Sì, questo è il mistero della vita spirituale: «Cristo in voi, speranza della gloria» (Col 1,27). Attraverso la sequela Cristo non è più esterno a noi, non è solo il maestro da seguire, non è solo colui che è precursore (pròdromos: Eb 6,20) sul cammino verso il Padre, ma è in noi...
Certo, noi seguiamo Cristo, lo incontriamo, e Cristo viene a noi e noi torniamo a lui; ma Cristo è anche presenza continua in noi, nelle nostre profondità, nel nostro cuore. La sua parola accolta e dimorante in noi (cf. Gv 5,38), il suo corpo e il suo sangue che nel metabolismo mistico diventano nostro corpo e nostro sangue (cf. Gv 6,56) rendono il nostro stesso corpo tempio di Dio. Indubbiamente, di questa presenza di Cristo che ci visita, presenza fedele e continua, noi abbiamo percezioni che fatichiamo ad esprimere con parole umane. Come dire che è presenza sempre fedele e nello stesso tempo elusiva? Come dire che egli è in noi — «più intimo della mia intimità» — e tuttavia ci visita come Verbo? Come dire che egli è Io Sposo cui ci doniamo, e nello stesso tempo è lo Sposo che cerchiamo piangendo di nostalgia per il suo volto? Solo il nostro linguaggio contraddittorio, il nostro linguaggio dell'amore può indicare, fare segno. Ma non può spiegare...
Il cristiano dunque non è solo uno che cerca di fare la volontà di Dio, di osservare la sua legge, ma è soprattutto colui che misura la propria qualità di fede nel riconoscere la grazia di Dio in lui. Paolo alla giovane comunità di Corinto chiede di mettersi alla prova: «Esaminate voi stessi se siete nella fede, mettetevi alla prova: non riconoscete che Gesù Cristo abita in voi?» (2Cor 13,5). Aver fede cristiana, per Paolo, significa operare questo riconoscimento, avere questa coscienza, e dunque ciò è essenziale nella vita spirituale. E' vero, molti cristiani non osano neanche pensare a questo, perché nessuno ha loro manifestato e mostrato che questa è la semplice fede cristiana e che questa conoscenza non appartiene ai mistici o a certi cristiani straordinari, ma è «il mistero» ridetto nel Nuovo Testamento in molti modi e da diversi autori. Sì, Cristo vive nel cuore del cristiano (cf. GaI 2,20), piange nel cuore del cristiano, parla nel cuore del cristiano (cf. 2Cor 13,3), e dunque crea la comunione con Dio, il Padre (cf. Gv 14,20 e 17,23).
È evidente che questa «incorporazione nel Cristo» e questa incorporazione di Cristo nel cristiano è la grande opera dello Spirito santo, «l'altro Paraclito» (Gv 14,16), che manifesta come il frutto della sequela sia l'inabitazione divina o il dimorare del cristiano in Dio, cioè l'agape, l'amore. Lo Spirito effuso nei nostri cuori quale carità (cf. Rm 5,5) fa del cristiano un roveto ardente, di cui gli altri uomini possono vedere la figura nell'amore che i cristiani sanno vivere. «Interroga le tue viscere: se sono piene di carità, allora hai lo Spirito di Dio in te»15.
Così si partecipa alla pericoresi trinitaria, al fluire e rifluire dell'amore in un amore totale e vivente, e qui si dilata l'amore verso l'umanità tutta: l'amore con cui il Padre ha amato il Figlio, è nel Figlio ed è in noi, perché proprio il Figlio è in noi (cf. Gv 17,26).
Di questa indicibile realtà non si possono dire parole persuasive: c'è solo da contemplare il martirio che attesta questa possibilità. Il martire, in effetti, quale testimone escatologico testimonia che l'amore vissuto da Cristo è un amore all'estremo, vivibile per grazia anche dal cristiano: la sua morte infatti può essere vissuta come una pasqua, e il dono della vita per i fratelli come una ragione per cui vale la pena dì morire. Non dirà Felicita nell'ora del martirio: «È il Cristo che soffre in me!'16?