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Domenica, 27 Gennaio 2008 17:09

La contemplazione in Francesco e Chiara D'Assisi - Loro scritti

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di Enzo Bianchi

della comunità di Bose

 

Meditazione per i ministri generali e provinciali dei tre ordini francescani

 

Cari fratelli e care sorelle, è con gioia che ho accettato di essere qui con voi per narrarci le «cose del Padre» e confrontarci su di esse, e vi ringrazio della chiamata e della fiducia che mi accordate, ma è anche con un po’ di timore che ho accettato. Non sono appartenente alla grande famiglia religiosa francescana. Sono uno che tenta di vivere una sequela radicale del Signore Gesù, sono un monaco che pensa di aver ricevuto il mantello dalla grande tradizione monastica, ma che è consapevole, come tutti dovrebbero esserlo, che dopo Francesco e Chiara non è più possibile vivere la vita monastica come molti l’hanno vissuta prima.

 È per il grande amore che nutro da sempre verso Chiara e Francesco che mi trovo qui, nonostante il timore che provo dinanzi a voi, autentici figli di Francesco e Chiara, e vi supplico di perdonarmi, se mai arrivassi a ferire qualcuno di voi.

Parlare della contemplazione dovrebbe essere un parlare delle «cose del Padre, Signore Altissimo e buono», e quindi un parlare in obbedienza assoluta al vangelo e anche in ascolto di Francesco e di Chiara.

 

Questo l’itinerario che vi propongo:

1) Una chiarificazione del termine «contemplazione»

2) Francesco e la contemplazione

3) Chiara e la contemplazione

4) Quale contemplazione oggi per i francescani?

5) Loro scritti

 

  1. Una chiarificazione del termine «contemplazione»

Purtroppo il termine «contemplazione» è un termine molto ambiguo. Lo è sempre stato da quando la tradizione cristiana lo ha assunto dalla cultura filosofica greca (il termine è theorìa) e lo ha sostituito a poco a poco alla parola propriamente neotestamentaria e soprattutto paolina di «conoscenza» o «sovraconoscenza» (gnôsis o, meglio, epìgnosis)1.

Ma oggi su questa parola (gnôsis, «conoscenza») dobbiamo essere ancora più vigilanti, perché di essa si sono appropriate correnti spirituali estranee al cristianesimo, correnti esoteriche e mistiche….. Oggi infatti, quando la parola d’ordine o l’alternativa, come ricordava recentemente J. B. Metz, è: «Religione, sì; Dio, Cristo no!», occorre più che mai specificare i termini, e nel nostro caso il termine «contemplazione», perché non si finisca per mescolare la contemplazione cristiana con atteggiamenti e ricerche della religione dionisiaca oggi dilagante, del nuovo politeismo dominante nella postmodernità: religione, questa, il cui profeta non è più né un Gesù manipolato, né Marx, ma, per indicare un nome con valore emblematico, Nietzsche.

Il termine theorìa, non lo si dovrebbe mai dimenticare, è un hapax nell’intero corpo delle sacre Scritture (A.T. nel greco dei LXX e N.T.) e appare solo in Lc 23,48 per designare la theorìa, la contemplazione in cui domina Gesù il Crocifisso: «Tutta la gente che era accorsa a quello spettacolo (theorìa), ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto»2.

Ecco eventualmente la contemplazione cristiana è «vedere e meditare», è «vedere nella storia» concretamente e meditarne la parola, l’evento, e soprattutto l’evento e la parola riguardanti Gesù, il Crocifisso, re dei giudei!

Questo evento e questa parola del Signore Gesù sono una grazia, sono il dono della conoscenza, sono la sovraconoscenza (epìgnosis), e non sono mai un termine cui si può giungere con le proprie forze, le proprie capacità intellettuali per partecipare all’unione con il divino, come intendeva con theorìa la scuola platonica.

E stato il cristianesimo ellenistico che ha introdotto il termine theorìa, termine molto pretenzioso ma altrettanto ambiguo perché, anche quando a prezzo di una faticosa reinterpretazione in chiave cristiana ha cercato di raggiungere il tema biblico della conoscenza, ha finito per paralizzarlo e falsarlo3. Il termine theorìa, assente nei padri apostolici, è entrato nella letteratura cristiana con Clemente Alessandrino, si è imposto con Origene, è diventato prevalente in Evagrio e poi nello Pseudo-Dionigi, e infine nel secondo millennio latino è diventato addirittura un equivalente di vita monastica, chiamata da tutti vita contemplativa.

La contemplazione cristiana, tuttavia, ormai passa attraverso la contemplazione all’ombra della croce: «Noi abbiamo contemplato la sua gloria» (Gv 1,14) nel Cristo crocifisso, nel Cristo patiens, colui che nella passione fino alla croce è stato glorificato dal Padre perché la sua gloria era gloria dell’amore fino alla fine, gloria del dare la vita per gli altri. Contemplazione nel cristianesimo è dunque seguire quel percorso «kenotico» del Figlio di Dio fino alla croce, non restando lì a vedere «come sarebbero andate a finire le cose» (o télos: Mt 26,58), ma nel coinvolgimento con colui che in croce diventava theorìa, spettacolo per le folle, che venivano invitate così a battersi il petto (cf. Le 23,48). Contemplare, nel cristianesimo, è prendere la croce e seguire Gesù! Quindi essere «visti» prima di vedere, essere raggiunti da Cristo prima di raggiungerlo4...

E’ un capovolgimento della contemplazione del platonismo di Filone e di Plotino, perché il perfetto conoscere significa anzitutto essere conosciuti e amati da chi è Amante (non solo l’Uno amabile!), e poi conoscere e amare! Per il pensiero ellenico la contemplazione significa non la conoscenza (da’at) amorosa e penetrante ebraica, ma un’esperienza di coincidenza e di unione con l’Uno attraverso il noûs, l’intelletto.

Vedere e meditare il Crocifisso o, meglio ancora, per usare i termini del N. T., conoscere, giungere per dono alla conoscenza del Crocifisso: questa è la via cristiana per eccellenza. Via in cui «tutto è reputato una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza (gnôsis) di Cristo Gesù, il Signore ... e tutto è ritenuto spazzatura al fine di guadagnare Cristo e di essere trovati in lui» (Fil 3,8-9). Via in cui si è in grado di «comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza» (Ef 3,18-19).

Questa conoscenza però è data per grazia, è fatta brillare nei nostri cuori da Dio (cf. 2Cor 4,6): ad essa si perviene solo attraverso le energie dello Spirito santo (cf. Ef 1,17), e mai è qualcosa cui si perviene con l’ascesi, con la disciplina, con le proprie forze (cf. anche Fil 1,9; Col 2,2-3; ecc.). La contemplazione di Dio nel cristianesimo è possibile solo se Dio si offre alla contemplazione; non è un itinerario in salita che, una volta percorso, permette di vedere Dio. Anche qui è sempre questione di grazia preveniente, di Spirito santo discendente...

Comunque la parola theorìa, diventata contemplatio etimologicamente da cum e templum, «guardare, osservare nei limiti del tempio, dello spazio celeste» (campo di osservazione delimitato dalla verga dell’augure), anche se il vocabolario spirituale non è fissato in maniera uniforme ed è vario a seconda delle tradizioni spirituali e degli autori, dovrebbe specificare, nello spazio cristiano, un vedere nella fede, non nella visione, un vedere le realtà spirituali per dono dello Spirito santo e non per capacità umana, un conoscere il Signore con una conoscenza penetrante e amorosa!

Contemplazione non è dunque un fine della vita cristiana autentica, ma un mezzo per partecipare alla vita di Dio, all’alleanza con lui, un mezzo in vista dell’agape, che resta l’unico télos e skopòs della vita cristiana. Ecco perché è inutile, anzi carica di pericoli, una dottrina della contemplazione che distingua contemplazione acquisita e contemplazione mistica, perché entrambe, se mai è possibile distinguerle, sono date per grazia, cioè dallo Spirito santo, e mai sono frutto e merito dell’uomo. Questi di fronte all’azione di Dio può solo e sempre predisporre la condizione ma mai causare e meritare un dono, una venuta... Ecco perché contemplazione, se vogliamo mantenere il termine, è innanzitutto conoscenza (gnôsis e epìgnosis) del Signore, «adesione a Dio con la mente e con il cuore» (così la definisce in modo povero il decreto Perfectae caritatis 5) ed è un elemento essenziale della vita cristiana. Essa non è un proprium di qualcuno o di una porzione della chiesa, ma elemento costitutivo di ogni vocazione.

So com’è difficile scalzare dei concetti tanto familiari quanto intrinsecamente ambigui e sovente antievangelici, ma stiamo attenti, anche se maestri spirituali venerabili e autorevoli ancora viventi propugnano accezioni della contemplazione sovente non solo poco aderenti alla fede cristiana, ma anche fittizie5...

Già il concilio, in una stagione ecclesiale purtroppo non ancora matura per affrontare questo tema in modo libero e critico verso una certa tradizione spirituale, insisteva: «È necessario che i membri di qualsiasi istituto religioso, avendo di mira unicamente e soprattutto Dio, uniscano la contemplazione, attraverso la quale aderiscono a Dio con la mente e il cuore, e l’ardore apostolico» (Perfectae caritatis 5).

Ma l’ambiguità di questa parola contemplazione è stata a volte rovinosa (cosa oggi sufficientemente riconosciuta) soprattutto in alcune sue applicazioni a forme e tipi della vita religiosa, creando spazi e categorie fittizi, tra cui la divisione o distinzione in vita attiva e vita contemplativa interpretando il testo di Luca 10,38-42 (l’ospitalità di Gesù da parte di Marta e Maria) come la fondazione di due stati, due condizioni di vita religiosa. In questa applicazione si è addirittura giunti a contrapporre vita monastica o contemplativa a vita attiva, quella degli altri religiosi, andando contro tutta la testimonianza della storia. Chiedete a un monaco con una certa coscienza della vocazione nell’oggi di Dio e vi dirà che non si riconosce nella definizione di contemplativo, così come io non mi riconoscerei e come tutti gli scritti monastici ribadiscono dal concilio in poi6. La contemplazione non può in nessun caso essere uno «stato di vita», sotto pena di grave squilibrio (Lev Gillet), e i monaci ignorano allegramente la distinzione tra vita contemplativa e vita attiva (P. M, Régamey). Un teologo non sospetto come J.-H. Nicolas ribadisce che se il vivere e il morire con Cristo appartengono a ogni cristiano, allora non c’è più nulla che distanzi un cristiano dall’altro in modo netto nella chiesa7. Se la contemplazione è attività efficace perché spirituale, cioè accompagnata dalle energie dello Spirito santo, e se l’azione è guidata dallo Spirito santo, dove sta la divisione? Come potrebbe un cristiano collocarsi in uno spazio determinato dall’una e non dall’altra? E non si ricorra alla distinzione tra fine generale, santificazione mediante la vita evangelica e i tre voti (carità verso Dio), e fine specifico (carità verso il prossimo), perché questa è fittizia... «Chi oggi oserebbe dirsi contemplativo o specialista della contemplazione? Perché in realtà ci sono più contemplativi fuori dei monasteri che all’interno»8.

Uno è il fine di tutta la vita cristiana, l’agape, la carità; uno è il fine di ogni ministero ecclesiale, vita religiosa o vita apostolica che sia: infatti entrambe offrono a Dio un culto spirituale in attesa della venuta del Signore nella gloria. Sia l’apostolo che fa culto (latreùo) nello spirito a Dio annunciando il vangelo del Figlio suo (cf. Rm 1,9) nel mondo, l’apostolo che è «ministro (leitourgòs) di Gesù Cristo per le genti esercitando il servizio sacro del vangelo di Dio perché le genti diventino offerta gradita, santificata dallo Spirito santo» (Rm 15,16), sia i religiosi che tra i cristiani offrono i loro corpi in sacrificio (thysìa) vivente, santo e gradito a Dio in un culto spirituale (loghikè latreìa: Rm 12,1) e offrono le loro preghiere per tutti gli uomini, devono tendere a quest’unico fine infinitamente più importante di tutti i mezzi: la carità. Ma la carità senza l’attesa del Signore, senza lo sguardo fisso su Gesù, finisce inevitabilmente per raffreddarsi (cf. Mt 24,12).

Tutti dunque devono sentirsi chiamati ad attendere e affrettare la venuta del Signore con una vita santa (cf. 2Pt 3,11-12), con la contemplazione e con l’azione, per vivere fin da ora nello spazio di quella carità che è la vita stessa di Dio. Nella chiesa, oggi, di questo si ha coscienza e si dice ormai che la vita religiosa è inseparabilmente attiva e contemplativa9. Nessuna dicotomia, nessuno spazio a una «terza via detta mista», ma un’unica vocazione religiosa con un solo fine, la carità, la quale richiede da luogo a luogo, da tempo a tempo, da persona a persona realizzazioni diverse!

Si abbia il coraggio di dire la verità: quando un religioso dice: «Io non sono un contemplativo», non fa che avanzare scuse per la sua misera vita di preghiera o per la sua assente vita interiore; e quando un monaco dice: «Io non sono un religioso di vita attiva», cerca solo di coprire la sua inerzia, la sua pigrizia, la sua mancanza di sollecitudine per i fratelli e la chiesa...

Neanche le monache di clausura possono dirsi contemplative, perché se non lavorano, se non vivono l’operosa carità quotidiana, non sono autentiche monache cristiane... Certo, si sono inventate tante formule: contemplativi per i monaci, contemplata tradentes per i domenicani, in actione contemplativi per i gesuiti, e oggi, per voi, contemplativi sulle strade insieme ai piccoli fratelli e alle piccole sorelle di Charles de Foucauld... Ma queste formule non veicolano più nulla e di fatto dissimulano uno spirito di casta e un’ossessione dell’identità, cercata non in Cristo ma in se stessi. Come faceva Teofilo di Antiochia, occorrerebbe fare oggi con i religiosi: «Dimmi come vivi e ti dirò chi sei»10.

In realtà l’istanza contemplativa è essenziale nella vita di ogni cristiano e di ogni religioso. Per crescere nella gnosi di Cristo e nella conoscenza di Dio occorre tutto ciò che questa parola comporta: l’assiduità con la Parola di Dio, la preghiera, la veglia, la compunzione, il silenzio. Sono tutti mezzi necessari per crescere in quella conoscenza del Signore che sola apre la via dell’agape, dell’amore. Il cammino spirituale, animato cioè dallo Spirito, resta per ogni cristiano e ogni religioso un itinerario dall’ascolto alla fede, e dalla fede, attraverso una sempre maggiore conoscenza del Signore, alla speranza e alla carità... Passerà la fede, passerà la speranza, resterà la carità (cf. 1Cor 13,13), «perché Dio è carità» (1Gv 4,8).

Quanto al Codice di diritto canonico, non dimentico che parla di «istituti integralmente ordinati alla vita contemplativa» (667, 674), ma questa è solo una comodità di linguaggio che prolunga l’ambiguità... Certo, il Codice non intende qui la contemplazione come evento spirituale, teologico, su cui il diritto non ha nessuna presa, ma intende una vita canonicamente contemplativa attraverso la clausura... Non sto qui a commentare, perché questo linguaggio da se stesso appare insufficiente e sviante!

 

Letto 3496 volte Ultima modifica il Venerdì, 15 Marzo 2013 17:55

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