Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

L'8 aprile 1966 - a una manciata di mesi dalla conclusione del Concilio Valicano II e un biennio prima dello scoppio della contestazione nel mitico Sessantotto - compariva nelle edicole di mezzo mondo un numero del Time destinato a fare epoca. La copertina riportava, su sfondo scuro, solo una lapidaria domanda in colore rosso: Is God dead?Dio è morto?

Sabato, 18 Dicembre 2004 21:01

Durare (Faustino Ferrari)

Non è il denaro e non sono gli averi a far girare il mondo. Il mondo danza nel compimento del dono. Il mondo ci si rivela come dono.

Proprio per la partecipazione da parte di Dio alla storia umana, fino all'assunzione della sofferenza e della morte, per il cristiano queste esperienze sono pur sempre avvolte nel mistero, ma cominciano ad acquistare un diverso significato.

Sabato, 18 Dicembre 2004 20:53

Immaginare (Faustino Ferrari)

Dopo tanto discorrere e discutere, sembrava prevalere il parere che l’uomo e la donna dovessero essere creati come animali amorfi...

Sabato, 18 Dicembre 2004 20:50

Guardare (Faustino Ferrari)

La città che amo è fatta di vicoli, di case, di volti e di odori...

Ho già abbondantemente illustrato come la partecipazione rituale ed effettiva al banchetto eucaristico esprima ed esiga la comunione con i fratelli. Altrimenti, avremmo un segno, cui non corrisponderebbe la realtà.

La mansueta follia della croce
contro il male del fondamentalismo
di Giancarlo Bruni





Il fenomeno "fondamentalismo" pone dei problemi di vocabolario, di geografia e di storia che ne impediscono una definizione e un uso univoci. Senza entrare nel merito di una questione attualissima, e in termini non esaustivi e sicuramente criticabili, possiamo caratterizzare il "fondamentalismo" come una delle visioni organiche del mondo a partire da puntuali "fondamenti".

In sintesi, i propri "Libri" fondativi e identificativi accostati in maniera acritica e considerati in maniera apodittica testi da cui si deduce immediatamente e direttamente la legge di Dio, legge-verità che deve plasmare la convivenza umana, con conseguenze di chiusura, di resistenza e di ostilità nei confronti di quanti non si riconoscono o si oppongono all'applicazione socio-politica di tale prospettiva. Questo spiega, a partire dagli inizi del secolo scorso, l'opposizione dei fondamentalisti cristiani di matrice protestante del Nord America nei confronti della modernità e del cosiddetto cristianesimo liberale perché aperto al dialogo ecumenico e interreligioso e a una variegata gamma di interpretazioni o ermeneutiche bibliche.

Un fondamentalismo questo, di matrice protestante di lingua anglosassone, con taluni ed evidenti punti di convergenza con l"'integralismo" cattolico degli stessi inizi del secolo scorso, divergente dal primo per l'importanza data al magistero come istituzione mediatrice della volontà di Dio e dell'approccio al Libro. A ben vedere ancora una volta è in gioco il problema del rapporto fede-storia, Chiesa-mondo. Ma è nell'oggi che il problema è esploso in tutta la sua crudezza diventando questione mondiale. Si contendono, infatti, in uno scontro senza riserve di violenza, la piazza del mondo più fondamentalismi, più visioni totalizzanti che si presentano esclusive ed escludenti.

È la cronaca che abitiamo: «Questa è una crociata contro il Male assoluto, Dio non è neutrale davanti al Bene e al Male: Dio è con l'America». Parole dl George W. Bush in risposta all'attacco delle Torri gemelle, a sua volta giustificato dal Dio del Corano.

Ciò che mi preme sottolineare, al di là delle reali e inconfessate ragioni sottese a questo guerreggiare inteso come scontro di civiltà, è che i riferimenti religiosi a suo sostegno non vanno sottovalutati e la provocazione va accolta: Dio dove sei? Con chi stai? Sei davvero il fondamento di questa tragica deriva umana?

Domande che pongo anche al fondamentalismo islamico: il fondamento della propria religiosità è necessariamente violento? E che pongo ovviamente all'uso del nome di Dio e del ricorso alla civiltà cristiana che viene fatto nel cristianesimo stesso in questo tempo per molti versi apocalittico e manicheo.

In verità, nessuna religione può essere identificata con il suo estremo fondamentalista, tuttavia il fondamentalismo dai molti volti ha costretto e costringe ogni religione e le Chiese cristiane a ridiscendere nella propria profondità e a riconsiderare il proprio "fondamento".


Perché, come ha scritto David Turoldo, «sbagliarsi su Dio è un dramma, è la cosa peggiore che posa capitarci, perché poi ci sbagliamo sul mondo, sulla storia, sull’uomo, su noi stessi. Sbagliamo la vita». E per le Chiese non si dà altro «fondamento che Cristo» (1 Cor 3,11), la via alla verità di Dio (Gv 14,6) in quanto sua Icona (Col 1,15), sua Parola (Gv 1,1.14) e sua Esegesi (Gv 1,18), per tutti e da tutti visibile e intellegibile in maniera decisiva e inequivocabile sulla Croce (Gv 19,20.37), e per tutti e da tutti udibile nei detti sull'amore del nemico del Discorso della montagna. Il "fondamento" che è Cristo, un Vivente e non un Libro, un parlante nello Spirito che libera dal fermarsi alla lettera che uccide per pervenire alla parola che dà vita (2Cor 3,6), parola mai esaurita e mai conclusa dalle sue legittime e molteplici interpretazioni, non autorizza «fondamentalismo» alcuno. Al contrario, si pone come amore incondizionato e in forma unilaterale per ogni creatura sotto il sole, sempre dalla parte delle vittime e sempre bacio al carnefice e a quanti lo strumentalizzano, perché Dio non vuole la loro morte, ma che si convertano e vivano (cfr. Ez 33,11).

La domanda per le Chiese, pertanto, è una sola: come abitare la terra nel tempo del male fondamentalista? Che fare? «Dentro lo spessore del male introdurre la follia della compassione... Ho la responsabilità di far diminuire il male con la giustizia e la carità. Questa è la compassione... la poetica dell'agape» (Paul Ricoeur). E questo esserci come scandalo e follia è il linguaggio del Dio di Cristo verso ogni fondamentalista, un messaggio a cui le Chiese devono convertirsi a segno di un "fondamento" che guarda con amore e agisce con amore nei confronti di qualsiasi diversità, compreso il proprio assassino, il proprio oppressore, a qualsiasi religione, etnia e cultura appartenga.

Non si dà altra via di salvezza, come testimonia il Testamento spirituale di frère Christian, uno dei monaci trappisti uccisi in Algeria: «Venuto il momento, vorrei avere quell'attimo di lucidità che mi permette di sollecitare il perdono di Dio ...e nello stesso tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito, ...amico che non avrai saputo quel che facevi... E ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso... Insc’Allah, ad-Dio», al Dio che ha deposto al cuore di ogni religione e coscienza come suo fondamento vero la lingua materna comune della cura dell'altro.

(da Jesus n. 9, settembre 2004)


Intervista ad Amos Oz
Una risata contro i fanatici

di Alessandra Garusi





«Per favore, fate tutto quello che potete per aiutare entrambe le parti, perché tutti e due - israeliani e palestinesi - sono in procinto di prendere la più tormentata decisione della loro storia... Non dovete più scegliere fra essere pro Israele o pro Palestina. Dovete essere per la pace». Con questo appello agli opinionisti, all'Europa e a tutto il mondo esterno, si chiude “Contro il fanatismo” (Feltrinelli), l’ultimo libro del grande scrittore israeliano Amos Oz. Appassionato, umano, persino religioso nel senso più profondo del termine, egli propone una sua personale ricetta per vincere questo male che attanaglia ormai l'intero pianeta: il senso dell'umorismo.

Lei ha scritto: «In vita non ho mai conosciuto un fanatico dotato di senso dell'umorismo». Quando e come ha scoperto che la capacità di ridere di sé era il miglior antidoto contro il fanatismo?
«Penso che chiunque sia cresciuto a Gerusalemme e non sia diventato del tutto fanatico, debba avere un innato senso dell’ironia. Presumo, quindi, di aver avuto in corpo questo antidoto dalla primissima infanzia».

L'ironia è qualcosa che si può insegnare?
«No. Temo purtroppo che ciò non si possa fare. Tuttavia, spero che un giorno sia possibile creare un farmaco che la gente possa ingerire... Ritengo che l'ironia e le altre forme di umorismo, soprattutto la capacità di non prendersi troppo sul serio, siano non solo l'unico vero rimedio contro il fanatismo, ma anche la chiave di ogni relazione umana. Se credo in un Messia, lo faccio con questa certezza: Lui verrà sulla Terra ridendo e insegnandoci a fare altrettanto di noi stessi».

Recentemente lei ha detto di sé: «Sono un gran fautore del compromesso». Che cosa significa questo nella quotidianità?
«Significa cercare di incontrare le altre persone a metà strada. Significa che se mia moglie oggi vuole andare al cinema e io preferisco sedermi al tavolino di un caffè, cercherò di tenere il mio programma per il giorno dopo e quello di mia moglie per l'immediato; o ci infileremo in un bar dopo la proiezione, accontentando entrambi. È l'arte quotidiana del vivere assieme a un'altra persona».

Un caso pratico. Il partito laburista di Shimon Peres ha dichiarato la propria disponibilità a entrare nel nuovo Governo d'unità nazionale e, dunque, ad appoggiare il piano di ritiro da Gaza del primo ministro Ariel Sharon. Lei concorda con questa linea?
«Risponderò a questa domanda con un'altra domanda. Dipende: se alcune delle richieste avanzate dal partito laburista (o, ancor meglio, tutte) verranno accolte dal premier, allora l'ingresso si rivelerà opportuno; in caso contrario, sarà deleterio. In altre parole, mi chiedo: Sharon è disposto ad arrivare a metà strada per incontrare la controparte, oppure no?».

Che diritto ha un romanziere o uno scrittore di esprimere opinioni? O piuttosto “deve” farlo?
«Ho sempre considerato il mio lavoro come una sorta di sistema anti-incendio di un albergo o di un ristorante. Ogni volta che il mio naso intercetta l'odore del linguaggio disumanizzante, se sento che è mio dovere urlare, lo faccio. Perché io lavoro con le parole... E quando la gente - ovunque essa si trovi - sperimenta l'alienazione, la paralisi, so che è arrivato per me il momento di alzare la voce. Disumanizzare il linguaggio è infatti una sindrome che denota una disumanizzazione della politica».

Se non avesse fatto lo scrittore, cosa avrebbe fatto?
«Nella mia infanzia sognavo di diventare un pompiere... Se un giorno non potrò più scrivere romanzi, diventerò un "pompiere politico" capace di gettare acqua sul fuoco ovunque ci sia uno scontro».

Torniamo al suo libro. A suo avviso è possibile "guarire" un fanatico, e come?
«In alcuni casi si è riusciti a farlo. E questo grazie a un gruppo di persone che lo ha circondato risvegliando in lui (o in lei) un senso dell'umorismo dormiente, mai esercitato prima. In altre circostanze, il fanatico è "guarito" dopo essersi reso conto della limitatezza della vita umana, e in particolare della propria. Talvolta, quando uno si guarda attentamente allo specchio, vede tutto questo. Non sempre avviene».

A proposito del "come", può darci un consiglio?
«Leggere dei romanzi, delle poesie, può essere una buona medicina. Perché questo ci permette di entrare dentro altre culture, tradizioni, religioni. Ci infiliamo allora in altre scarpe e assumiamo altri punti di vista. È attraverso la letteratura in generale che scopriamo di avere tutti gli stessi segreti».

Dopo l'uccisione del primo ministro Yitzhak Rabin (novembre 1995), lei ha visto emergere qualcun altro, una figura di pari carisma sulla scena politica israeliana?
«No. Questo è un grande mistero, destinato a rimanere tale. Non sapremo mai chi diventerà un vero leader, prima che ciò avvenga. Cioè non è possibile oggi fare dei nomi, dire: "Sei il miglior candidato o la miglior candidata alla poltrona di primo ministro". Nemmeno il diretto interessato sa di esserlo. Se qualcuno mi avesse detto che Charles De Gaulle avrebbe smantellato il colonialismo francese, o che Winston Churchill avrebbe posto fine all'impero britannico, o che Michael Gorbaciov avrebbe distrutto il lavoro di Lenin e di Stalin, dieci anni prima che questi fatti accadessero, non ci avrei creduto. Quindi, c'è un elemento di mistero e di sorpresa».

Nel caso di Yitzhak Rabin, pensa che sia diventato un uomo di pace proprio perché ex uomo di guerra?
«Può darsi. Ma, come ho detto, resta un mistero. Conoscevo abbastanza bene Rabin, l'ho visto cambiare davanti ai miei occhi: la sua politica, il suo credo, le sue idee. Non è cosa da poco, soprattutto per un uomo sui 60 anni (forse lo è meno per una donna, meno arrogante e meno certa di avere la verità in tasca). Eppure, lui lo ha fatto. Ha colto di sorpresa non solo me, ma anche se stesso. Perché lui e non un altro generale, che pure aveva marciato sui campi di battaglia? Ripeto: è un mistero. Il cambiamento umano è un tale enigma... Sono sicuro che lei è stata in un ristorante. Avrà visto uno ordinare un piatto di pesce, poi richiamare il cameriere e dirgli: "Sa che cosa? Preferirei un pollo". Dio solo sa che cosa c'è dietro quel cambiamento. E le ho portato un esempio banale. Dunque, questo resta un arcano: che cosa sta all'origine del mutamento? Che cosa fa di una persona normale un grande leader? Non lo so».

Nel suo ultimo libro, Contro il fanatismo, lei afferma che «la speranza è il miglior antidoto contro il fanatismo». Chi oggi può realmente dare speranza in Israele e in Palestina?
«Chiunque abbia una visione positiva della realtà. E, di questo genere di persone, ce ne sono moltissime. Milioni, da entrambe le parti. Hanno uno sguardo pragmatico sull'esistenza e sulle cose; sanno che è possibile, per israeliani e palestinesi, vivere fianco a fianco; conoscono già la risposta che i politici vanno cercando da decenni».

Se un giorno la pace dovesse mettere radici in Medio Oriente, lei ritiene che avrebbe un effetto positivo anche su altre zone di conflitto?
«Spero davvero di poter vedere con i miei occhi la pace realizzarsi fra Israele e Palestina. E sono sicuro che contribuirà a un abbassamento di tensione in tutto il Medio Oriente, forse anche altrove. Certo, non metterà fine a tutte le guerre che oggi affliggono il mondo, ma sarà un segnale forte».

Qual è il suo sogno?
«Ho moltissimi sogni, molte fantasie. Ho più sogni che tempo per realizzarli in un'unica esistenza... Alcuni inconfessabili. Quello che ho per l'immediato futuro, è che i popoli e le nazioni comincino davvero ad ascoltarsi reciprocamente, e non facciano solo finta di farlo».

(da Jesus, n. 9, settembre 2004)


Il quinto grado dell'umiltà consiste nel manifestare con un'umile confessione al proprio abate tutti i cattivi pensieri che sorgono nell'animo o le colpe commesse in segreto (RB 7, 44).

Venerdì, 10 Dicembre 2004 00:04

Camminare con Cristo (Giovanni Vannucci)

Camminare con Cristo (1)
di Giovanni Vannucci




Stando alla pagina di Lc 9, 51-62, nessuno può entrare in quella nuova dimensione che Cristo ha portato alla coscienza degli uomini, se si volta indietro, se si sofferma su posizioni ormai sorpassate, se preferisce il saluto a coloro che deve abbandonare prima di seguire decisamente Cristo.
Vicino a Cristo, il passato, il dietro, il superato, non hanno posto.
Egli è il Figlio dell’Uomo.
Su questo passo noi dobbiamo ritmare il nostro cammino personale.
Egli non ha un posto dove posare il capo, nè un nido dove soffermarsi per la notte (cfr. Lc 9, 58): è sempre in cammino, è l’eterno pellegrino. E così dobbiamo essere noi.


Quando i discepoli giungono nel villaggio della Samaria e si sentono rifiutata l’ospitalità per il semplice fatto di essere Ebrei e di andare verso Gerusalemme, vanno da Cristo e gli dicono:
«Signore, vuoi che facciamo cadere dal cielo un fulmine che stermini tutta questa gente?».
Il Cristo dice: «Non sapete con che spirito parlate», e li rimprovera severamente (cfr. Lc 9, 54-55).

I discepoli non erano passati attraverso la novità del Vangelo. Erano ancora nell’economia del Vecchio Testamento: «Dente per dente, occhio per occhio. A chi ti toglie un dente, togli un dente; a chi ti toglie un occhio, togli un occhio; a chi non ti ospita, fai cadere un fulmine dal cielo perché bruci la sua casa» (cfr. Dt 19, 21). Per Cristo questo è il passato. Soffermarsi al passato è non seguirlo.

Si apriva, si apre con Cristo una nuova realtà. Le contingenze della terra, di accettazione o di rifiuto, di rispetto o di disprezzo, non hanno nessun senso per colui che segue Cristo. Egli deve compiere il suo cammino sempre in avanti. E a quell’ignoto che gli chiede di seguirlo, Cristo, leggendo nel suo cuore, dice: «Vedi, il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo. È sempre in cammino in avanti» (cfr. Lc 9, 58).

Quel tale non lo accetta, perché probabilmente aveva visto, aveva sentito la forte personalità di Cristo e cercava un rifugio vicino a Cristo: un grande padre che lo coprisse e che gli desse sicurezza. E Cristo gli dice: «II Figlio dell’Uomo, l’Uomo, l’Uomo vero, l’Uomo maturo non si sofferma neppure all’ombra di una grande paternità o di una grande maternità: va sempre avanti, solitario e pellegrino nella sua strada».

E all’altro, al quale Cristo dice: «Seguimi», e che gli chiede di andare a seppellire suo padre, Cristo dice: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Lc 9, 59-60). Il morto è un essere che ormai ha compiuto il suo ciclo, e attardarsi per compiere anche quelli che per noi sono atti di pietà e di amore che vanno compiuti, è un non seguire il Cristo.

E all’altro che dice: «Ti seguirò. Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa» (Lc 9, 61), Cristo risponde: «No, Cristo è sempre avanti; seguimi».

Questa è la grande consegna che Cristo ci dà e che noi dobbiamo vivere pienamente: essere con Lui sempre, oltre tutti i margini che costruiamo, oltre tutti i limiti di civiltà, di cultura che costruiamo, perché Cristo è sempre avanti. Quando poi pensiamo di essere riusciti a dare alla nostra società una forma perfettamente cristiana e guardiamo la nostra società e poi guardiamo Cristo, vediamo che Cristo è avanti. E allora dobbiamo lasciare le belle costruzioni che abbiamo innalzato, le meravigliose strutture che siamo riusciti a edificare, per seguire Cristo che è sempre avanti e sempre oltre.

Attorno a Cristo non c’è niente di morto, attorno a Cristo non c’è niente di passato, attorno a Cristo c’è il presente, ma il presente che è mosso e fermentato da una speranza che ci proietta nel futuro.

E con tutto l’essere noi dobbiamo riuscire a seguire Cristo: con tutto l’essere, con la nostra mente, con il nostro cuore, con il nostro sentimento, con la nostra vita, con le nostre mani, pronte a distruggere quello che dobbiamo distruggere perché ormai è soffocante per la coscienza cristiana, è soffocante per Cristo che è in noi.

Ecco, c’è un punto sul quale noi dobbiamo tenere sempre vigilante la nostra attenzione: che il nostro cammino sia compiuto non da noi, ma da noi con Cristo, o «in Cristo», come dicevano gli antichi cristiani, nello spazio di Cristo.

La nostra Chiesa è in un momento di grande crisi, come tutta la società; noi sentiamo sulle spalle il peso di tutta una tradizione che è invecchiata, ce la vogliamo scrollare di dosso, non con le nostre velleità, con i nostri capricci, con le nostre stranezze, con le nostre stravaganze, ma ce lo dobbiamo scrollare dalle spalle con Cristo.

E se rinunciamo a una bellezza che non sentiamo più affascinante, dobbiamo rinunciarvi in nome di un’altra bellezza. Se rinunciamo a un canto che ora non esprime più il nostro sentire, la nostra sensibilità del sacro, lo dobbiamo fare in nome di un canto che esprima perfettamente e compiutamente e in perfetta bellezza quello che sentiamo del mistero di Cristo. Ciò non significa far delle cose brutte, delle cose superficiali, affrettate e più caduche di quelle che abbandoniamo per rinnovarci nel Cristo. Ma rinnovarci in Cristo significa muoverci con tutte le nostre facoltà creative di bellezza, di amore, di libertà, di grandezza umana.

Allora, camminiamo con Cristo. Adesso, se guardiamo la storia delle nostre Chiese, di tutta la cristianità, vediamo che c’è un continuo movimento. E questo movimento è sempre stato accompagnato da manifestazioni di bellezza, di libertà, di verità. A un certo momento c’è stata una chiusura e, anche dentro la Chiesa, abbiamo prodotto delle cose opprimenti, brutte, squallide, penose, perché la cristianità ha pensato di dare una definizione totale e perfetta di Cristo. E Cristo invece era al di fuori.

Allora la bellezza è nata al di fuori, la libertà è nata al di fuori, la ricerca della verità è nata al di fuori di questa struttura che si è chiusa. Ora noi sentiamo tutto il peso di questa chiusura che è avvenuta secoli fa. E come dobbiamo liberarcene? Camminando con Cristo.

Camminare con Cristo significa disseminare i nostri passi di crescente bellezza, di canto sempre più avvincente e più nostalgico della vita divina, di libertà sempre maggiore e più profondamente rispettosa dell’uomo, creando delle strutture talmente fragili che accompagnino il nostro cammino di pellegrinaggio come una tenda, che oggi stabiliamo in un posto, domani in un posto più avanzato.


Di questo dobbiamo persuaderci: attorno a Cristo non ci sono né cose brutte, né cose passate, né vecchi fermenti, né cose morte, ma c’è un rinnovamento continuo di vita. Ora, nel rinnovamento della vita, se noi partiamo dalla nostra piccolezza umana, creiamo sempre delle cose sbagliate, delle cose opprimenti, delle cose che non ci liberano. Se invece partiamo da quest’asse centrale che è nel nostro essere e che è Cristo, allora anche le nostre costruzioni saranno vere, saranno apportatrici di bellezza, di libertà, di amore, di respiro a tutti gli uomini.

Credo che seguire Cristo, oggi, imponga a noi una più profonda conoscenza della realtà di Cristo, un amore più appassionato di quello che è Cristo, non delle figure che la storia umana ha dato di Cristo, ma di quello che è Cristo nella sua purezza e nella sua essenza. E dopo dobbiamo muoverci, con questa ricchezza, con questo accrescimento di vita nel cuore, sicuri che tutto ciò che faremo sarà fatto in nome di Cristo e nella presenza di Cristo. E poi costruire sempre, ma costruire pensando al domani e non all’oggi, pensando di dare al nostro canto una latitudine che abbracci le generazioni che seguiranno, di dare alla nostra bellezza un tale respiro che possa essere comprensibile e illuminante anche per le generazioni che verranno dopo di noi.

Dobbiamo muoverci nello spazio di Cristo, e lo spazio di Cristo è l’infinito tempo,  l’infinito orizzonte, il «sempre oltre». Il sempre oltre al presente, il sempre oltre a tutte le realizzazioni che noi uomini possiamo compiere anche nel suo nome. Allora le cose che facciamo avranno sicuramente, anche se legate al tempo e allo spazio, il profumo dell’eternità e avranno il profumo del non spazio, perché nascono da questa nostra comunione profonda con il mistero di vita che è il Cristo, che è nel nostro cuore. E dal cuore dobbiamo riuscire a trarre tutte le nostre ispirazioni e tutte le nostre raffigurazioni di ciò che vogliamo compiere nel nome di Cristo.

(1) Omelia pronunciata domenica 27 giugno 1977 durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 19 nell’eremo di San Pietro alle Stinche - Greve in Chianti, FI). In La Vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985; 13a domenica del tempo ordinario: «Camminare con Cristo». Anno C. Pag. 145-149.




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