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Sabato, 21 Giugno 2008 01:11

Il contenuto dell’evangelizzazione

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Come evangelizzare oggi

Riflessioni di Enzo Bianchi

 

3 - Il contenuto dell’evangelizzazione

a) Cristianesimo come fede

L’inizio dell’evangelizzazione operata da Gesù stesso ci viene raccontato da Marco che ne sintetizza il contenuto in due moniti: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio si è avvicinato: convertitevi e credete nell’evangelo» (Mc 1,15). Chiamata alla conversione e adesione all’evangelo, cioè fede in Gesù Cristo inviato di Dio: è questo il contenuto dell’evangelizzazione.

Perciò rinnovare l’evangelizzazione oggi significa innanzitutto ribadire nel cristianesimo il primato della fede, e questo va fatto con estrema chiarezza. Noi viviamo in un mondo sempre più secolarizzato e tuttavia, paradossalmente, attraversato dal «religioso», cioè da un’inquietudine, da un’aspirazione religiosa diffusa e fragile, che spesso appare più effervescente che profonda.

Proprio per questo si è instaurato un vero e proprio mercato con offerta seducente delle varie vie religiose, in cui è possibile usufruire di un «menu delle religioni». Ma non ci si illuda: questa effervescenza del religioso non è affatto più favorevole al cristianesimo di quanto lo sia la secolarizzazione: si tratta infatti di una religiosità che fugge la responsabilità nella storia, la relazione personale con un Dio personale, la comunione nella confessione di un Dio Padre. Ecco perché è necessario affermare che il cristianesimo è fede, adesione personale al Dio vivente, il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe rivelatoci e spiegatoci da Gesù, suo Figlio e Messia. Qui occorre essere vigilanti: in un mondo in cui ritorna il «religioso» («Religione sì, Cristo, Dio no!» sintetizza J. B. Metz), in un mondo in cui ritorna il sentimento dell’oltre, il sacro, occorre più che mai ribadire, a costo di causare un «urto» con il comune sentire, la necessità di «ripartire da Dio»7, come dice il Card. C. M. Martini, o di ridare il primato alla fede, come diciamo noi di Bose da una decina di anni e andiamo ripetendo nei Qiqajon, le annuali lettere agli amici. Occorre ritrovare la radice della fede come esperienza di un Dio invisibile ma vivente.

«Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?» hanno chiesto alcuni interlocutori a Gesù ed egli ha risposto con estrema limpidità: «L’opera di Dio è questa: credere in colui che egli ha mandato» (Gv 6,28-29). Ma tenere vivo il primato della fede in mezzo agli uomini oggi significa soprattutto non accettare la facile interpretazione del cristianesimo come etica e vigilare perché non avvenga una tale riduzione. Il cristianesimo, certo, comporta un’etica, l’etica evangelica indicata da Gesù ed erede di tutta l’etica veterotestamentaria della legge e dei profeti, ma questa dev’essere sempre vista e percepita come epifania della fede: le opere del cristiano sono sempre opera fidei, perché suscitate, motivate, fondate, ispirate e giudicate dall’adesione al Signore vivente.

Proprio per questo, in un momento in cui i cristiani possono essere apprezzati come «chiesa che serve alla società», come «capaci di fornire un supplemento d’anima» alla polis, essi, senza arroganza e senza diffidenza ma nella consapevolezza del tesoro che indegnamente portano in vasi di creta (cf. 2Cor 4,7), devono vigilare perché il cristianesimo non si riduca a filantropia, a morale o, peggio ancora, a monoteismo di valori su cui può contare la società civile per la sua compattezza e il suo buon funzionamento. Sì, la società civile ha bisogno delle funzioni assolte dalle grandi tradizioni religiose, e la chiesa è tentata di soddisfare questa domanda chiedendo però implicitamente, come contropartita, il riconoscimento della sua presenza pubblica: a questo punto non è impossibile o lontano il rischio che essa degeneri in religione civile8. Quando la polis proclama che «la chiesa serve» e la chiesa afferma: «La società ha bisogno di noi», allora la tentazione dell’alleanza emerge con forza, e la chiesa non risulta più fedele alla missione conferitale dal suo Signore! Il Card. Danneels, nella sua lettera pastorale del 1990, dal significativo titolo «Cristo o l’Acquario», scrive: «Può darsi che non abbiano tutti i torti quelli che accusano i cristiani di oggi di una mancanza di esperienza vissuta, quelli che li accusano di incessanti esortazioni morali... Sì, negli ultimi anni il cristianesimo è stato ridotto a un sistema etico e molti sono stanchi di questo moralismo ostinato». Una chiesa che si presenti come «semplice custode dell’etica» (A. Dupront) è una chiesa obbligata alla secolarizzazione, una chiesa che ha smarrito le sue parole più proprie e che si rivela incapace di dare risposte alla «domanda di senso» che emerge dall’odierna profonda crisi spirituale. L’esperienza religiosa cristiana non corrisponde soltanto a un impegno nel mondo ma a un accesso alla relazione personale, amorosa con Cristo grazie alla rivelazione di Dio contenuta nelle sante Scritture. La vita spirituale dunque non può essere minimizzata o essere trasformata in etica sociale, in perfezione ed equilibrio personale. Un Dio vivo e vero non è «l’equivalente simbolico di una relazione altruista»9.

Il cristianesimo, finite le persecuzioni, nell’epoca costantiniana, si accorse di essere diventato civiltà o religione civile: nonostante il regime della cristianità sia ormai finito, purtroppo c’è ancora chi invoca per il cristianesimo una tale funzione nella società.

 

b) Non tacere sulle questioni ultime

È indubbio che l’evangelizzazione fatta da Gesù teneva sempre vivo e dominante l’orizzonte escatologico, a tal punto da essere giudicata una predicazione apocalittica. E altrettanto indubbio, purtroppo, che la predicazione attuale, la catechesi e la presentazione del cristianesimo oggi generalmente attenuano e scolorano questa valenza escatologica. Si dice, più per vezzo che non per manifestare una dimensione essenziale della vita cristiana, che la chiesa è nella storia «straniera e pellegrina» verso una sola patria, quella celeste del regno di Dio e della vita eterna, ma poi in realtà, nella concreta vita ecclesiale, tutto pare determinato da cose certamente buone, ma che devono essere «visibili» e che non coincidono affatto con quelle «invisibili che sono eterne» (2Cor 4,18). Per questo non si chiede più al cristiano di vigilare ogni giorno e ogni notte sapendo che il Signore viene; così il tempo è vissuto come un aeternum continuum e il futuro come un tempo in cui tutto può accadere ma in cui difficilmente ci sarà l’apparizione della gloria del Signore: un futuro in cui non c’è nessun adventus !

Questa mancanza di memoria escatologica ha causato il mutismo ecclesiale sulle realtà ultime: senza questo orizzonte, infatti, la morte e l’aldilà diventano temi temibili che si è tentati di rimuovere o su cui non si sa che dire.

Eppure queste domande sulla morte, sull’aldilà, sulla possibilità di un’altra vita sono ineludibili: c’è una certezza nella coscienza di ogni uomo, la morte, e questa è vissuta da tutti sotto forma di interrogativo se non di angoscia. Anche se gli uomini di oggi cercano, abbagliati dalla dominante tecnica, di attenuare, nascondere o rimuovere questa inquietudine, in realtà non evitano questa domanda neanche in ambienti segnati da indifferenza religiosa. Ed è qui che noi cristiani dobbiamo mostrare una coscienza limpida: non si tratta di aspettare gli uomini alla soglia della porta stretta del male e della morte, si tratta semplicemente di rendere ragione della speranza che è in noi (cf. 1Pt 3,15), di mostrare che abbiamo fede in Cristo non solo in questa vita, altrimenti saremmo da compiangere più di tutti gli uomini (cf. 1Cor 15,19). Il cristiano crede in Cristo che è risorto dai morti e ha vinto la morte per tutti e per sempre: la Pasqua non è forse annuncio di Cristo che calpesta la morte con la sua morte e svuota l’inferno dando a tutti la possibilità della vita eterna? L’annuncio della salvezza deve indicare dunque la venuta piena del Regno, la vita eterna, che è vita per sempre in Dio, la fine del peccato e del male, la festa escatologica!

C’è da annunciare un compimento del tempo avvenuto in Gesù Cristo e un orientamento verso la «fine» di tutte le cose: il Signore ritorna nella gloria per portare a pienezza la salvezza ora sperata; allora ci saranno finalmente la rivelazione e il compimento della giustizia e della verità per tutti coloro che nella storia sono stati vittime, sono stati oppressi e afflitti, sono stati dei «senza voce». Tutti coloro che nel patire, nell’oppressione, nella morte sono stati assimilati all’Agnello vittima, saranno insieme a lui - divenuto ormai Pastore - ritti, vittoriosi, viventi nella gloria.

Gli uomini in verità chiedono a noi cristiani di giustificare la nostra fede soprattutto su questo tema dell’escatologia, mostrando loro la nostra esperienza della fedeltà delle promesse di Dio. Solo se attendiamo il Signore e desideriamo la vita eterna essi potranno interrogarci sulla nostra speranza e aprirsi all’eventuale dono di Dio: la fede. Cristo è la nostra speranza (cf. 1Tm 1,1) e questa formula di fede «è la forza della nostra vita», scriveva Dietrich Bonhoeffer10, e per Cristo dobbiamo mostrare di saper anche morire, convinti che morendo per lui saremo sempre con lui nella vita eterna (cf. Fil 1,21-23; 1Ts 4,13-18). Sì, perché solo chi ha un motivo per morire, ha anche un motivo per vivere!

E un caso che l’ultimo libro di von Balthasar, uno dei più grandi teologi di questo tempo, abbia come titolo Sperare per tutti? «Credidi, propter quod locutus sum» (Sal 116 [115],1O; 2Cor 4,13). Noi crediamo alla vita eterna e per questo la annunciamo.

 

c) Annunciare la remissione dei peccati

Annunciare la salvezza in Cristo - cioè la salvezza totale, definitiva, piena, la vita eterna del Regno, la vita in Dio per sempre - non significa dimenticare l’annuncio della salvezza portatoci dall’evangelo, dal Cristo Signore, qui e ora, durante il cammino della nostra vita11.

Dobbiamo domandarci: quale esperienza di salvezza ci è dato di fare qui e ora, e quindi quale salvezza, quale redenzione possiamo annunciare attraverso l’evangelizzazione agli uomini mentre sono in vita, mentre sono sulla terra? Certo, nell’oggi l’uomo può recepire la redenzione in modo solo frammentario e incompleto, ma, «possedendo le primizie dello Spirito» (Rm 8,23), può sperimentare la remissione dei peccati, la riconciliazione con Dio. Non dovremmo mai dimenticare che tra i mandati dell’evangelizzazione consegnati dal Cristo risorto c’è l’annuncio della remissione dei peccati. L’evangelizzazione è predicazione della conversione e della remissione dei peccati a tutte le genti (cf. Lc 24,47); e nella consegna dello Spirito ai discepoli la promessa del Risorto è: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi» (Gv 20,23). Anche nell’istituzione eucaristica l’accento cade sul sangue versato «per la remissione dei peccati» (Mt 26,28), perché colui che si è dato interamente nelle mani dei peccatori è quel Figlio dell’uomo che è venuto sulla terra con «il potere di rimettere i peccati» (Mc 2,10).

Dunque per il cristiano «la conoscenza della salvezza», intesa come esperienza di redenzione, sta «nella remissione dei peccati» (Lc 1,77), e Paolo chiama questo evento salvifico «riconciliazione con Dio» (cf. 2Cor 5,17-20), azione operata da Dio stesso mentre l’uomo era peccatore e nemico (cf. Rm 5,6-10).

Il cristiano dunque diventa «una nuova creatura» e sempre può ritornare al mistero santificante del battesimo tramite questa esperienza di misericordia e di perdono che libera dal peccato e dal dominio del male.

Ebbene, io credo che la remissione dei peccati debba costituire la parte centrale dell’evangelizzazione e, se è vero che oggi c’è mancanza del senso del peccato, è anche perché non si è fatta sperimentare in modo sufficiente la remissione dei peccati che è cancellazione dei peccati da parte di Dio.

Per cercare il Signore, per discernere dove incontrarlo, per seguirlo ovunque vada, occorre che qualcuno lo indichi come l’Agnello che porta e cancella il peccato del mondo (cf. Gv 1,29.35-42), altrimenti si segue un maestro, un profeta, ma non il Salvatore, il Figlio dell’uomo e Figlio di Dio (cf. Lc 5,1-11).Se evangelizzazione è testimonianza dell’evento pasquale, della vittoria del Risorto sulla morte, allora la remissione dei peccati è la più efficace narrazione possibile di tale vittoria oggi, nel quotidiano della nostra vita.

 

segue "4 -La forma dell'evangelizzazione"

Letto 4272 volte Ultima modifica il Martedì, 07 Dicembre 2010 15:07

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