico che emerge la necessità della comunione con la sede di Pietro, ma in virtù di un principio anzitutto teologico: non esiste «Chiesa» se non nella comunione universale. Sembra però che oggi, anche da settori autorevoli del cattolicesimo, si ricada ogni tanto e di nuovo in quel modello di assorbimento del locale da parte dell'universale che il Vaticano II in linea di principio aveva superato, mostrando la reciprocità dei due aspetti. E sempre in agguato la tentazione «centralistica», che trascura la ricchezza teologica, spirituale e pastorale delle singole Chiese. E prevedibile che il lavoro di riequilibrio fra unità e molteplicità in questa chiave ecclesiologica continuerà ancora a lungo.
5. La «Chiesa di Cristo» non è semplicemente identica alla «Chiesa cattolica», ma «sussiste in» essa. Esiste quindi un'appartenenza non piena ma reale alla Chiesa. È la base teologica per un rinnovato ecumenismo, che apprezzi gli elementi ecclesiali presenti anche nelle altre comunità cristiane. LG 8 rappresenta un vero e proprio «progresso» in campo ecumenico, laddove afferma: «Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come una società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo visibile si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l'unità cattolica». Ecclesia Christi subsistit in Ecclesia catholica: l'adozione dell'espressione «subsistit in», anziché del precedente «est», consente di superare quella stretta identificazione fra Corpo mistico e Chiesa cattolica che si trovava ancora nella Mystici Corporis di Pio XII. L'espressione «subsistit in» fu intenzionalmente sostituita a «est», proprio per superare l'identificazione pura e semplice e permettere il riconoscimento delle caratteristiche ecclesiali di altre comunità cristiane, salva restando la persistenza indefettibile dell'unica Chiesa di Cristo nella Chiesa cattolica (cf. UR 4). Allo stesso scopo tende, in maniera più esplicita, l'ulteriore precisazione che parecchi elementi di santificazione e di verità, pur trovandosi fuori della Chiesa cattolica visibile, sono doni propri della Chiesa di Cristo, e quindi spingono verso l'unità cattolica.
Un'altra importante e famosissima affermazione ecumenica si trova in LG 14: «Sono pienamente incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo spirito di Cristo, accettano integra la sua struttura e tutti i mezzi di salvezza in essi istituiti»... L'attuale plene sostituisce il reapse della Mystici Corporis, aprendo quindi lo spazio a forme di appartenenza reali ma incomplete, quali quella dei fratelli di altre confessioni cristiane. Questi principi verranno ripresi e applicati in LG 15 e in UR.
La mancata identificazione pura e semplice tra «Chiesa di Cristo» e «Chiesa cattolica» e l'ammissione di un'appartenenza «non piena» ma reale alla Chiesa, unite al principio della «gerarchia delle verità» formulato in UR 11 («esiste un ordine o "gerarchia" nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana»), hanno favorito grandi passi nel cammino ecumenico: ne sono testimonianza, tra l'altro, l'enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II (1995) e la Dichiarazione congiunta sulla giustificazione firmata da cattolici e luterani nel 1999 ad Asburgo; testi il cui contenuto sarebbe stato del tutto impensabile senza queste grandi aperture del Vaticano II. La sfida, in questo settore, è soprattutto di carattere «esperienziale»: le comunità cattoliche, provocate dalla presenza e dalla testimonianza di fratelli di altre confessioni cristiane, sono invitate a dialogare e testimoniare a loro volta la fede cattolica; nella persuasione reciproca - quanto diffusa? - che il dialogo non è automaticamente perdita di identità (solo chi non è sereno e persuaso della propria identità ha paura di dialogare) ma stimolo a recuperare l'essenziale e distinguerlo da ciò che è secondario.
6. La Chiesa non è identica al Regno, ma ne è il germe e l'inizio (cf. LG 3 e 5): è la base teologica per il riconoscimento di semi del Verbo ed elementi di verità e salvezza anche fuori dei confini della Chiesa visibile, cioè per una nuova impostazione del tema interreligioso (cristianesimo e altre grandi religioni) e interculturale (Chiesa e mondo).
Il testo basilare per il rapporto interreligioso è LG 16 dove, riferendosi a coloro che non hanno ancora ricevuto il Vangelo, si afferma: «Tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro, è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione al Vangelo, e come dato da colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita». Anche LG 17 valuta positivamente l'ambito non-cristiano: questa volta, però, non solo dal punto di vista delle singole persone ma anche da quello, più impegnativo, delle religioni e delle culture in quanto tali: «con la sua attività, essa (=la Chiesa) fa in modo che ogni germe di bene (quidquid boni... seminatum) che si trova nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti e nelle culture proprie dei popoli, non solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e perfezionato». NA 2, poi, afferma: «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio (radium) di quella Verità che illumina tutti gli uomini».
Vi sono altri riferimenti che andrebbero menzionati (in AU 3, 9, lì e 18; in US 22 e 92, ecc.): ma già questi sono sufficienti a rilevare come il Vaticano II abbia impostato una valutazione delle altre religioni non più in chiave di sospetto o rifiuto, bensì di accoglienza, discernimento e valorizzazione. Il concilio ragiona prevalentemente in termini cristologici, ispirandosi soprattutto alla teologia dei semina Verbi di Giustino: il mistero di Cristo, presente pienamente nella Chiesa, è pure presente - a diversi livelli - nelle altre tradizioni religiose. Giovanni Paolo II, nell'enciclica Redemptoris missio (1990) riprenderà la prospettiva anche in chiave pneumatologica, invitando a valorizzare gli elementi che lo Spirito suscita anche nelle altre religioni (cf. specialmente 28-29). Il concilio non ha precisato i modi di questa presenza né ha esplicitamente trattato il problema del valore salvifico delle religioni non cristiane: si è limitato - e non è comunque poco - a tracciare il solco per la riflessione teologica successiva.
Analogo è il discorso sul rapporto interculturale, almeno per ciò che attiene ai principi di fondo. Il testo-base è in questo campo senza dubbio il capitolo secondo della parte seconda di US: «La promozione del progresso della cultura» (53-62); qui sono elèncati prima di tutto rischi e opportunità che il mondo odierno presenta all'annuncio del Vangelo, così che i «fatti deplorevoli non scaturiscono necessariamente dall'odierna cultura, né devono indurci nella tentazione di non riconoscere i suoi valori positivi», i quali vengono addirittura indicati come una praeparatio evangelica (cf. 57). In questo contesto complesso, afferma US 58, la Chiesa da una parte evita di legarsi in modo esclusivo e indissolubile a una qualche cultura, ma dall'altra è in grado di entrare in comunione con le più differenti forme; ed è una comunione che arricchisce sia la Chiesa che le culture: il Vaticano lì adotta così uno schema bi-direzionale (si trovava già in US 40 e 44), che permette di fondare un vero e proprio «dialogo» con le culture, cioè un reciproco dare-avere. Il dialogo nulla toglie alla missione, se è vero che - come continua lo stesso paragrafo il vangelo di Cristo rinnova continuamente la vita e la cultura dell'uomo decaduto, combatte e rimuove gli errori e i mali derivanti dal peccato, purifica ed eleva la moralità dei popoli, feconda dall'interno, fortifica, completa e restaura in Cristo le qualità dello spirito e le doti di ciascun popolo.
Chi vuole restare fedele all'impostazione del Vaticano II - una tensione dei germi veri e santi, presenti dovunque in differente misura, verso il loro compimento nel mistero di Cristo - imposta un rapporto con le altre religioni, le altre culture e i loro appartenenti in termini di dialogo e annuncio insieme: non solo dialogo, che si risolverebbe in esercizio di pluralismo relativistico; né solo annuncio, che rischierebbe di portare a un neo-colonialismo missionario; dialogo e annuncio si implicano e richiedono a vicenda, e l'equilibrio tra i due sembra ancora piuttosto lontano dalla portata delle nostre comunità cristiane e di tanti singoli battezzati, che sembrano oscillare continuamente tra le due forme estreme e più facili del relativismo e dell'integralismo.
«Appunti» si intitolano queste pagine: il paziente lettore constata a questo punto che non si tratta di umiltà fuori posto, ma di una realtà innegabile: il Vaticano II è talmente ricco, complesso e... in buona parte inattuato, che solo una lunga consuetudine personale con i suoi testi e un'altrettanto lunga serie di esperienze pastorali potranno veramente «recepirlo».
1) S. DIANICH - S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, Queriniana Brescia 2002.