Una frase terribile
“Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli!”. E’ una formula che ha costituito nei secoli un argomento contro gli ebrei, una frase carica di inimicizia, che ha spesso attirato l’attenzione di feroci nemici dell’ebraismo e ma è anche risuonata sulla bocca di pii cristiani, ed è stata colpevole di una lunga catena di persecuzioni e violenze antiebraiche.
Ma è una frase vera, un detto originale e storico che Mt si è limitato a riportare?
Ma non è storica
Un’analisi storico-critica del testo in cui la frase è inserita aiuta a capire com’è nata e quale ne è il significato.
Anzitutto la frase va inserita nella pericope su Barabba (Mt 27,15-26) – che, come si è visto, rielabora un episodio probabilmente storico – e va collegata con altri due versetti (v 19: la moglie di Pilato lo mette in guardia dall’intervenire contro Gesù; v. 24: Pilato si lava le mani) la cui storicità è decisamente improbabile.
Da dove vengono questi 3 versetti (Mt 27,19.24.25)? L’evangelista li ha trovati in una tradizione precedente a lui o li ha inventati lui? Tutto porta in quest’ultima direzione.
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Il testo contiene chiare allusioni all’Antico Testamento:
- il gesto di lavarsi le mani è riferito a Dt 21,1-9 (gli anziani di una città presso cui è stato trovato un uomo ucciso di cui non si conosce l’uccisore, per dichiarare l’innocenza loro e della loro città sacrificano una giovenca e su di essa si lavano le mani);
- la formula con cui Pilato spiega il suo gesto ha un chiaro riferimento a 2Sam 3,28 (Davide, dopo l’uccisione di Abner, si dichiara innocente di quel sangue).
Questi riferimenti portano decisamente a spiegare questi versetti come una elaborazione di Mt derivata dalle Scritture.
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Questa aggiunta di Mt ha ben poche probabilità di riferire un fatto storico:
- v. 19: storicamente è possibile che la moglie di Pilato fosse a Gerusalemme in occasione della Pasqua, e che donne altolocate intercedessero presso i mariti a favore di prigionieri poteva avvenire; ma l’impegno della moglie del prefetto romano a favore di Gesù pone grossi dubbi: perché avrebbe dovuto interessarsi di un predicatore proveniente dalla Galilea (ritenuta oltretutto patria di ribelli)? Che interesse poteva suscitare in una donna di mondo il messaggio di Gesù sull’imminente regno di Dio? Anche l’accenno a un suo sogno è un espediente letterario che Mt usa più volte;
- il gesto del lavarsi le mani si spiega come costume ebraico e le parole che lo commentano derivano dall’Antico Testamento: è impensabile che Pilato, che disprezzava gli ebrei, si sia rifatto a un costume ebraico per giunta con una citazione dalle Scritture. Il processo a Gesù deve essere stato per lui una cosa di poco conto e, una volta che gli accusatori avevano ottenuto ciò che volevano (la condanna di Gesù) e simpatizzanti di Gesù erano scomparsi, perché avrebbe dovuto concludere il processo con una sua solenne e rituale dichiarazione di innocenza?
- v. 25: “tutto il popolo” come attore di quella automaledizione non ha senso: al tempo di Gesù il “popolo ebraico” contava 6-7 milioni di membri sparsi in tutto il mondo mediterraneo; a Gerusalemme per la Pasqua potevano essere presenti 100.000 pellegrini; ma quanti potevano avere interesse per la vicenda di Gesù quel mattino? Quanti erano informati di ciò che era accaduto quella notte? Non si va lontano dalla realtà se si ipotizza che a seguire la faccenda siano state alcune decine di persone, forse 100, ma non di più.
Insomma, tutto indica che qui Matteo non ha descritto una scena storica, ma l’ha inventata.
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Vari elementi di questi versetti tradiscono la mano di Mt: la tonalità “ebraica” (antico-testamentaria) è in sintonia con l’immagine che ci facciamo di Mt: un ebreo di origine che si muove con familiarità nella Bibbia ebraica e dove possibile cerca di mostrare in Gesù il compimento dell’AT.
Perché questa scelta di Mt?
Bisogna anzitutto cogliere la drammaticità narrativa della pericope di Mt su Barabba:
- la tensione della scena sale sensibilmente con la domanda di Pilato al v. 17: l’alternativa proposta dal prefetto (Barabba o Gesù) fa irrigidire il confronto tra Pilato e i sinedriti + folla;
- il dialogo si fa più serrato e aggressivo: Pilato chiede e la folla risponde (v. 21), Pilato chiede e rispondono tutti (v 22), Pilato chiede ed essi gridano a gran voce (v. 23);
- quando Pilato si accorgere di non ottenere risultati si lava le mani a scopo dimostrativo davanti a tutti (v. 24) e la folla reagisce solennemente con il “grido del sangue” (v. 25).
La pericope raggiunge quindi il suo culmine nei vv. 24-25, che sono una salda unità e sono come le due facce di una stessa medaglia. Per Mt è importante, al culmine del processo a Gesù, fissare due punti: 1) Pilato è innocente della morte di Gesù; 2) la responsabilità è della folla ebraica e dei suoi rappresentanti ufficiali.
Dietro questa scena ritorna un tema a cui Mt dedica ampio spazio nel suo vangelo: il rifiuto di Gesù da parte del popolo ebraico e il rivolgersi a Gesù da parte dei pagani.
Mt usa tutti i mezzi per trasmettere ai lettori la sua idea del rifiuto di Gesù da parte dell’ebraismo giudaico e della sua accoglienza da parte dei popoli pagani; e lo fa anche a scapito della verità storica.
Ma perché fa questo? Bisogna tener presente la situazione in cui egli scrive.
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La comunità di Mt era probabilmente un piccolo gruppo di ebrei e pagani che vivevano in qualche luogo della Siria; cresceva il numero di provenienti dal paganesimo, ma non quello di provenienza ebrea. Perché? Mt risponde guardando indietro: Gesù è stato rifiutato dagli ebrei suoi contemporanei, perché stupirsi se 50 anni dopo i missionari cristiani sono rifiutati anch’essi?
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La comunità di Mt fa probabilmente l’esperienza di essere non solo avversata ma anche oppressa da ebrei estremisti. Gesù e i suoi primi discepoli erano un gruppo, certo insignificante, ma completamente interno al popolo d’Israele; anche la prima comunità dopo la Pasqua concepiva se stessa ancora come un fenomeno all’interno di Israele. Ma ben presto è iniziata la presa di distanza, e la separazione è andata via via aumentando (già nei primi anni ’50 Paolo ha sperimentato l’avversione di una parte del mondo ebraico); la rottura diventa definitiva dopo la catastrofe ebraica del 70 d.C: l’ebraismo giudaico cade dapprima in una grave crisi e ciò che di esso si ricostituisce negli anni successivi è un ebraismo farisaico-rabbinico chiuso e ostile verso i gruppi considerati “eretici” (es. le parole attribuite a Gesù da Mt 10,17 e Lc 12,11; 21,12 conferma come intorno all’80 d.C. alcune comunità cristiane fossero oggetto di ostilità da parte di ebrei estremisti). Per reazione anche il giudizio dei cristiani verso gli ebrei dopo il 70 si fa duro e ostile: ripetutamente Luca (probabilmente anch’egli negli anni intorno all’80) negli Atti rimprovera gli ebrei (es. At 2,23; 3,13; fino alla conclusione polemicamente antiebraica di At 28,23-28); e Giovanni (probabilmente intorno al 90) parla molte volte in modo sprezzante dei giudei come nemici di Gesù e del suo messaggio. Anche Mt rientra in questa schiera antiebraica, e sulla strada della separazione definitiva la Mt 27,24-25 è stata una pietra miliare.
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Mt potrebbe aver voluto dare risposta anche a un problema che travagliava all’interno la sua comunità: dopo mezzo secolo di attesa del ritorno di Gesù, diventava scottante il problema di quale delle due comunità (l’ebraismo e la Chiesa cristiana) poteva considerarsi il “vero Israele” guidato da Dio. Sembra che Mt abbia voluto dare risposta a questo: per lui il vero Israele era ormai la Chiesa di Cristo; e la catastrofe ebraica della guerra del 66-70 d.C. (con la distruzione di Gerusalemme e del Tempio) poteva essere vista come il segno che Dio aveva respinto l’ebraismo.
Non sappiamo quali di questi tre punti abbia avuto più peso nella redazione da parte di Mt del passo in questione. In ogni caso, nel confronto con l’ebraismo rabbinico del suo tempo (aspro da entrambe le parti), egli ha probabilmente voluto incoraggiare la sua comunità ma anche fornirle argomenti di difesa; e per farsi capire bene ha volutamente “caricato le tinte”, anche a scapito della verità storica. Non ha voluto fare opera di antiebraismo, ma certamente è responsabile di aver sottovalutato il rischio di un’interpretazione distorta del suo pensiero.
Un testo con cui fare i conti
Mt 27,25 è un testo carico di passione, ma è anche un testo pericoloso: letto in chiave fondamentalista diventa un’arma terribile. Nella riflessione di fede di un cristiano non si può evitare il confronto con esso, a cominciare dalla predicazione e dalla catechesi.
1) La prima cosa da fare è analizzarlo in un’ottica storico-critica (come sopra), considerandolo una presa di posizione di Mt di fronte a problemi e interrogativi della sua comunità intorno all’80 d.C.
2) Bisogna cercare di arginare l’idea del popolo ebraico che maledice se stesso ed è maledetto da Dio con altri testi sia biblici che extrabiblici; tra questi, in primo luogo:
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i capitoli 9-11 della Lettera di Paolo ai Romani (verso fine degli anni 50): Paolo affronta il problema del rapporto tra Israele e Chiesa cristiana con l’immagine dell’albero di ulivo (in part. Rm 11,16-24): alcuni rami sono stati tagliati (= quella parte del popolo ebraico che non ha creduto a Gesù), ma dei rami di un ulivo selvatico sono stati innestati sull’ulivo buono (= i pagani che si sono convertiti a Gesù), ma la radice, la parte più carica di energia, è Israele. Dunque per Paolo Israele è la radice originaria e la Chiesa cristiana è legata ad essa in una relazione storico-salvifica; Dio non ha ripudiato Israele e lo salverà.
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Il capitolo 4 della dichiarazione “Nostra Aetate” del Concilio Vaticano II (28/10/1965), dove si afferma tra l’altro che:
- la Chiesa è spiritualmente unita con la “stirpe di Abramo”;
- cristiani ed ebrei hanno una ricca eredità spirituale comune, che va scoperta e approfondita nella ricerca teologica e nel dialogo fraterno;
- le promesse fatte agli ebrei sono irrevocabili perché Dio è fedele;
- per la morte di Gesù bisogna distinguere tra tutti gli ebrei allora viventi, le autorità ebraiche e loro seguaci, gli ebrei di oggi; la responsabilità è solo delle autorità ebraiche di allora;
- la Chiesa deplora l’odio e le persecuzioni contro gli ebrei in ogni tempo;
- il Concilio esorta a non insegnare nulla nella catechesi e nella predicazione che non sia in sintonia con lo Spirito di Cristo.
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