Ogni cultura è relativa
Rinvio al mio contributo a un precedente forum di questa rivista (1) per il concetto di globalizzazione e per la sua rilevanza evangelica. Richiamo solo tre punti: 1) In astratto, la globalizzazione deve rispondere al disegno divino di una "famiglia umana" intesa come un’unica polis dominata dalla logica della solidarietà e del servizio reciproco. È preciso compito della Chiesa - compito inerente all'idea stessa di salvezza in Cristo - indirizzare e sostenere l'umanità nel cammino verso tale traguardo. 2) Oggi, la famiglia umana sussiste contemporaneamente in aree culturalmente molto diverse e in alcune strutture essenziali di convivenza (specialmente economico-finanziaria e mediale) che di fatto sono uniche per tutta l'umanità. 3) Oggi, si ha consapevolezza di gravissimi problemi che incombono su tutta la specie umana (problema ecologico, problema della fame nel mondo, problemi sanitari e biotecnologici), e che non possono essere affrontati - per non parlare di risolti - se non da un impegno comune di tutta la famiglia umana, al di sopra di ogni sovranità statuale o di ogni differenza culturale.
In queste condizioni, il problema etico-filosofico è gravissimo. Incombe realmente il rischio di un relativismo culturale che induce inevitabilmente a un relativismo etico: ma l'uso e l'abuso del termine "relativismo" - sia per affermarlo sia per condannarlo - sono da considerarsi altamente sospetti. Su questo cercherò di tornare in seguito. Ed è anche gravissimo il problema teologico di un annuncio morale che deve valere ed esser portato a tutte le genti. Occorre, in ogni caso, riflettere su che cosa si intenda per cultura: molte difficoltà (comprese quelle del cosiddetto Progetto Culturale della Chiesa italiana) derivano da scarsa dimestichezza con questo termine.
Ogni essere umano nasce e si sviluppa sotto due condizionamenti: uno genetico e uno ambientale (dall'ambiente fisico e umano). Ambedue operano prima che l'individuo sia in grado di rendersene conto, e restano memorizzati. Spesso sono interagenti: un condizionamento genetico può essere una predisposizione che può realizzarsi solo in un certo ambiente. A noi interessa il condizionamento derivante dall'ambiente umano. Linguaggio, vita di relazione in genere e familiare in specie, modo di alimentarsi e di abitare, comprensione della sessualità, processi mentali e argomentazioni convincenti, rapporto con la natura costituiscono modelli che vengono acquisiti acriticamente (passivamente) e restano in memoria come gli unici capaci di definire una vita buona. Questa somma di elementi cognitivi, operativi, valutativi costituisce la normalità - la cultura - con cui il singolo si affaccerà gradualmente a un'esistenza cosciente e responsabile. Si possono definire empiricamente alcune grandi aree culturali con palesi modelli (e strutture materiali, ma qui si aprirebbe un altro discorso) comuni: all'interno di una cultura si possono differenziare aree subculturali, nate da motivi diversi (storici, geografici ecc.). Ovviamente, al primo impatto con gli altri, ogni individuo considera gli individui di altre culture come esseri strani o stupidi o malvagi. Due elementi, però, debbono essere tenuti presenti.
Il primo elemento è la capacità critica di ogni essere umano nei confronti della propria cultura: partendo dagli stessi modelli, ognuno è, però, unico e irripetibile, e porta sempre elementi di variazione nella propria cultura. Basta pensare alla trasmissione orale, in cui ciascun raccontatore introduce qualche sia pur minimo elemento originale, e lo stesso deve dirsi di ogni tradizione cultuale. Ogni cultura è soggetta a variazioni endogene.
Il secondo elemento è l'incontro fra culture. Questo incontro vi è sempre stato, sia fra culture tribali, sia - man mano nel tempo - fra più larghe aree. Anche quando, assai spesso, l'incontro è stato piuttosto uno scontro, esso lascia sempre il segno (tutte le parole ispano-portoghesi-brasiliane che iniziano per "al" sono un lascito della cultura araba). Così, ogni cultura è soggetta anche a variazioni esogene.
Oggi, con la sconfinata e sempre crescente capacità di mobilità di persone e di idee, questo secondo elemento sembra dominante. Nessuna cultura è statica, e ogni variazione deve essere interpretata come critica rispetto al dato ricevuto: se una cultura esiste e si trasmette, vuol dire che funziona, cioè risponde alle esigenze essenziali del gruppo. Ma se ogni cultura è soggetta a variazioni, vuol dire che non funziona mai abbastanza: sia dall'interno che dall'esterno si presentano sempre nuove spinte che vengono gradualmente accolte all'interno dei quadri culturali esistenti. L'animo umano - la mente, ma anche la sensibilità e la sua espressione estetica - è sempre in ricerca: una ricerca che, consapevolmente o no, è in fondo la ricerca di se stesso, della verità. Nessuna cultura offre "la verità", ma ogni cultura offre un approccio diverso (e quindi nuove possibilità) al cammino asintotico della famiglia umana verso la verità. Si legga con attenzione la prima parte di Gaudium et spes n. 44.
Se i problemi posti dalla pluralità di culture vengono visti in questa luce, la prima conseguenza è che ogni cultura, compresa la nostra, deve essere relativizzata: non esiste la cultura assoluta. Il preteso relativismo culturale ha senso solo se si pensa ogni cultura come chiusa in se stessa, definitiva e immutabile dettatrice di pensiero, comportamento, criterio valutativo. Il che non è. Una chiusura culturale si ha occasionalmente solo quando un'area culturale è oppressa con l'imposizione di modelli ad essa estranei e cerca di difendersi chiudendosi a riccio, oppure - inversamente - quando un'area politica culturalmente omogenea vuole dominare altre aree e cerca nella pretesa propria assolutezza il paravento morale per un'operazione di potere: "io ti domino per farti del bene". Questo mi fu inculcato quando ero bambino al tempo della conquista dell'Abissinia. Nè da questa mentalità è stato immune il campo delle missioni cattoliche.
L'universalità dell'annuncio morale cristiano
L'annuncio morale cristiano si presenta come universale, e non potrebbe fare altrimenti, essendo l'espressione umana di una Revelata Veritas. Proprio per questo non può e non deve identificarsi con alcuna cultura. Questa doppia caratteristica di universalità e di non-identificazione è tipica della religione cristiana, ed è oggi - io ritengo - la grande chance e la sfida che la storia (sempre storia di Dio) offre alla Chiesa (alle Chiese). Qui nascono gravi problemi per l'etica cristiana. Io credo che il nodo essenziale dei problemi - ciò che rende difficile accettare questa sfida - sia l'idea di tradizione in materia morale. L'etica cristiana, e cattolica in specie, è per lunga tradizione un'etica normativa altamente organizzata e finemente precettizzata. Sia Nostro Signore, in Mt 19,1-22, sia S. Paolo, in Rm 13,8-10, citano invece i dieci comandamenti in maniera incompleta e approssimativa, ma li citano per mostrare, al di sopra di essi, la legge suprema della carità. La vera vita morale per il cristiano non consiste primariamente nell'osservanza di una serie definita di precetti (doveroso, lecito, illecito) ma consiste nella fatica di discernere come meglio, in ogni nostra scelta concreta, possiamo esprimere la carità e la misericordia di Dio (si ricordi Rm 12,1-2 e Fil 1,9-11).
Per varie cause, che qui è impossibile analizzare, sorsero ben presto sistemi di precetti, variamente organizzati, sistemi necessari per offrire un codice morale a un'Europa che stava diventando quasi totalmente cristiana, e quindi a una vasta massa di persone scarsamente o per nulla indottrinate nella fede e bisognose di una guida. I precetti sono in qualche modo non sempre perspicuo derivati dai dieci comandamenti o da elenchi di virtù e vizi ad esse opposti, ma sono sempre elaborazione umana legata a schemi mentali e correnti filosofiche proprie dell'area culturale dell'Occidente. Già Paolo nei vari elenchi di vizi (i Lastenkataloge) non usa lo schema biblico dei comandamenti, ma elenchi di matrice filosofica post-aristotelica (2). Occorre qui ricordare che la maggior parte dei precetti particolari vengono fondati sull'idea di legge naturale: sulla natura letta come manifestazione della volontà di Dio Creatore per il creato. Il che è importantissimo anche oggi. Solo che oggi la conoscenza della natura (cioè del creato sussistente nello spazio-tempo) non è quella di Aristotele o di Tommaso, e l'idea stessa di una conoscenza della natura capace di certezze immutabili è definitivamente tramontata.
Deve anche aggiungersi che la rappresentazione e l'organizzazione della molteplicità di dati sensibili (cioè della natura) varia da cultura a cultura. Quando si parla di tradizione in materia di precetti morali particolari si parla, nella maggioranza dei casi, di una tradizione umana e culturalmente condizionata: non si parla perciò di trasmissione del depositum fidei (3). Annunciare il Vangelo a tutte le culture non può voler dire contrabbandare come volontà di Dio ciò che invece è tradizione umana culturalmente condizionata, se pur nobilissima. L'annuncio della Parola troverà la sua realizzazione umana nelle forme proprie di ciascuna cultura: "Ipsa enim (cioè la Chiesa) inde ab initio suae historiae, nuntium Christi ope conceptuum et linguarum diversorum populorum exprimere didicit, eumdem sapientia insuper pbilosophorum illustrare conata est... Ita enim in omni natione facultas nuntium Christi suo modo exprimendi excitatur simulque vivum commercium inter Ecclesiam et diversas populorum culturas promovetur" (GS n. 44). Non si vede perché questo fondamentale insegnamento di un Concilio ecumenico non debba valere anche in materia morale.
L'universalità dei precetti particolari?
Un punto importante - ovvio ma non sempre preso in considerazione - è che la riflessione e l'esperienza morale sono sempre state presenti nella specie umana. Tutte le fatiche (quelle oneste) della filosofia, delle scienze, della creatività artistica, in ciascun contesto culturale, sono in fondo l'unica vera fatica dell'uomo di comprendere ed esprimere se stesso. L'annuncio evangelico non ha affatto annullato questa fatica, ma si è voluto inserire in essa: un inserimento tutto particolare, non fatto di trattazioni teoriche alternative a quelle esistenti, ma costituito da una vita pienamente umana totalmente vissuta nella luce di un Eterno, di un Assoluto. Il Verbo si è fatto carne anche in materia morale. L'annuncio morale cristiano è una proposta di senso ultimo per l'esistenza umana, di un senso ultimo che è dono totale di sé. Così, il Conciliò può dire che "hominem plene seipsum invenire non posse nisi per sincerum sui ipsius donum" (GS n. 24). È, questo, l'annuncio di un primum ethicum o, con l'espressione di W.K. Frankena, di una basic premise, indimostrabile (indeducibile razionalmente da altro principio assoluto): una chiamata assoluta che il cristiano per fede crede presente nel cuore (nella coscienza, nella sensibilità morale) di ogni uomo (come in Rm 2 o nel magistero di GS, nn. 16 e 92). A questo livello, l'annuncio morale cristiano è certamente universale.
Quando si tratta di produrre precetti particolari, il problema è più complesso. Si tratta, infatti, di cercare con amore e con passione come meglio si possa integrare questo significato ultimo dell'esistenza nel concreto della quotidianità e delle singole aree di comportamento: è esattamente questo il senso del "discernimento" paolino. Qui entra in scena la riflessione umana, e qui trova il suo luogo proprio l'etica normativa (o più esattamente l'etica applicata). Questa fatica di discernimento è inevitabilmente condizionata a livello culturale: e ciò non solo per le condizioni oggettive in cui si svolge la vita di relazione (e con essa le possibilità e le modalità del dono di sé: si pensi alla recente globalizzazione economico-finanziaria), ma anche per il condizionamento soggettivo dello studioso, che non vive e non pensa nel vuoto ma entro un quadro di modelli automaticamente recepiti. E qui l'etica cristiana, se intesa come somma di precetti e di osservanze particolari, non può pretendere una universalità derivante da una pretesa assolutezza e definitività (si noti che questa impossibilità riguarda la somma di osservanze, non invece alcuni singoli precetti che siano da considerarsi come manifestamente rivelati). L'etica cristiana dovrà, anzi, tenere in gran conto, e saper discernere alla luce del Vangelo, quanto le viene offerto da tradizioni, filosofie, esperienze di culture diverse da quella occidentale entro cui si è sviluppata.
Tuttavia, il grande annuncio della vita, come dono, potrà e dovrà essere in qualche modo specificato per le diverse aree di comportamento entro cui si articola la convivenza umana, offrendo al mondo linee-guida - quello che si dice "valori" - per un discernimento coerente col grande annuncio evangelico. Su questo terreno, vi sono oggi una sensibilità etica e un bisogno di universalizzazione nuovo, così come è nuova (qualche decennio al massimo) la realtà di una convivenza umana pluriculturale e l'idea stessa di un bene comune della famiglia umana.
Propongo solo due esempi. Il primo è la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo fatta dall'Onu nel 1948, che deliberatamente ingloba tutti gli esseri umani indipendentemente dagli stati o aree culturali di appartenenza ("every human being" e "every member of human family"): essa non ha certo avuto grandi effetti giuridici sulla legislazione e i governi del mondo, ma esprime quanto meno una nuova sensibilità morale verso i bisogni essenziali per una vita umanamente dignitosa. L'attenzione e la cura dell'altro, chiunque esso sia, è vista come compito morale veramente universale. L'elenco dei diritti dell'uomo rispecchia bene le linee-guida a cui sopra ho accennato: e Giovanni XXIII nella Pacem in terris riprende quasi alla lettera tale elenco come base per una convivenza veramente umana, espressione del disegno di Dio.
Il secondo esempio è l'attuale - e recentissima - questione ecologica. Si tratta di un problema assai recente per l'etica. Un consenso planetario riconosce l'urgenza del problema (solo gli Usa lo subordinano ai loro nazionali interessi economici): ciò vuol dire accettare - consciamente o inconsciamente - la rilevanza etica dell'altro per me, ivi comprese le generazioni future (l'altro che ancora non esiste). Desta qualche sorpresa vedere molti sostenitori del relativismo etico schierati in questo impegno: ciò, a mio parere, indica che vi è una sensibilità morale (una coscienza) che sussiste e opera al di là di ogni teoria generale dell'etica, e non è culturalmente né religiosamente condizionata.
Questi due esempi (ma il tema andrebbe ampliato) illustrano il mio assunto iniziale che oggi la Chiesa con il suo Vangelo è di fronte a una chance e a una sfida mai prima esistita: se una qualche etica universale è possibile, ed è di fatto esperita a livello pluriculturale, essa è legata all'essenza stessa dell'annuncio cristiano. Non è necessariamente da esso generata, anche se è indubitabile l'influsso che il Vangelo ha avuto ed ha anche sui non credenti. Ma la capacità di amare, letta con gli occhi della fede, è l'immagine e la chiamata di Dio in ogni coscienza umani, ed è presente e può essere accolta anche da chi "non ne conosce l'Autore" (GS n. 92).
Il nucleo universale e universalizzabile dell’annuncio cristiano
Ciò induce a qualche considerazione sullo stato attuale della filosofia morale (4). Ne faccio qui un brevissimo cenno a modo di conclusione. Ogni essere umano agisce all'interno di una comunità: il dare un significato alla presenza dell'altro nel mio progetto di vita buona è inevitabile. E qui le alternative sono solo due: o io costruisco il mio progetto senza inserirvi la vita buona dell'altro, ma accettando di necessità la sua presenza, e allora l'altro (e anche la sua vita buona) o sarà utile ai miei fini o sarà un ostacolo, un nemico da superare; oppure, costruisco il mio progetto includendovi l'attenzione alla vita buona dell'altro, sia pure con diverse gradazioni o modalità (e i due esempi sopra citati ne sono un'illustrazione), e allora l'altro sarà parte integrante del mio progetto. Ma la prima alternativa esclude ogni considerazione veramente etica: non esiste limite interno a me su cui misurare le mie scelte. È sulla seconda alternativa che oggi l'umanità deve giocare la carta del proprio convivere e della sua stessa sopravvivenza.
Basare - o giustificare - il relativismo etico sulla pluralità di culture è un grave errore teorico o un paravento del più totale individualismo. La serie di valori che specificano nel nostro momento storico l'attenzione all'altro è sensibilità morale comune agli esseri umani e a tutte le culture. All'interno di ciascuna cultura e della sua immanente mutazione storica, come all'interno di ciascuna area religiosa o politica, quest'attenzione potrà assumere forme sociali e giuridiche diverse, così che l'assunzione dello stesso valore potrà esprimersi in precetti particolari diversi ma tutti intesi come la migliore espressione possibile - in un certo luogo e in un certo tempo - dell'attenzione all'altro. Oggi sostenere un relativismo etico è pura astrazione (mentre affermare una relativizzazione di ogni cultura è doveroso e realistico). O si assume l'attenzione all'altro come elemento fondante dell'etica, o si rinuncia all'etica. Del resto è questo che il Signore ci ha rivelato con la parola e le opere, e questo deve essere il nucleo universale e universalizzabile dell'annuncio morale cristiano.
NOTE
1. Cf. E. CHIAVACCI. "Globalizzazione come sfida", in Rivista di Teologia Morale, (2000) 127, 331-343.
2. Ho cercato di approfondire questo punto in "Unity of Christian Faith and Pluriformity of Ethical Reasoning" in Bulletin ET- Zeitschrift für Theologie in Europa (1991), 37-41.
3. Su questo punto, cf. E. CHIAVACCI. "Für eine Neuinterpretation des Naturbegriff", in D. MIETH (a cura di), Moraltheologie im Abseits?, Herder, (Quaestiones Disputatae, n. 153) 1994, 110-128.
4. Ho cercato di sviluppare questo argomento in "Un futuro per l'etica: il coraggio di andare oltre", contributo a un volume collettaneo della Fondazione Lanza, che celebra il X anniversario della sua fondazione.
(da Rivista di Teologia Morale, XXXIII (2001), 130, pp. 177-184)