«Sentinelle misteriose di un 'di più' che nella festa si annuncia e si promette allo sguardo trasfigurato, all'olfatto avvolto e catturato, al contatto sfiorato, all'udito accarezzato, al gusto assaporato. La linfa del mistero pasquale scorre nei sensi avvolti e coinvolti senza i quali la festa non è vera festa»(P. Tomatis). Vie alla conoscenza, chiavi per affrontare e decifrare la realtà. Che cosa sono i sensi se non 'porte dell' anima', sentinelle e messaggeri, mediatori tra la materia e lo spirito, veicoli del piacere, del desiderio,del dolore?
Iniziamo dal tatto: «... quello più bisognoso di avvicinamento. Deve toccare per ricevere. In cambio, rispetto agli altri sensi non ha una sede sola. È sparso sull'intera superficie. Il tatto sa gustare l'impalpabile di una brezza, l'avviso della fiamma, l'assedio del gelo, l'accostamento lento di due amanti fino allo sfioramento. È il più elettrico dei sensi, il primo che si sveglia nel grembo della madre, fratello maggiore degli altri» (Erri De Luca).
Se nella vita materiale il tatto è il più rozzo dei sensi, perché offre una conoscenza imperfetta e limitata della realtà, in quella spirituale - secondo i mistici - è il più fine. Superiore perfino alla vista, diceva san Bonaventura, perché procede dalla carità che, tra le virtù teologali, è «la più unitiva», cioè quella che più ci avvicina a Dio e agli altri
Espressione del desiderio, il tatto diventa metafora dell'incontro con Dio. I santi di ogni tempo se nello Spirito e per lo Spirito hanno cercato le vie dell'Alto, hanno anche chiesto che l'Alto toccasse la loro pelle fino a sconvolgerla e a inebriarla, così come sembra avvenire nella contemplazione di Teresa d'Avila, la grande mistica immortalata da Canova che, in preda all'estasi sconvolgente, avverte un abbraccio violento d'amore che sconvolge la totalità dei sensi. E il vocabolario del tatto finisce per designare l'estasi mistica, l'abbandono amoroso, la stretta e l'abbraccio di Dio.
Lungo la storia, il linguaggio dei teologi oscilla tra realismo e allegoria. Se in Origene (che per primo elaborò la dottrina dei sensi spirituali) prevale la rottura, anzi la separazione di piani tra le facoltà dell' anima e quelle del corpo, dieci secoli dopo, negli scritti di san Bonaventura, si sottolinea invece la continuità tra corpo e spirito. E il 'senso', anche quello spirituale, è definito come la facoltà che ci consente di conoscere qualcosa come presente. Nella sua teologia degli affetti, Bonaventura assegna al tatto un ruolo centrale perché esso - anche se in caligine, cioè come a tentoni, nell'oscurità - ci fa sperimentare la presenza di Dio. Nel tatto si esprimono la virtù della carità, il dono della saggezza e la beatitudine della pace: ecco perché, secondo il teologo francescano, esso è il più spirituale tra i sensi.
1. Nella Scrittura
Concreta, con i piedi per terra, l'antropologia biblica, nel suo ricco alfabeto di gesti, assegna al tatto, anzi all'atto del toccare, una molteplicità di significati e di funzioni. E non a caso la mano è l'organo del corpo che nella Bibbia è citato più di ogni altro (oltre millecinquecento volte). In un linguaggio ancora oggi familiare alle culture del bacino mediterraneo - e non solo - il tatto esprime, così, l'atto creatore, la forza, la tenerezza di Dio e lo slancio dell'uomo, la misericordia, il perdono, la compassione e il desiderio, un desiderio ardente, erotico.
Il Signore tocca la bocca del profeta Geremia, prima di affidargli la sua missione: «Ecco, ti metto le mie parole sulla bocca. Ecco, oggi ti costituisco sopra i popoli e sopra i regni, per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare» (Ger 1,9s.). Un angelo tocca Elia, ormai allo stremo delle forze, e gli ordina di mangiare (1 Re 19,4-6). Un altro angelo, un serafino con in mano un carbone ardente, tocca la bocca di Isaia, cancellando con quel gesto l'iniquità e il peccato di colui che è stato scelto come profeta (Is 6,6). Allo stesso modo, «uno con sembianze di uomo» tocca le labbra di Daniele, prostrato da una lunga penitenza, e gli rende le forze (Dn 10,16-19). Purificare, infondere sicurezza e coraggio è il trasparente significato di questi gesti.
Ma è Osea il profeta del tatto, dell'infinita delicatezza di Dio: «Quando Israele era giovinetto, io l'ho amato e dall'Egitto ho chiamato mio figlio. [...] Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli di amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Os 11,1.3-4). Qui la pedagogia divina si esprime in tutte le modulazioni del tatto, da quella fisica, con le immagini - stupende nella loro quotidianità - del padre che amorevolmente si china sul figlio, a quella spirituale: «Essi non compresero che avevo cura di loro». Sì, perché il tatto è aver cura della persona amata, è sollecitudine amorosa.
Nel Cantico dei Cantici il tatto è carezza, bacio, amplesso, fremito, eros incandescente.
Nel Nuovo Testamento, il verbo 'toccare' ricorre più di trenta volte nei racconti di guarigione dei Sinottici. Gesù stende la mano e tocca un lebbroso: «E subito la sua lebbra scomparve» (Mt 8,1-4). Poi tocca la suocera di Pietro, che «giaceva a letto con la febbre»: ed essa «si alzò e si mise a servirlo» (Mt 8,14s.). Allo stesso modo, guarisce l'emorroissa, che aveva toccato il lembo del suo mantello: «La tua fede ti ha salvata. Va' in pace» (Mc 5,25-34). Prende la mano della figlia di Giairo e dicendo «"Talità kum", che significa "Fanciulla, io ti dico, alzati! "», ridà la vita alla bambina (Mc 5,35-43). «Tutta la folla cercava di toccarlo», nota l'evangelista Luca (6,19), «perché da lui usciva una forza che sanava tutti».
Nei racconti di guarigione, il tatto si fa gesto sacramentale, segno di misericordia, di benevolenza, di tenerezza: testimonianza di ciò che i Padri della chiesa d'Oriente chiamano «divina filantropia», l'amore infinito di Dio per gli uomini. Ma c'è anche un toccare che è segno di poca fede, di incredulità, come nella scena del dubbio di Tommaso (Gv 20,24-29). Perché il tatto non sfugge alla regola degli altri sensi, al contraddittorio richiamo dell'alto e del basso, dello spirituale e del materiale, del cielo e della terra. Se è il più mistico dei sensi, il tatto è anche il più carnale. Nella conciliazione degli opposti (materia e spirito, sacro e profano) che è uno dei tratti distintivi del cristianesimo, nel paradosso di una fede che ama la terra e che guarda costantemente verso il cielo, sta anche il significato spirituale del tatto. Forse più degli altri sensi, esso rinvia alla nostra umanità e alla nostra finitezza, all'argilla o alla carne di cui siamo fatti. Umani, troppo umani, perché esseri dotati di tatto, capaci di soffrire e di godere, al contrario delle fredde, asessuate creature di silicio, degli androidi e dei replicanti di tanti "racconti" di fantascienza.
I cristiani sanno che c'è un vangelo del tatto, così come c'è un vangelo delle mani, una buona novella che si traduce in atti, in segni, in opere, in gesti sacramentali: nella cura dei malati e dei sofferenti, nella difesa della pace e nella lotta per la giustizia. Al tatto, nel suo significato concreto e figurato, è affidata la testimonianza della carità: per infondere coraggio, per consolare e rincuorare.
2. Nella liturgia: il gesto della pace
La liturgia fa un uso sobrio del tatto. Pensiamo ad alcuni gesti: l'acqua che tocca il corpo del battezzato, le unzioni del battesimo, della confermazione, delle ordinazioni e dell'unzione dei malati. Sono gesti ministeriali: si riconosce al ministro della chiesa il diritto di toccare il corpo degli altri. Al tatto appartiene anche il gesto della pace, che si dà con l'abbraccio o stringendo la mano.
Per qualche voce del nostro tempo l'esortazione a darsi un saluto di pace rimane oggi solo un ritualismo che si ripete stancamente tra soggetti tra loro sostanzialmente estranei. A sostegno di questa convinzione si porta l'esempio di quelle persone che salutano il vicino senza guardarlo, o che stringono la mano dell'altro in modo rapido e con debole energia. In questo modo - si afferma - quale 'messaggio' si trasmette?
Per altri, il rito del saluto della pace è un qualcosa di valido solo se viene circoscritto a messe ove sono presenti poche persone, dove ci si conosce tutti, e dove da tempo c'è un impegno a camminare insieme. Altrimenti è meglio non farlo. Perché non significa nulla. È sterile.
Su questo punto il confronto talvolta è vivo, e allora può essere utile fornire qualche elemento di riflessione per 'leggere' il saluto della pace nel modo più evangelico possibile.
Se apriamo le pagine della sacra Scrittura ci accorgiamo subito che il saluto è, prima di tutto, un gesto di accoglienza, poi è segno di corresponsabilità, e infine è messaggio di sostegno.
2.1. Saluto come gesto di accoglienza
Salutare una persona che è appena arrivata serve a trasmettere rassicurazione, benevolenza, simpatia, attenzione e, soprattutto, rispetto. L'accoglienza, quindi, prima ancora di essere un modo concreto per ospitare qualcuno o per dissetarlo, sfamarlo, fornirgli viveri per il viaggio, ecc., è una forma di rispetto. C'è in pratica una sacralità dell'ospite che non è legata al ruolo sociale di quest'ultimo, ma che è vincolata a una visione religiosa dell'altro. Questi è figlio di Dio e come tale è portatore di benedizione.
2.2. Saluto come segno di corresponsabilità
Chi accoglie, solidarizza con l'altro. La solidarietà conduce alla comprensione dell'identità storica di chi è vicino. La comprensione si fa condivisione. La condivisione conduce alla trasmissione di vissuti, di scelte, di ideali. Dal 'trasmettere' in senso 'vitale' si arriva alla comunione. E questa ci accompagna alla corresponsabilità. In tale ambito il saluto è apparentemente un 'segno', ma può essere 'un ponte' per rompere egoismi, privatismi, neutralismi.
2.3. Saluto come messaggio di sostegno
Evidentemente questo saluto indica un'intesa, una rassicurazione, un'attenzione non fuggevole, una conferma, una promessa, un arrivederci a presto.
Non ci sono in pratica solo dei sostegni materiali (pur preziosi in alcuni momenti), ma esistono anche delle sintonie che si costruiscono con riferimento a una disabilità, o a un'età avanzata, o a una gravidanza in arrivo, o a dei bambini che girano guidati dalla loro curiosità, o a una solitudine, o a un lutto, ecc. Il sostegno è tatto di vicinanza, di fedeltà, di porta aperta sulla strada, di capacità a fermarsi anche quando la giornata è scandita da impegni già programmati.
Il sostegno è impregnato di fiat e di preghiera. Perché quando si accoglie qualcuno ogni fiat si fa storia. Si concretizza in un prendere posizione. In uno schierarsi a favore di una parte ben distinta. E 'quel' fiat può affrontare l'oggi di Dio solo se è sorretto dall'interno da una preghiera povera e immediata, continua e viva, semplice e senza confini.
Queste tre considerazioni possono aiutare in qualche modo a rivedere in modo nuovo il saluto della pace durante la celebrazione dell'eucaristia. Non importa se chi ho accanto è una persona non conosciuta. E non importa neanche come si comporta. Ciò che veramente serve è la mia consapevolezza riguardo a un dato essenziale: l'apertura all'altro è un dono gratuito che precede nella liturgia la triplice invocazione: Agnus Dei qui tollit peccata mundi... Non si può chiedere al Signore di aver compassione di noi, di donarci la sua pace, se prima non si accetta di muovere 'quel primo passo'. Non per stabilire in qualche modo un minimo di cordialità. Ma per riconoscere senza esitazioni un'unica fraternità in Dio.
3. Traccia per l'approfondimento
- Potrebbe essere utile rintracciare nel vangelo i luoghi in cui ricorre il verbo 'toccare' sia nel senso attivo (Gesù che tocca) sia nel senso passivo (Gesù che viene toccato: cfr. DESTRO - PESCE, pp. 19-26 e più sopra p. 58).
- Riscoprire le modalità dello scambio di pace all'interno della liturgia eucaristica.
di Antonio Mastantuono
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