Ecumene

Attenzione

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Lunedì, 02 Giugno 2008 13:19

DEBOLEZZA DELLA TRADIZIONE

Non mi piace l’Angelus domenicale del Papa proiettato sui maxi-schermi di piazza Duomo, a Milano, oltretutto su iniziativa unilaterale del sindaco Letizia Moratti, che non ha ritenuto neppure opportuno interpellare l’arcivescovo di quella cattedrale. Perché la sua è una manifestazione politica, che ha ben poco a che fare con la devozione.
Parto da un dettaglio marginale — l’esempio milanese — per dirvi il senso di falsità che avverto in tutta la disfida dell’Università La Sapienza, e il male che sta facendo alla chiesa stessa per prima. Non mi piace il clima di lesa maestà costruito intorno a Benedetto XVI. Colui del quale i credenti cattolici lo riconoscono vicario in terra, Gesù di Nazareth, affrontò rischi maggiori di qualche sberleffo goliardico o di una contestazione anticlericale.
Né l’Italia né il mondo hanno bisogno oggi di una chiesa trionfatrice attraverso l’esibizione di forza numerica, come l’ha convocata in Piazza San Pietro il cardinale Ruini, quasi occorresse lavare un’onta subita. Posso dire, anche se non sono battezzato, che ci vedo assai poco di evangelico in questo abusare del ruolo ecclesiale in chiave ossequiosa e gerarchica?
L’Avvenire, che ha letteralmente nascosto in pagina interna, tra mille eufemismi, la giornata mondiale di penitenza saggiamente promossa dal Papa per chiedere scusa dello scandalo dei preti pedofili, esulta quotidianamente della frattura inferta allo schieramento laico. È vero. La novità è che una parte dell’intellighenzia laica converge in materia di difesa della vita e di morale familiare sul punto di vista della dottrina cattolica. Non solo. Un sistema politico frantumato guarda con appetito a quel 5% di voti che la Conferenza episcopale italiana (Cei) può ancora spostare di qua o di là: scatenandosi in un inseguimento della porpora, a prescindere da alcuna coerenza nella fede o tanto meno nella condotta di vita.
Temo che la componente oggi egemone nella Cei abbia accolto quella frattura tra l’intellighenzia laica e l’ossequio politico neoclericale come un dono della provvidenza. Poco importandole l’autenticità del senso religioso, e relegando in secondo piano la fede come testimonianza.
Per questo, credo che il ritorno alla tradizione, fino a questa specie di nostalgia per il Papa-re, manifesti una debolezza e non certamente una forza rinnovata della chiesa.
Non mi turba affatto lo spazio recuperato in tutto il mondo dalla religione nel discorso pubblico, e anche nell’argomentare politico. Ma allora dico ai miei amici cattolici impegnati nel sociale e in politica: cosa aspettate a protestare contro questo modo strumentale di intendere la religione? Non è forse il contrario della carità cristiana? Di che cosa avete paura? Perché lo dite solo sottovoce?


di Gad Lerner
Nigrizia – febbraio 2008
Lunedì, 02 Giugno 2008 13:17

NEWS dal Mondo

INDIA - «La persecuzione ci rende più saldi nella fede»

Nell’Andhra Pradesh i cristiani subiscono frequenti violenze con l’accusa di volere convertire gli indù. L’11 aprile scorso, circa 70 estremisti indù hanno assalito alcuni cristiani evangelici nel distretto di Chittor, hanno strappato loro di mano i testi cristiani e li hanno bruciati. Il 5 aprile a Hyderabad la polizia ha interrogato 27 turisti americani appartenenti al gruppo Youth Wing Mission. Sono stati accusati di aver «cercato di attirare i bambini» e di avere invitato a pregare per il bene degli abitanti, dice B. Sumathi, vice Commissario della polizia locale; ma non ci sono state conseguenze perché «non si è potuto provare che abbiano svolto attività di evangelizzazione». Mons. Marampudi Joji, Arcivescovo di Hyderabad, racconta che «nell’Andhra Pradesh i cristiani sono considerati con sospetto, gli estremisti [indù] li intimidiscono e chiedono loro ragione di qualsiasi cosa fanno, con il pretesto che vogliano convertire gli altri».
(ASIA NEWS)


QATAR - La prima chiesa cattolica a Doha dopo 14 secoli

Sono iniziati i lavori di costruzione della prima chiesa cattolica del Qatar, che dopo 14 secoli ha ottenuto il permesso di riaprire il suo primo luogo di culto nel Paese. L’edificio  - nella parte meridionale della capitale - non sarà aperto al pubblico, ma servirà a far pregare insieme la comunità cattolica del Qatar, composta per la maggior parte da stranieri. Il futuro parroco, P. Tom Veneration, racconta: «Dopo oltre 20 anni di richieste formali, il Governo ha concesso alle confessioni cristiane i terreni per costruire i propri edifici di culto. Ai cattolici è stato assegnato il lotto più grande, perché abbiamo un’antica presenza nel Paese e perché la nostra comunità, oltre 100mila fedeli, è la più grande». Il terreno «è stato concesso alla Chiesa dall’emiro Amir Hamad bin Khalifa Al Thani, che nel corso degli ultimi anni ha portato avanti una politica di dialogo interreligioso pur mantenendo la legge che vieta alla popolazione, per la maggior parte di fede musulmana, di convertirsi ad altre fedi. Questo è l’unico grande limite alla nostra opera pastorale, ma dobbiamo adeguarci». La chiesa sarà dedicata a Nostra Signora del Rosario.
La Chiesa è stata inaugurata dal Cardinale Yvan Dias il 5.5.2008.
(ASIANEWS)


PAKISTAN – Minacce di morte a un Vescovo e a due musulmani, impegnati nel dialogo

Il Vescovo cattolico di Faisalahad e due musulmani - un giornalista e uno studioso - hanno ricevuto minacce di morte per aver partecipato a un incontro interreligioso in una madrassah della zona alcuni mesi fa. Mons. Joseph Coutts, a guida della diocesi, ha assicurato: «Non ci faremo spaventare da queste intimidazioni, continueremo con le nostre attività interreligiose a favore dell’armonia sociale e della pace del Paese». Negli ultimi anni Faisalabad, la terza città del Pakistan, ha vissuto un positivo sviluppo delle relazioni tra cristiani e musulmani, anche grazie all’impegno in prima persona di Mons. Coutts. Ma vi sono anche numerose Ong, che lavorano insieme per promuovere il dialogo e il rispetto reciproco.
(ASIANEWS)


KENYA - Nonostante la ripresa economica, persiste la miseria

Quattro kenyoti su 10 ancora vivono nella più disperata miseria nonostante la recente ripresa economica che lo scorso anno ha registrato un tasso di crescita del 5,8% nel Paese. Secondo un’indagine del Governo, il 46% (16,5 dei 35,5 milioni di abitanti del Kenya) vive sotto la soglia della povertà, anche se molti sono in condizioni migliori rispetto a sei anni fa. Il rapporto rivela che circa 19 milioni di kenyoti vivono con più di un dollaro al giorno, abbastanza per la loro sopravvivenza quotidiana nelle città e nelle aree rurali. La ricerca si riferisce alle Otto province del Paese: la meno povera risulta essere Nairobi, con il 21,3 % nel 2006 rispetto al 52,6% del 2000. Seguono le province centrali, dove il livello di povertà è passato dal 35,3% al 30,4%. Tuttavia, nei grandi slums della città, come Kibera e Mathare, la situazione non è cambiata molto.
(AGENZIA FIDES)


CONGO - Si lavora per avere giovani impegnati

Aiutare la popolazione congolese a essere più vigile sull’amministrazione del Paese e sul rispetto dello stato di diritto: è l’obiettivo che si sono prefissate 47 commissioni diocesane di “Giustizia e Pace” al termine di un incontro nella capitale Kinshasa.
Sotto la guida dei Vescovi delle rispettive diocesi, gli organismi religiosi hanno concordato di lavorare «per coinvolgere i congolesi con azioni destinate a promuovere la riconciliazione e il buon governo, in particolare nella sensibilizzazione dei più giovani», ha detto Suor Marie-Bernard Alima, Segretaria della Commissione nazionale di Giustizia e Pace.
«Creeremo una commissione ad hoc per i giovani, destinata soprattutto ai ragazzi che lavorano nelle miniere della regione del Kasai», ha annunciato Padre Henri Tshipamba della commissione del Kananga (Kasai Occidentale). Padre Jean-PauL Lokutu, responsabile dell’organismo a Inongo (Kinshasa), ha espresso la sua soddisfazione per la determinazione dei Vescovi congolesi a «lavorare sul terreno per una mistica dell’impegno, passando dalle parole ai fatti».
(AGENZIA MISNA)


RUSSIA - In russo il Compendio del Catechismo cattolico

La versione russa del Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica - richiesto da Papa Giovanni Paolo II - è stata presentata nella Cattedrale dell’immacolata Concezione di Mosca. Questa nuova pubblicazione rappresenta «una fonte che trasmette in modo chiaro e preciso l’essenza della dottrina cattolica, dalla quale partire per crearsi un’idea coerente e autentica della fede e della moralità. Potrà servire come strumento di evangelizzazione e fortificazione della fede cristiana e contribuire alla cooperazione tra Chiesa cattolica e ortodossa nel divulgare e proteggere i valori cristiani» . Il Catechismo della Chiesa cattolica è stato pubblicato nel 1992 .
(ASIA NEWS)


BURKINA FASO – Sostenere l’avvio di progetti imprenditoriali

Con il dono di un impianto pilota per la produzione di elettricità da fotovoltaico al villaggio di Tìedin nel Burkina Faso - destinato a sostenere l’approvvigionamento energetico di microimprese - è cominciato un programma internazionale di interventi per la cooperazione allo sviluppo che vede tra i protagonisti la Chiesa cattolica, il Ministero degli Esteri, imprese private, fondazioni no-profit e istituti di credito. L’iniziativa è stata presentata durante il Convegno “Energia per le microimprese e microcredito: nuova frontiera dello sviluppo in aree povere del mondo”, svoltosi lo scorso 9 marzo alla Rocca Albornoz di Narni (TR) L’idea dell’iniziativa è quella di sostenere l’avvio di progetti imprenditoriali nei Paesi del Sud del mondo, attraverso il microcredito (l’inventore del sistema, il bengalese Muhammad Yunus, noto come “il banchiere dei poveri”, è stato insignito del Nobel per la pace) e con interventi di cooperazione allo sviluppo, che abbiano come fulcro le Missioni cattoliche. Si comincerà con il Sahel, un‘area a forte tasso di desertificazione, e con il villaggio di Tiedin, a 100 km da Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso. Obiettivo del progetto “microimprese”, elaborato dal Comitato di Cattolici per una Civiltà dell’Amore, è ridurre la forbice tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri, realizzando nei territori del Sud del mondo opportunità di crescita e di sviluppo delle popolazioni locali.
(AGENZIA MISNA)


CITTÀ DEL VATICANO - «Nuove minacce alla dignità della donna»

«E’ inaccettabile che in un’epoca di accresciuta considerazione per tutte le questioni attinenti alla donna si affermino nuove forme di violenza e di schiavitù»: Lo ha detto l’osservatore permanente del Vaticano presso l’Onu, Mons. Celestino Migliore, intervenuto alla 51a sessione della Commissione sulla condizione della donna. Malgrado il principio dell’uguaglianza sia «quasi universalmente riconosciuto», per Mons. Migliore è necessario affrontare «nuove sfide, nuove forme di povertà e nuove forme di svantaggio sociale, ma soprattutto si sono presentate nuove minacce alla vita e alla dignità della donna». Il delegato vaticano ha detto che «occorre andare alle radici del fenomeno e capire il perché di questa violenza». «Persistono pregiudizi culturali verso la donna, ancora considerata in qualche modo inferiore all’uomo, una visione dei rapporti umani improntata prevalentemente alla produttività, un clima diffuso che favorisce il ricorso alla forza nella soluzione dei piccoli e grandi problemi dell’esistenza». Per questo il fenomeno deve essere considerato «nel contesto dei diritti umani, diritti da riconoscere senza ambiguità e da far rispettare con rigore legale. Tuttavia se il problema è anzitutto culturale e relazionale, come crediamo, i meccanismi propri dei diritti umani sono efficaci solo nella misura in cui si inseriscono in un’opera di sensibilizzazione e di educazione ai valori della femminilità».
(AGENZIA MISNA)


INDIA - APPROFONDIRE LA SPIRITUALITÀ LAICALE

Occorre approfondire nella Chiesa indiana la spiritualità laicale: lo afferma un messaggio della Commissione per il laicato della Conferenza Episcopale dell’India, diffuso al termine di un incontro in cui si è esaminato il ruolo e le sfide del laicato cattolico nella comunità indiana. La Commissione, formata da 30 membri, ha notato che, nonostante le indicazioni del Concilio Vaticano II in India la maggioranza dei fedeli laici resta ancora spettatrice, piuttosto che attiva partecipante delle quotidiane attività ecclesiali. «I laici devono essere agenti di trasformazione sociale, per creare una società più umana e fraterna», scrive la Commissione. Per questo si segnala l’urgenza di una spiritualità, che aiuti a formare il laicato cattolico per il servizio pastorale e per una testimonianza più incisiva nella società.

(AGENZIA-FIDES)


CINA - Rinasce il buddhismo, con oltre 100 milioni di credenti

Rinasce il buddhismo in Cina, con oltre 100 milioni di credenti. L’antica fede è riscoperta come sostegno dai giovani che per anni hanno rincorso il successo personale, mentre sempre più persone entrano nei templi per «migliorare la propria anima». La Cina attraversa un vero risveglio religioso: una recente indagine dell’Università Normale della Cina orientale stima che il 31,4% di chi ha più di 16 anni pratica una fede, per totali 300 milioni, 3 volte di più dei dati ufficiali. Tra questi, secondo Zhang Fenglei, Direttore del Centro di studi religiosi dell’università Renmin di Pechino, ci sono almeno 100 milioni di buddhisti. Esperti notano che, comunque la gran parte dei neobuddisti non fa scelte radicali, ma vi trova un sostegno nella vita quotidiana. In una generazione sottoposta a grandi tensioni sul lavoro e nella famiglia, il buddismo insegna la calma interiore tramite la meditazione e dà equilibrio e autostima grazie al rispetto di principi etici. Anche per questo attrae le persone di successo e di buona condizione economica.
(ASIANEWS)


IRAQ - I Vescovi: «Salvate i cristiani Irakeni»

In Iraq i cristiani stanno morendo, la Chiesa sta «scomparendo sotto i colpi di persecuzione, minacce e violenze da parte di estremisti che non danno scelta: o la conversione o la fuga». È l’appello di Mons. Louis Sako, Arcivescovo caldeo di Kirkuk, mentre giungono notizie di autobomba e uccisioni di cristiani anche  nelle zone curde, finora risparmiate. Il presule, che è Presidente del Comitato per il dialogo interreligioso del Consiglio delle Chiese cattoliche in Iraq, ha firmato una dichiarazione sulla situazione dei cristiani a Baghdad, denunciando gruppi che sotto la minaccia delle armi chiedono ai cristiani l’immediata conversione all’Islam o la fuga e la confisca dei beni. A Mosul succede lo stesso, ma con un’altra scelta: pagare un tributo in denaro al jihad se non si vuole essere uccisi.
(ASIANEWS)


FILIPPINE. - Il primo sacerdote della tribù Mangyan

Il 17 aprile scorso è stato ordinato sacerdote il primo tribaIe Mang’yan, una delle etnie più antiche e misteriose. P. Oybad è stato accolto da migliaia di fedeli nella Cattedrale di Bulacao, nella provincia orientale di Mindoro. P. Ewald Dinter, direttore della Missione locale, ha detto: «E’ un momento molto importante per l’inculturazione del messaggio di Cristo. Come diceva Giovanni Paolo Il, una fede che non diviene cultura è una fede che non viene pienamente vissuta o recepita».
La Messa è stata celebrata dal Vescovo di Calapan, Mons, Warlito Cajandig, assistito da oltre cento sacerdoti
(ASIANEWS)
Domenica, 27 Aprile 2008 18:12

L'unione fa la forza

Fino a qualche anno fa le attività internazionali degli enti locali italiani erano limitate ad alcune azioni di collaborazione all’interno dei gemellaggi istituzionali,  oppure a donazioni di denaro in seguito ad emergenze (terremoti, inondazioni, ecc.), accoglienza e ospitalità (profughi da zone di guerra, bambini di Cernobyl).
Spesso i comuni hanno finanziato progetti di cooperazione allo sviluppo realizzati da Ong o associazioni di volontariato internazionale, ma il loro ruolo era sostanzialmente di finanziatori senza altra forma di coinvolgimento all’interno dei progetti.
Verso la metà degli anni ’90, gli enti locali hanno iniziato a definire meglio il loro ruolo all’interno della cooperazione allo sviluppo. Ciò  è stato determinato da alcuni fattori.
I processi di internazionalizzazione e globalizzazione hanno avvicinato molti dei cittadini dei nostri comuni ai drammatici squilibri Nord – Sud e hanno fatto crescere la consapevolezza delle collettività locali, di essere sempre più parte di un sistema interdipendente. Si è capito che ciò che capita a migliaia di chilometri ha effetti in diverse parti del mondo (guerre, violazione dei diritti dei lavoratori in Cina, crack finanziari, atti di terrorismo, fenomeni di immigrazione, emergenze ambientali e climatiche, ecc.). Oggi molti avvertono la necessità di aprirsi al mondo, di coinvolgersi nella riflessione sui modelli di sviluppo, di agire per l’attenuazione degli squilibri e di cercare di dare risposte globali a problemi ormai diventati planetari.
Alcuni insuccessi della cooperazione governativa hanno lasciato nuovi spazi alle amministrazioni locali. Cresce la convinzione che gli eletti (sindaci, consiglieri, ecc.) del Nord e del Sud rappresentino il livello istituzionale più vicino alla popolazione e che conoscano concretamente le problematiche dei cittadini, ma anche le risorse che possono essere messe in gioco. Possono dunque collaborare più efficacemente «dal basso», in modo molto concreto e trasparente.

Dieci anni per la pace
Nel 1996 è nato in provincia di Torino il Coordinamento comuni per la pace (Cocopa) con l’obiettivo di promuovere un’autentica e diffusa cultura di pace attraverso  la realizzazione di progetti concreti e coordinando l’impegno dei singoli enti in iniziative comuni. Oggi aderiscono al Coordinamento 35 comuni e la provincia di Torino in rappresentanza di circa il 70% della popolazione provinciale.
Il Cocopa ha individuato come uno dei propri ambiti di intervento la promozione di progetti consortili di cooperazione decentrata in partenariato con comuni del Sud del mondo e le numerose espressioni della società civile attive sul proprio territorio.
Sulla base di queste riflessioni il Coordinamento ha sviluppato una propria metodologia di lavoro, perfezionata grazie ad un percorso di auto formazione nell’ambito degli «Stati generali della cooperazione» della Regione Piemonte (un percorso triennale di confronto tra enti locali, con la collaborazione di Ong e missionari sulle metodologie e buone pratiche della cooperazione decentrata).
Ne è nato un modello di cooperazione decentrata, o «comunitaria» che non si pone come unico obiettivo la realizzazione di infrastrutture o iniziative di solidarietà, ma in cui sono fondamentali i processi di partecipazione, coinvolgimento e sensibilizzazione dei cittadini.
Una cooperazione in cui si pone al centro il rapporto con le municipalità di Africa e America Latina, spesso fragili e di recente costituzione, cui si riconosce innanzitutto pari dignità e con cui ci si confronta su modelli di sviluppo, sulle modalità di erogazione dei servizi essenziali ai cittadini (anagrafe, educazione, gestione dell’acqua, dei rifiuti, ecc.). Si tratta di lavorare per dare sostanza ai piani di sviluppo elaborati dai partner, adoperandosi affinché contribuiscano a tutelare i diritti fondamentali delle persone e si caratterizzino per una modalità di progettazione e gestione il più possibile partecipata con la cittadinanza.

Scambiando si sviluppa
È un’ idea di una cooperazione che prevede uno scambio tra comunità, in cui i territori e i diversi attori si attivano e si incontrano (amministratori, funzionari, istituzioni scolastiche, associazioni...), in cui il coinvolgimento attivo della struttura comunale diventa risorsa e opportunità per riflettere su questi temi, superare pregiudizi, accrescere il coinvolgimento. Il ruolo dell’ente locale è dunque non solo quello di essere portatore di competenze specifiche utili ai partner, ma di rappresentare un territorio e di mettere in relazione attori diversi.
I progetti sono un’occasione di apertura delle nostre città al mondo, a realtà in passato lontane ora rese più vicine, tangibili. Un modo di conoscere direttamente altre città, di rivedere stereotipi e anche, in maniera critica, le informazioni che ci provengono dai media, costruire davvero una cultura di pace che si fondi sulla relazione diretta tra i popoli, sul mutuo riconoscimento tra comunità, sulla solidarietà.
I comuni hanno scelto di lavorare insieme, dando vita a progetti consortili in cui siano valorizzate le scarse risorse disponibili. Le azioni coinvolgono soggetti diversi avvalendosi della collaborazione di Ong, università, sindacati, associazioni, mondo missionario. Le Ong, ad esempio, spesso mettono a disposizione il loro personale  nei paesi di intervento per il monitoraggio delle attività e per facilitare l’incontro tra gli attori del Sud e del Nord.
Al momento la legislazione italiana in materia di cooperazione decentrata è assai carente. A differenza di altri paesi europei, manca un riconoscimento formale del ruolo degli enti locali nella cooperazione italiana. Senza il quale i fondi ad essa dedicati e l’impegno dei comuni resteranno marginali rispetto agli altri compiti istituzionali.
Un altro rischio è che, in seguito alla continua contrazione delle risorse di cui dispongono, i comuni riducano il loro coinvolgimento attivo, limitando il proprio impegno a finanziare progetti, senza apportare alcun valore aggiunto.

di Edoardo Daneo
MC Maggio 2007
Domenica, 27 Aprile 2008 18:10

Rilanciare lo «sviluppo»

Gianfranco Cattai è un pezzo da novanta per quanto riguarda la cooperazione decentrata in Italia. Si può dire sia  la memoria storica di questo processo. Lavora da anni per l’Ong Lvia di Cuneo per quale è responsabile di comunicazione e territorio.

Ci racconta l’origine della cooperazione decentrata?
Nasce agli inizi degli  anni ‘90 a Bruxelles, quando alcune persone della Commissione europea e del sistema non governativo, teorizzano la necessità di promuovere un fenomeno di ampia diffusione. Nasce da una riflessione condivisa tra parlamentari europei, funzionari della commissione e rappresentanti del sistema non governativo europeo che all’epoca si aggirava su circa 700 associazioni. La prima esperienza strutturale in Italia è stata alla fine degli anni ‘90 quella della  Regione Piemonte, con quattro paesi del Sahel.  Della cooperazione decentrata si possono dare tante definizioni, ad esempio in Francia è nata come  cooperazione condivisa tra governo centrale e realtà locali, che collaborano con il Sud del mondo. L’innovazione dell’esperienza piemontese fu forte: un approccio tra soggetti similari del Nord e del Sud, armonizzato dall’ente locale, dove questo non solo si metteva in gioco con l’ente omologo del Sud, ad esempio con il rafforzamento di capacità, ma era contemporaneamente in grado di valorizzare il territorio, le sue eccellenze a favore di una realtà nel Sud. L’ente locale dunque capace di rinunciare alla tentazione di “progettare” in modo autonomo per poi affidare l’esecuzione ad operatori del proprio territorio. È uno dei pericoli che vedo, e limiterebbe la creatività e la libera iniziativa degli attori, profit e non profit, dei singoli contesti.

Quali sono gli altri rischi di questo metodo di fare cooperazione?
Spesso c’è tendenza diffusa che l’ente locale assuma o immagini di assumere il ruolo di una piccola o grande Ong: è un errore fondamentale. L’Ong è cittadinanza attiva che si è strutturata e si è data una missione specifica.  Il ruolo degli eletti degli enti locali decentrati è innanzitutto  quello di fare politica di cooperazione e di assumere le scelte amministrative congruenti e conseguenti. Non è unicamente attenzione all’azione  ma anche al senso e cioè alla politica. C’è spazio per tutti rispettando le specificità, senza dimenticare che gli eletti hanno un mandato, anche nell’ambito della cooperazione internazionale. Le Ong non possono avere questa peculiarità. La politica opera scelte che devono  confrontarsi con il consenso e quindi hanno un forte valore. Gli organismi spontanei non hanno questo confronto.  Gli enti locali possono attuare  anche iniziative  concrete in modo diretto ma non possono dimenticare che l’impegno assunto, a volte anche molto limitato, deve avere anche la capacità di legittimare e valorizzare quanto soggetti profit e non profit del territorio fanno in modo autonomo o condiviso.

Ha osservato un’evoluzione della cooperazione decentrata in questi dieci anni?
Una grande evoluzione. Oggi è più chiaro che c’è volontà da parte degli enti locali e si possono esprimere in modalità diverse. Primo: mettere a disposizione dei fondi su proposta di terzi. Secondo fare, in proprio progetti in modo diretto. Terzo: mantenere la responsabilità culturale  dell’azione ma farsi accompagnare da chi ha competenze specifiche (come per esempio le Ong che dovrebbero avere radici sia al Sud che al Nord). Quarto: rafforzamento istituzionale di soggetti similari al Sud. Si moltiplicano le esperienze in tutta Italia da questo punto di vista. Oggi assistiamo alla realizzazione di questi quattro livelli, che possono coesistere. In passato la situazione era più confusa.

Che peculiarità ha questo metodo rispetto alla cooperazione governativa centrale?
Nel tempo, a livello centrale, è aumentata la consapevolezza delle scelte che si dovrebbero operare, ma è diminuita la tendenza a fare cooperazione allo sviluppo. Ci si è spostati verso temi come l’emergenza e la sicurezza internazionale (vedi Afghanistan, Iraq). C’è sempre meno tensione e attenzione verso quella foresta da far crescere rispetto al concentrarsi sull’albero che cade. Spesso i fondi della cooperazione sono dirottati rispetto a queste questioni certamente urgenti ed anche più comprensibili a livello mediatico. Il problema è tornare a una cooperazione capace di lavorare sugli obiettivi del millennio. Rispetto alle dichiarazioni dei nostri governi italiano ed europei, crediamo necessaria una lobby popolare che spinga per rilanciare questo tipo di cooperazione. La cooperazione decentrata ha quindi, tra l’altro, l’importante ruolo di rilanciare la cooperazione allo sviluppo, e questo è un’opportunità affidata a ciascuno di noi. Evidentemente la cooperazione non si riduce alla disponibilità di denaro, pur necessario. La mia preoccupazione maggiore è il fatto che non ci siano oggi in Italia luoghi dove riflettere sulla politica della cooperazione. Anche nel caso della nuova proposta di legge, si dibatte più degli aspetti strutturali (e sono quasi 20 anni!) e meno, per esempio  su come dare risposte agli obiettivi del millennio.  Non è solo un problema di investimenti economici ed organizzativi: anche se li moltiplichiamo i fondi non basteranno. Occorre un rilancio di «interessi» per lo sviluppo. Il vero problema è portare l’attenzione su percorsi di cooperazione che coinvolgano associazioni di giovani e di categoria, piccole imprese, ordini professionali, università, scuole. Una coscienza collettiva che permetta di muovere competenze, disponibilità, creando così un effetto moltiplicatore degli impegni pubblici e governativi.

A cura di Ma.NB.
MC Maggio 2007
Domenica, 27 Aprile 2008 18:09

Sistema Italia cercasi

Uno sviluppo fondato sulla partecipazione, la promozione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Sul rafforzamento delle capacità e dei poteri dei comuni al Sud. Una cooperazione più vicina alle priorità delle popolazioni, perché nasce dal territorio. Riflessioni di un ricercatore.

 A partire dagli anni ’90 è cresciuto il ruolo delle autonomie locali (o enti locali, regioni, province, comuni) nella cooperazione allo sviluppo. Nonostante diverse definizioni di cooperazione decentrata, il minimo comune denominatore riconosciuto a livello internazionale e italiano è rappresentato dall’azione delle autonomie locali, che sempre più non si limitano a contribuire finanziariamente ai progetti portati avanti dai diversi soggetti del proprio territorio, ma che assumono su di sé un ruolo politico e di proposta attiva. Nell’accezione italiana si dà solitamente maggiore enfasi al rapporto virtuoso tra autonomie locali e soggetti del territorio, sia del mondo sociale, sia economico e culturale. Per questo si sottolinea il concetto di partenariato tra territori,  che risulta fondato sui principi di sussidiarietà, verticale ed orizzontale, e sviluppo partecipativo. La sussidiarietà verticale è quella che delega, a partire dal governo centrale, l’istituzione più adatta a svolgere determinate funzioni, come lo sviluppo locale, quindi regione, provincia, comune. Quella orizzontale è invece la divisione dei ruoli tra amministrazione pubblica, mercato e società civile.

Un nuovo approccio
In questo senso la definizione italiana si collega a quella del Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite (Pnud) e dalla Commissione europea, che indica nella decentrata una nuova modalità di politica di cooperazione allo sviluppo focalizzata sugli attori. È espressione di un nuovo modo di concepire lo sviluppo equo e sostenibile tra i popoli, fondato sulla partecipazione, la promozione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, il rafforzamento delle capacità e dei poteri degli attori decentrati, in particolare dei gruppi svantaggiati. L’obiettivo di questa cooperazione è quello di favorire uno sviluppo migliore perché considera in misura maggiore (rispetto alle tradizionali politiche tra stati) i bisogni e le priorità delle popolazioni nei loro luoghi concreti di vita. Importante è quindi il sostegno alle politiche di decentramento amministrativo nei paesi partner e il ruolo dei poteri locali, delle comunità e delle organizzazioni della società civile.
Un altro concetto di grande rilevanza che differenzia la cooperazione decentrata rispetto a quella tradizionale è l’adozione «dell’approccio per processo». Non si tratta di «fare progetti» ma di partecipare e sostenere processi di sviluppo locale, di decentramento, di empowerment. Le azioni puntuali vanno pensate in sequenze flessibili a seconda dei ritmi degli attori secondo un approccio strategico di medio periodo, fondato sull’ascolto, sul dialogo e su un confronto continuo. Diventa quindi essenziale la dimensione politica e la costruzione di istituzioni di partenariato nelle quali condividere i modelli di sviluppo, obiettivi, strumenti e ruoli dei diversi soggetti territoriali.

Quale valore aggiunto
Sulla base di queste considerazioni è essenziale ricordare i «quattro valori aggiunti» della cooperazione decentrata.
1.    L’assunzione dell’impegno politico delle autonomie locali verso i fini della cooperazione allo sviluppo (ad esempio gli obiettivi del millennio). 2. La concretizzazione di questo impegno con la sensibilizzazione e mobilitazione di competenze, capacità e risorse del territorio nelle relazioni internazionali, attraverso la creazione di sistemi territoriali per la cooperazione allo sviluppo (partenariati territoriali). 3. L’impegno diretto delle amministrazioni su tematiche di loro competenza e relative al sostegno al processo di democratizzazione, decentramento, sviluppo locale. 4. La mobilitazione di risorse finanziarie aggiuntive sia da parte delle amministrazioni sia da parte del territorio (partnership pubblico-privata).
2.    La cooperazione decentrata assume dunque principi, modalità e valori aggiunti particolarmente innovativi e ambiziosi, che risultano molto impegnativi, soprattutto per degli attori, gli enti locali, che hanno iniziato da pochi anni a misurarsi con le problematiche della cooperazione allo sviluppo. In effetti è bene sottolineare che nel panorama italiano la concretizzazione dei «valori aggiunti» è ancora da venire per la maggior parte delle amministrazioni. La cooperazione decentrata nella gran parte dei casi rappresenta un’attività marginale e incipiente. Sono poche le regioni, province e comuni che cercano di integrarla nei piani di sviluppo del proprio territorio. Le risorse finanziarie e soprattutto umane sono ancora scarse. La cooperazione decentrata è vissuta più come un’appendice dell’amministrazione vincolata ai soggetti tradizionali (organizzazioni non governative, istituti missionari) e nuovi (associazioni no global, ambientalistiche e per i diritti umani, ma anche agenzie di sviluppo locale) impegnati nei rapporti Nord - Sud.

Risorse in aumento
Ciò nonostante si è registrata in questi ultimi tempi una forte crescita delle risorse, più che raddoppiate in cinque anni. Il Centro Studi Politiche Interna¬zionali (Cespi) ha stimato che dal 2000 al 2005 i finanziamenti propri delle amministrazioni locali per la cooperazione decentrata sono aumentati da 20 a oltre 50 milioni di euro, corrispondenti ad oltre il 10% della cooperazione bilaterale italiana (senza tener conto dell’annullamento del debito). Queste risorse rimangono tuttavia ancora scarse, soprattutto se si confrontano con il caso spagnolo. Secondo le statistiche del Development Aid Commettee (Dac) dell’Ocse (Or¬ga¬nizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) le autonomie locali della Spagna hanno stanziato 321 milioni di euro nel 2003, superate solo da quelle tedesche (687 milioni di euro), che però si sono dirette per ben il 90% alla distribuzione di borse di studio. Mentre secondo il ministero Affari esteri (Mae) italiano gli aiuti degli enti italiani sono ammontati a 27,3 milioni di euro (un dato che secondo il Cespi e l’Osservatorio Interregionale per la Cooperazio¬ne allo Sviluppo è sicuramente sottostimato).
All’aumento delle risorse è corrisposto un sostanziale ampliamento delle amministrazioni coinvolte. Oramai tutte le regioni, oltre la metà delle 107 province (che mobilitano circa 2 milioni di euro di risorse proprie) e centinaia di comuni risultano attivi in una miriade di iniziative, la maggior parte delle quali piccole e puntuali. Vi sono inoltre dei casi di alcune autonomie locali che hanno fatto crescere un embrione, più o meno formalizzato, di sistema di soggetti rivolto alla cooperazione decentrata, che si intreccia all’internazionalizzazione e al marketing del territorio (politiche per attrarre investimenti esteri), così come ad un nuovo ruolo delle amministrazioni locali in materia di relazioni internazionali (paradiplomazia, svolta cioè dalle autonomie locali e non dal governo centrale e diplomazia dal basso).

Manca il «sistema Italia»
Tutto ciò però non costruisce il «sistema Italia» ma si articola in una relativa dispersione di azioni, in alcuni, pochi, sub-sistemi regionali, in una serie di reti, associazioni e coordinamenti a geometria variabile, e in alcune autonomie leader con una buona visibilità. Questo nonostante che la cooperazione italiana abbia sostenuto prima con i programmi di sviluppo umano locale di Pnud, e poi con programmi diretti in convenzione con le regioni, Upi (Unione delle province italiane) e Anci (Associazione nazionale dei comuni italiani), iniziative volte a informare, formare e coordinare i diversi attori in iniziative di cooperazione allo sviluppo. Molto resta ancora da fare nel creare una strategia della cooperazione decentrata, che continuerà peraltro ad essere in parte ingovernabile o non ordinabile secondo un approccio centralistico, essendo costitutivamente fondata sui principi di autonomia e pluralità.

di Andrea Stocchiero
MC Maggio 2007
Domenica, 27 Aprile 2008 18:08

Creare «reti complesse»

Giunta Regionale del Piemonte. Ha una grossa esperienza in cooperazione internazionale e in particolare di quella realizzata dagli enti locali. Conosce bene anche il «terreno» in quanto è stato volontario in Africa.

Dal vostro punto di vista cos’è la cooperazione decentrata?
Il nostro concetto si rifà alle linee guida della direzione generale per la cooperazione allo sviluppo del ministero Affari Esteri, che risale al marzo 2000. Si parla di cooperazione tra territori che acquisisce titolo solo se  sono coinvolti i rappresentanti istituzionali che garantiscono questo legame. Secondo questa definizione il contatto tra i singoli gruppi non è cooperazione decentrata, ma è rapporto tra associazioni di base della società civile.  Tali azioni rientrano nella cooperazione decentrata solo se c’è una relazione tra autorità elette, che in quanto tali rappresentano una comunità, un territorio e hanno mandato e responsabilità per realizzare iniziative  a nome della comunità stessa.

Negli ultimi cinque anni i finanziamenti propri delle amministrazioni locali per la cooperazione decentrata sono aumentati da 20 a oltre 50 milioni di euro, perché secondo lei?
La cooperazione decentrata è un processo che vede protagoniste le comunità territoriali, realtà disponibili anche a mettere risorse proprie, al di là dei fondi pubblici dello Stato. Il territorio chiede, perché ne sente l’esigenza, di diventare attore «attivo». Questo comporterà una diversa consapevolezza, una piccola rivoluzione culturale, nell’analisi degli squilibri tra Nord e Sud. Oggi, infatti,  non riusciamo a concepire in modo corretto la cooperazione, né noi né loro. Per noi è una donazione di qualcosa di superfluo, per loro, spesso,  un’accettazione passiva di risorse. Non esiste un’idea, condivisa da tutti, che tenga conto della necessità di ricercare un futuro compatibile e sostenibile per ciascuna realtà. Dobbiamo relazionarci con l’Africa, come diceva Robert Schuman, uno dei padri dell’Europa, «il problema dell’Europa è lo sviluppo dell’Africa». Ma in questi 50 anni l’Africa non si è sviluppata.
Iniziamo a capire anche noi che c’è bisogno di una nuova cultura della cooperazione. Non dobbiamo fare progetti perché è giusto, ma perché altrimenti non c’è futuro. è un obbligo economico, sociale, tecnico.
La cooperazione decentrata può dare il suo contributo perché spinge i cittadini a diventare protagonisti, li mette davanti ai problemi e nell’impossibilità di eluderli.

Cosa pensa del processo in corso per riformare la legge sulla cooperazione internazionale in Italia?
 è importante la volontà del governo che intende procedere alla riforma della legge in tempi brevi (tramite la legge delega).
È una grande occasione per analizzare i nuovi percorsi di cooperazione che stanno sviluppandosi in Italia e per costruire una nuova  disciplina che rafforzi, cogliendone gli aspetti positivi, queste esperienze, mettendole in sinergia con le altre forme di cooperazione più classica (multilaterale, bilaterale e non governativa).
Purtroppo nella proposta di legge non è chiaro questo importante obiettivo, ma le dinamiche del rapporto dello stato con le  regioni e la società civile, dovrebbe portare in parlamento un dibattito utile per una maggior consapevolezza del legislatore sulla necessità di un nuovo approccio, anche culturale, in  questa materia.

Quali sono le priorità della Regione Piemonte in termini di cooperazione internazionale?
Una priorità «interna» è legata alle politiche di sviluppo sul nostro territorio: far crescere la capacità di fare cooperazione.  Vuol dire dare strumenti, organizzare eventi, per migliorare la capacità di azione delle istituzioni locali. Renderle in grado di attivare il loro territorio. In questa logica, per noi, il comune è il «mattone» base. I risultati sono buoni, se si considera che sono circa 100 i comuni capofila ad avere presentato una richiesta di finanziamento all’ultimo bando. Tutto questo è stato sviluppato negli ultimi tre - quattro anni.
Abbiamo anche richieste di partecipazione e finanziamento da altre componenti della società civile che hanno competenza in materia: associazioni, istituzioni religiose, ecc. Quando ci propongono delle idee cerchiamo di metterli in contatto con gli altri elementi dal proprio comune, creando così reti complesse. Oggi abbiamo più di 800 enti piemontesi che lavorano nei progetti di cooperazione decentrata sostenuti dalla regione.
Le organizzazioni non governative, con le loro specifiche conoscenze delle realtà locali dei paesi del Sud del mondo, contribuiscono in modo essenziale al corretto sviluppo di queste esperienze e le rafforzano sotto il profilo tecnico e relazionale.
Ci sono poi priorità geografiche. Vogliamo avere impatto nelle aree in cui ci interessa essere presenti: Mediterraneo e Maghreb in particolare sia per il ruolo che intendiamo sviluppare nell’area, sia per la presenza di significative comunità di immigrati provenienti da questi paesi. Ma anche iniziative per i paesi che hanno presentato richiesta di pre-adesione all’Unione europea, e attenzione a quei paesi da cui proviene il flusso migratorio verso la nostra regione.
Un’altra area di particolare interesse economico e politico è il Brasile.  Sia per l’importante ruolo che svolge in America Latina sia per le numerose relazioni con il nostro territorio dovute alla consistente presenza degli emigrati piemontesi.
Per le zone più lontane lavoriamo sulla base di priorità tematiche. La «sicurezza alimentare», che concentriamo geograficamente in alcuni paesi dell’Africa Occidentale, scelti anche dopo un’analisi dei soggetti piemontesi che  vi operano. Oppure l’appoggio a comunità di immigrati strutturate presenti sul nostro territorio, come, per esempio, quella senegalese.

Quanto investite nella riflessione su queste tematiche oltre che sull’azione diretta?
Cerchiamo di creare situazioni per le quali il nostro sistema di cooperazione decentrata sia in grado di attivarsi. Vogliamo farlo crescere, per questo periodicamente realizziamo eventi o iniziative di riflessione interna.

In Italia siamo in ritardo rispetto a Spagna e altri paesi europei, perché secondo lei?

In Spagna il meccanismo è legato a una legge statale che impone una percentuale del bilancio da spendere in cooperazione. Questo fa crescere l’impegno di regioni ricche, come la Catalunya che arriva a 60 milioni di euro all’anno. Anche i francesi sono avanti, per una loro particolare attenzione verso i paesi ex coloniali. Gli spagnoli hanno forti motivazioni legate alla questione dell’immigrazione, che impone loro conseguenze operative. Su queste tematiche l’amministrazione intende dare segnali chiari al cittadino. Ciò sarebbe importante anche nella nostra realtà.

Che rapporti avete con la cooperazione governativa del ministero Affari esteri?

Il problema è che la cooperazione in Italia non  riesce a fare politiche innovative. Da un lato il ministero degli Affari esteri ci assegna  finanziamenti per fare cooperazione e dall’altra in alcune occasioni  impugna le leggi regionali in materia di cooperazione internazionale perché ritenute incostituzionali. Il dibattito aperto con la riforma della legge sarà sicuramente un’occasione per riflettere sulle proprie competenze e sull’opportunità di costruire nuovi strumenti per favorire il coordinamento e la valorizzazione delle rispettive specificità.
Un caso recente di collaborazione tra Ministeri e Regioni è il programma di sostegno alla cooperazione regionale. Lo ritengo particolarmente significativo in quanto vengono utilizzati  fondi per le aree sotto utilizzate (Fas) tipicamente destinati per lo sviluppo dei territori regionali che in questo caso  verranno impegnati per realizzare progetti di cooperazione internazionale nei Balcani e nel Mediterraneo concertati tra più regioni e con i diversi ministeri. L’utilizzo di tali fondi implica anche il riconoscere che per promuovere lo sviluppo dei nostri territori è necessario costruire relazioni internazionali anche a livello locale. Un nuovo approccio che apre interessanti ipotesi di lavoro.

Quali sono le prospettive sul medio termine per questo modello di cooperazione?
Prevedo una forte crescita. Le problematiche della globalizzazione producono interrelazioni tra territori e comunità ed evidenziano la necessità di una cooperazione a 360 gradi. La richiesta che ci perverrà dalle nostre popolazioni sarà, a mio avviso,  di creare le condizioni che consentano ad una società civile del Nord di relazionarsi con quella del Sud per affrontare gli effetti locali prodotti dalla globalizzazione. Ciò  valorizzando la capacità di fare rete raccordando le diverse «proprie» specifiche conoscenze e capacità. Si tratta di un’esperienza già ricca, che nasce dal basso, da una domanda del territorio,  a cui le diverse amministrazioni devono rispondere.

A cura di Ma.B
MC maggio 2007
Domenica, 27 Aprile 2008 18:05

Analisi zoppa

Verso il Sinodo / I Lineamenta e la società africana

Nel documento mancano un’approfondita valutazione dell’impatto che il primo sinodo ha avuto sulla vita delle chiese e un serio esame della situazione presente. Il pericolo è che da valutazioni generiche scaturiscano visioni e proposte altrettanto generiche e inefficaci

Il primo capitolo dei Lineamenta del 2° Sinodo africano – “L’Africa all’alba del 21° secolo” – è forse il più debole dell’intero documento. L’analisi della situazione dell’Africa odierna elenca “alcune evoluzioni positive” (6-7) e “alcuni sviluppi negativi” (8) avvenuti dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica Ecclesia in Africa (1995), identifica “alcune priorità a livello socio-politico, socio-economico e socio-culturale” (10-23), esamina il ruolo che le religioni tradizionali africane, l’islam e le altre denominazioni cristiane possono dare “al servizio della riconciliazione, della pace e della giustizia in Africa” (24-29), e conclude con alcune impegnative domande e un primo abbozzo di risposta.
Nel capitolo ci sono 20 note di riferimento: 6 a discorsi e documenti papali, 11 ai Lineamenta, all’Instrumentum laboris e al documento finale del primo sinodo, 1 al sito Internet del Symposium delle conferenze episcopali di Africa e Madagascar, 1 all’annuario statistico della chiesa e 1 alla beata Elisabetta della Trinità, mistica francese morta all’inizio del secolo scorso.
Tutto il capitolo è una enumerazione ragionata di fatti e di grandi tendenze, senza, però, un vero tentativo d’interpretazione. Un mero elenco – neppure esaustivo – che potrebbe essere fatto senza difficoltà da un giornalista mediamente competente sui fatti africani. Sorprende la totale assenza di voci che non siano strettamente ecclesiastiche. Ed è su questo elenco di fatti e autocitazioni che sono sviluppate le prospettive teologiche dei capitoli successivi.
Se si vuole fare teologia e suggerire proposte di programmi pastorali che incidano, è necessaria un’attenta analisi della società africana odierna. Un sinodo, del resto, intende essere un momento di autocomprensione e di presa di coscienza delle situazioni di un dato momento in vista di un maggiore impegno nel futuro. In caso contrario, si rischia – come è successo con il primo sinodo – di produrre un documento finale che non sa provocare veri cambiamenti.
Un’approfondita valutazione dell’impatto che il primo sinodo ha avuto sulla vita delle chiesa e una seria analisi della situazione presente non sembrano essere state fra le priorità degli estensori dei nuovi Lineamenta. Forse questi hanno voluto lasciare il compito al sinodo stesso. Ma l’esperienza di simili precedenti assisi induce a dubitare che un lavoro del genere possa essere fatto in aula. Sta di fatto che da analisi generiche non potranno che scaturire visioni e proposte generiche e inefficaci.
Il successo della teologia della liberazione in America Latina è dovuto al fatto che essa è nata e fiorita da un’analisi della società ampiamente condivisa da comunità cristiane, congregazioni religiose e vescovi. Insomma, una riflessione con profonde radici nel popolo cristiano.
In Africa, invece, un’analisi della società e dei problemi odierni non è stata ancora proposta, tanto meno condivisa. Se si parla con i cristiani del Sud Sudan – da poco usciti da una guerra civile, ma tuttora a rischio di ricaderci – sorprende notare come la loro analisi socio-politica si rifà esclusivamente alle posizioni dell’Esercito di liberazione del popolo sudanese o di altri partiti. Non sono ancora capaci di formulare una propria visione della società che sia influenzata dalla fede cristiana: il messaggio evangelico viene “tirato in ballo” come cappello finale, senza alcuna efficacia storica.
 
La stessa cosa è balzata agli occhi durante la recente crisi del Kenya. In interviste alla radio si sono udite allucinanti dichiarazioni di cristiani: ammettevano di aver preso parte all’uccisione di persone o di aver bruciato le case di vicini per costringerli ad andarsene, affermavano di essere pentiti, ma s’affrettavano ad aggiungere che avrebbero rifatto le stesse cose se i vicini fossero tornati. La maggioranza dei cristiani kenyani è stata vittima di una esasperata interpretazione tribalistica dei fatti: non ha capito che tale interpretazione nascondeva una sporca guerra per il potere economico delle due parti in causa, né la presenza di forze esterne, guidate da interessi particolaristici. Un tragico scollamento fra vita e fede, questa seconda intesa solo come guida per opzioni morali personali.
Il nodo sta proprio nella mancanza di un’analisi sociale e di un “giudizio” cristiano condiviso sulla storia presente. Gli stessi leader religiosi spesso sembrano incapaci di vedere al di là del proprio angolino di mondo, troppo coinvolti nella loro piccola realtà tribale: avere una nipote che ha sposato un certo uomo politico può significare la possibilità di scorciatoie nelle pratiche burocratiche, non ricusando forme di corruzione (magari non a livello di mazzette, ma di scambi di favori e di silenzi colpevoli).
Se riteniamo indispensabile una presenza cristiana nel campo sociale, è necessario far crescere la consapevolezza dei problemi, delle ingiustizie, delle forze che sfruttano l’Africa solo come campo di battaglia.
In un recentissimo saggio, che ha il pregio di tentare di capire le ragioni delle guerre africane (L’Africa in guerra – I conflitti africani e la globalizzazione, Baldini Castoldi Dalai Ed., Milano, 2008), Alberto Sciortino scrive: «Le guerre africane, se non ci si vuole fermare agli aspetti apparenti e superficiali, sono interpretabili a tre livelli. Un primo livello è quello della lotta per la conquista del potere all’interno del ceto politico continentale: in questo senso la grande diffusione della conflittualità e la corruzione tra le classi dirigenti sono due aspetti degli stessi processi. Un secondo livello è quello del controllo dello sfruttamento delle risorse, spesso illegale anche se praticato dai governi: questo sistema economico implica la guerra come suo elemento costitutivo (...), modifica a proprio vantaggio l’intera struttura produttiva delle aree interessate e crea nuovi equilibri sociali che tendono a perpetuare i conflitti. Il terzo livello è quello degli interessi strategici delle potenze nel quadro dell’economia globalizzata, a cominciare dalla contesa per le risorse energetiche».
È un esempio – più o meno condivisibile – di un tentativo di capire. Sarebbe importante che il prossimo sinodo, dedicato non solo alla riconciliazione, ma anche alla giustizia e alla pace, ci regalasse una visione condivisa di quello che avviene in Africa e di come potremmo reagire come cristiani. Se è troppo chiedere questo, si potrebbe almeno cominciare a muoversi in quella direzione, avviando un processo che renda i cristiani africani attori più informati e consapevoli della storia odierna

di Renato Kizito Sesana
Nigrizia – Aprile 2008
Domenica, 20 Aprile 2008 20:52

FEDELI AGLI OPPRESSI

Teologia della liberazione: ancora anima e cuore della chiesa latino-americana

L’opzione della chiesa per i poveri non perde la sua attualità in un subcontinente con oltre 200 milioni di diseredati. Il Vaticano “corregge” il documento finale dei vescovi riuniti nella conferenza di aparecida lo scorso maggio. Ma il destino delle cose non dipende dal destino delle parole. Molto prima che esistesse la teologia della liberazione, esisteva un Dio dell’esodo, che ascolta il grido degli oppressi e scende a liberarli.

José Comblin continua ostinatamente a inseguire il sogno di una chiesa povera fra i poveri. Il popolo di Dio nasce e cammina negli anfratti polverosi della storia, nelle aree metropolitane più sudice, caotiche e violente, dove vivono, lottano e sperano i dannati della terra. E qui che la Parola si è rivestita di un compito fondamentale: aiutare il povero a liberarsi dal giogo del potere che l’ha condannato a essere schiavo e non pienamente uomo. È qui che ha preso corpo la teologia della liberazione quarant’anni fa, quando il Concilio Vaticano II parlò di una chiesa che fosse talmente coraggiosa da fare la scelta preferenziale per i poveri, ossia mettesse davanti a tutto il “discorso della montagna” (Matteo 5-7) o il “sermone della pianura” (Luca 6, 17-49) di Gesù.
Non è un caso che la traduzione italiana dell’ultimo libro di Comblin, Il popolo di Dio (Servitium/Città aperta), sia uscita nei giorni in cui ad Aparecida do Norte, in Brasile, si riunivano i vescovi dell’America Latina per la 5a Assemblea dell’episcopato latino-americano e dei Caraibi (Celam) dal 13 al 31 maggio (2007, ndr). Il libro, pubblicato in Brasile nel 2002, è un manifesto corposo di una chiesa della speranza in America Latina. Il teologo si rivolgeva al Papa che sarebbe succeduto a Giovanni Paolo II (ancora non si poteva immaginare che sarebbe stato Joseph Ratzinger), perché tornasse ai principi che avevano reso importante il Concilio Vaticano II: «Non ci può essere un Vaticano III senza prima tornare al Vaticano II», scrive in avvio il teologo. Di qui, una lunga e corposa analisi sulla chiesa dei poveri, sulla fatica che molti teologi, vescovi, sacerdoti latino-americani hanno fatto per dare impulso a una teologia che potesse dare speranza agli sventurati, e sulle resistenze a questo cammino che, nel corso degli anni, sono venute dalle gerarchie, dagli ambienti più conservatori, dalle élite aristocratiche e dai poteri che hanno segnato la storia del continente.
Nonostante tutto, comunque, annotava Comblin, «la chiesa dei poveri sopravvive. È minoritaria, ma resiste. Non ha più posto tra le preoccupazioni della maggioranza del clero e dei movimenti. Ma essa è presente. La storia dimostra che la chiesa non può essere popolo di Dio, se non è chiesa dei poveri. I due termini sono assolutamente uniti»

LUCI E OMBRE
La stessa cosa vale per la teologia della liberazione, anima e cuore della chiesa dei poveri. Anche se ci sono sempre voci allarmanti che parlano di una sua lenta agonia, i sacerdoti che lavorano nelle comunità di base in Brasile, Argentina, Venezuela, Bolivia e Guatemala parlano di una situazione propizia per il “cristianesimo di liberazione” (come preferiscono dire), che s’inserisce in un clima culturale e politico che segna uno dei momenti di massimo splendore per l’America Latina. In un recente viaggio in Italia, il filosofo argentino Enrique Dussel ha affermato: «La teologia della liberazione è la trasposizione più fedele del Vangelo che sia stata mai pensata, perché la più vicina al popolo, non elaborata dall’alto, ma scaturita dal basso, perfettamente in linea con l’insegnamento di Gesù. La teologia della liberazione sarà sempre più il cuore del cristianesimo e il futuro della chiesa».
Pochi giorni prima della visita di Benedetto XVI in Brasile, mons. Pedro Casaldaliga, vescovo emerito di Sào Félix, Mato Grosso, Brasile, aveva dichiarato: «Credo fermamente che la teologia della liberazione continui a essere viva in molte menti, in molti testi e in molte comunità. Sono convinto che si stia rinnovando con nuovi apporti. Adesso, oltre ai poveri, la chiesa ha fatto propria anche la causa del nero, dell’indio, della donna».
Dall’assemblea del Celam i contenuti della teologia della liberazione sono stati espressi in maniera abbastanza chiara. Alcuni teologi hanno perfino esultato, perché il documento di Aparecida è molto più solido di quello dell’assemblea precedente di Santo Domingo (Repubblica Dominicana) del 1992. Clodovis Boff ha commentato: «Il documento di Aparecida è uno dei punti più alti del magistero della chiesa latino-americana e caraibica. Il testo ricupera quello che di meglio è stato elaborato dal Celam nelle assemblee precedenti. Il testo tocca il suo vertice quando parla di una fede viva in Cristo, affermando che l’amore di Dio si sperimenta, si annuncia e si progetta nella vita».
Più misurato il commento del biblista Marcelo Barros, che vi scorge luci e ombre. Secondo lui, il documento rispecchia una visione ecclesiocentrica e fortemente condizionata dalla gerarchia. Pur tuttavia, il testo sorprende positivamente. «Si torna al metodo di Medellfn (1968) - la prima assemblea che lanciò la teologia della liberazione in America Latina -, cioè al metodo del “vedere, giudicare, agire”; si parla espressamente di “scelta preferenziale per i poveri”; si hanno parole amiche per le comunità indie e nere. Il documento apre a questioni sociali, critica gli effetti perversi della globalizzazione, e fa chiare allusioni al debito estero, alla riforma agraria, alle migrazioni. Insiste, infine, sulla necessità di proteggere la biodiversità e si preoccupa del problema dell’acqua». Secondo Barros, le intenzioni positive del testo - che vanno comunque alimentate - sono succubi di una concezione ancora poco ecumenica e poco aperta al dialogo interreligioso.
João Batista Libânio, gesuita brasiliano, accoglie con entusiasmo il forte riferimento che il documento fa all’«incontro personale con Cristo all’interno della comunità e della chiesa», ma è stupito del fatto che, nonostante i temi teologici siano stati affrontati, il testo evita di parlare espressamente della teologia della liberazione, «come se essa non fosse esistita e non avesse portato un contributo originale all’interno del consesso teologico mondiale».
La teologa brasiliana Maria Clara Bingemer, invece, solleva il problema del laicato a cui non si darebbero prospettive concrete: «Il testo riproduce ancora un vecchio schema che vede la contrapposizione fra il clero e il laicato. Dunque, è chiaro in questo punto la distanza dalla teologia della liberazione che basava la sua visione sul concetto di popolo di Dio dove laicato e clero fossero uniti per cooperare alla realizzazione del Regno di Dio qui sulla terra».

NUOVI STILI DI VITA
Ermanno Allegri, missionario altoatesino, impegnato in Brasile e direttore dell’agenzia di stampa Adital, riassume così l’iter del documento finale di Aparecida: «Il testo è stato approvato con 134 voti a favore, due contrari e un’astensione. Si potrebbe parlare di grande consenso. Ma, rispetto all’originale, il testo presentato al Papa contiene ben duecento correzioni. La parte più manomessa e impoverita è proprio la parte che riguarda il lavoro delle comunità di base. È lecito chiedersi come mai la versione originale sia stata così ristrutturata, soprattutto nel capitolo che riguarda maggiormente la teologia della liberazione. Per fortuna, non di documenti vive l’uomo. E se è vero che il documento finale di Aparecida sarà per noi tutti la base e l’orientamento per il prossimo decennio, credo che il senso del nostro impegno, così come si è profilato in questi anni e come l’hanno contraddistinto molti sacerdoti e anche qualche vescovo, non verrà certamente inquinato. Anzi, sono convinto che prenderà ancora più vigore e forza, perché in America Latina o la teologia parte dalla base - ossia dalla condivisione delle miserie e aspettative della povera gente - o non parte affatto».
Tornando a Comblin, il commento che fa della conferenza è sostanzialmente positivo: «Essa rinnova l’opzione per i poveri. Non si tratta di una formula convenzionale. Il testo è preciso. Afferma, senza ombra di dubbio, che “si assume con nuova forza l’opzione per i poveri” (399), e usa per ben due volte la parola “liberazione”, che pareva ormai un termine proibito. Il documento conclusivo parla esplicitamente delle comunità ecclesiali di base (178-179). È vero che questa parte del documento è quella che ha subito maggiori correzioni da parte di Roma: il testo sottoposto dai vescovi era molto più incisivo. Ciononostante, il documento enuncia i frutti positivi delle comunità di base, riconoscendole come segno dell’opzione per i poveri. I vescovi avevano scritto: “Vogliamo decisamente riaffermare e dare nuovo impulso alla vita e alla missione profetica e santificatrice delle comunità di base, nella sequela missionaria di Gesù”. E ancora: “Sono state una delle grandi manifestazioni dello Spirito nella chiesa dell’America Latina dopo il Vaticano II” (194). Queste frasi sono state censurate e ora il testo risulta più debole. Anche altre correzioni vanno nello stesso senso. Ma il testo preparato dai vescovi esiste e può essere consultato. Dalla coscienza latino-americana esso è avvertito come più significativo di quello censurato».
Fortemente segnata dal dubbio, tuttavia, è la domanda che Comblin si pone circa il difficile passaggio dalla elaborazione teorica del documento di Aparecida alla vita pratica della chiesa nel suo diretto rapporto con il mondo: «Il progetto di Aparecida è talmente radicale che sorge un dubbio: chi realizzerà questo programma nella pratica? La storia mostra che tutti i cambiamenti profondi all’interno della chiesa sono stati realizzati da persone nuove, capaci di animare gruppi nuovi e di inventare nuovi stili di vita, sempre a partire da una scelta di vita caratterizzata dalla povertà. Nessun cambio significativo è mai stato attuato da coloro che occupano posti di comando e dalle strutture già instaurate, perché difficilmente riescono a uscire dai propri ruoli tradizionali». Pertanto, «chi sarà il traghettatore verso uno stile nuovo, sobrio, totalmente compromesso con le sorti del povero? Dove trovare i nuovi san Francesco? E dove sono i nuovi Domenico di Guzman?».

di Francesco Comina
Nigrizia/Novembre2007
L’appoggio logistico dati dai curdi agli americani nella guerra contro Saddam Hussein ha fatto del Nord dell’Iraq un’oasi di pace rispetto al resto del paese. Migliaia di profughi provenienti da Baghdad e da altre zone colpite dal conflitto cercano rifugio nel territorio amministrato dal Governi regionale curdo. Tra di essi molti cristiani. Problemi attuali e prospettive future nelle parola del vescovo di Amadhiya.
Monsignor Rabban Al Qas è dal 2001 vescovo della diocesi caldea di Amadhiya. Dal 2005 è anche amministratore della sede vescovile di Erbil, rimasta vacante dopo la morte del precedente titolare, mons. Yacoub Scher. Entrambe le diocesi che mons. Al Qas guida in Kurdistan, la zona settentrionale dell’Iraq, un’area a maggioranza curda, di fatto semindipendente dal governo centrale di Baghdad, e controllata dal Governo regionale curdo (Grc).
Il Kurdistan è anche la zona dove, specialmente negli ultimi tempi, si stanno rifugiando i cristiani iracheni che fuggono dalle violenze settarie che li vedono vittime prescelte di chi vorrebbe islamizzare il paese cancellando le minoranze non musulmane. I cristiani rifugiati in Kurdistan sono ormai decine di migliaia. Disperati, costretti a lasciare le proprie case senza portare via nulla, disoccupati e terrorizzati arrivano al nord e cercano nella chiesa l’aiuto morale e materiale di cui hanno bisogno.
Approfittando di una sua breve visita in Italia, abbiamo rivolto a proposito alcune domande a mons. Al Qas.


Che difficoltà pratiche affronta un vescovo che da tempo gestisce due diocesi, una delle quali – Erbil - accoglie la maggioranza dei cristiani che fuggono dai centro e dai sud dell’Iraq?
Difficoltà legate non solo all’ingente flusso migratorio, ma soprattutto al fatto che la maggior parte di chi cerca rifugio nel nord è in condizione di estrema povertà, non ha nulla, neanche una casa. In questo senso l’aiuto ci è arrivato dal Crc attraverso il suo ministro delle finanze, Sarkis Aghajan. Ogni famiglia riceve dai 100 ai 150 dollari al mese e sono in costruzione molte case per ospitarle. I cristiani sono benvenuti e per quanto riguarda Ankawa, cittadina  vicino a Erbil, ad esempio, è volontà del governo che essa mantenga la sua caratteristica di essere un centro della cristianità. Il Grc vuoli fare di Ankawa una città moderna e sa molto bene che i cristiani, grazie alla loro professionalità, possono tornare molto utili.

In genere le migrazioni di massa, specialmente se concentrate in un lasso di tempo breve, sono causa di tensioni sociali tra i vecchi abitanti della zona e i nuovi arrivati. Succede così anche in Kurdistan tra antichi abitanti e nuovi arrivati dal centro e dal sud del paese?
Non parlerei di tensioni sociali, ma sempre e solo di difficoltà economiche. Le persone che scappano nel nord sanno che si tratta di una situazione temporanea e non potrebbe essere altrimenti, visto che non si può provvedere a tutti. Così, ad esempio, un medico, che magari a Baghdad poteva arrivare a guadagnare 500 dollari al mese, qui ne guadagnerà 150 a fronte di prezzi molto alti. La povertà è un problema che riguarda i cristiani ed anche gli arabi musulmani, specialmente d’inverno quando il prezzo di un barile di petrolio da 200 litri sale a 150/170 dollari quando prima costava un solo dollaro. L’embargo che c’era sotto Saddam è ora diventato l’embargo attuato dalla Turchia, che raffina il nostro petrolio e poi ce lo rivende a prezzo altissimo.

Perché questa emigrazione verso il Kurdistan?
Il problema è la mancanza di sicurezza nel resto dell’Iraq. Agli inizi degli anni ’60 molti abitanti del nord si trasferirono nelle grandi città, a Baghdad o Mosul, e a metà degli anni ‘70 altri iniziarono a emigrare verso l’estero; ora molte di quelle famiglie sono costrette a lasciare i luoghi dove hanno vissuto per decenni per sfuggire alla morte. Molti sono fuggiti anche in Siria, Giordania e Turchia, ma la maggior parte arriva nel Kurdistan, dove il Crc sta facendo costruire per loro dei nuovi villaggi. Nella diocesi di Amadhiya, ad esempio, sono state costruite più di 800 case per accogliere i profughi. Le abitazioni vengono consegnate «chiavi in mano».Questa è la soluzione giusta perché i cristiani rimangano in Kurdistan, in Iraq.

Il Grc nell’ultimo anno ha iniziato ad appoggiare l’idea di una regione amministrativa cristiana sotto il suo controllo, può spiegare di che cosa si tratta?
I cristiani non vogliono l’autonomia per lasciare l’Iraq o il Kurdistan. Ciò che vogliono è un’autonomia amministrativa e non politica. La regione di Ninive, per la quale si chiede tale tipo di autonomia e che ospita villaggi cristiani, curdi e a maggioranza yazida, non fa geograficamente parte dei Kurdistan, anche se a mio parere dovrebbe esserlo. In questi tempi difficili i cristiani sono più vicini ai curdi che agli arabi. Prendiamo ad esempio la città di Mosul: le chiese bruciate, i sacerdoti uccisi, le violenze compiute contro i cristiani. Come potrebbero questi desiderare di tornare a viverci?
Molti cristiani vorrebbero vivere nella regione di Ninive, dove godrebbero della libertà che è ora loro negata, ma non hanno un esercito per difendersi e per questa ragione hanno bisogno della protezione dei curdi. Essi non vorrebbero lasciare le proprie case e desidererebbero essere cittadini come tutti gli altri; ma sanno che nella nuova costituzione irachena sono invece considerati come cittadini di seconda categoria.
In Kurdistan è diverso; ora che si sta stilando la costituzione regionale io stesso ho chiesto che dai documenti sparisca l’indicazione della religione del titolare e che si cancelli la legge dell’epoca di Saddam, per la quale i figli di un cristiano o di una cristiana convertito/a all’Islam vengono automaticamente e immediatamente considerati e registrati come musulmani.
Nel maggio 2006 il presidente del Kurdistan, Masoud Balzani, ha promesso al nostro patriarca di cancellare ogni punto della costituzione contro i cristiani. La situazione del Kurdistan è molto diversa da quella di Baghdad, noi siamo liberi di parlare, la stampa è libera; a natale ben tre canali televisivi, due curdi e uno cristiano, hanno diffuso in diretta le sante messe. Durante la mia omelia di natale ho detto che Gesù non è venuto solo per i cristiani, ma per tutto il mondo, una cosa che prima non era possibile dire e che purtroppo non lo è ancora nelle altre zone del paese.

Che contatti ci sono tra Kurdistan, chiesa e resto del mondo?
La collaborazione tra l’estero e i kurdistani – è così che si chiamano gli abitanti del Kurdistan – è ottima dal punto di vista economico. Il Grc è libero di stilare contratti e fare affari, e anche le infrastrutture lo permettono, visto che ci sono due aeroporti che collegano il Kurdistan con l’estero: quello di Sulemainiya e quello di Erbil che è in fase di ampliamento.
Come ha detto il primo ministro, Nechirvan Balzani, il Kurdistan può diventare un nuovo Dubai, dove sviluppare gli affari e l’economia.
Le relazioni con la chiesa esterna all’Iraq avvengono tramite la nunziatura apostolica di Baghdad, attraverso la quale ci arrivano, ad esempio, le notizie da Roma, i messaggi del santo padre e l’Osservatore Romano, ma non ci sono contatti diretti. Personalmente, continuo a esprimere, anche a nome di altri vescovi del nord Iraq, il desiderio che tali legami si intensifichino e diventino diretti, ma solo epistolari.
Oggi come oggi la situazione della comunità cristiana irachena è molto confusa. A gennaio il Babel College, la facoltà di teologia cristiana, e il seminario maggiore caldeo sono stati trasferiti da Baghdad ad Ankawa per ragioni di sicurezza.

Questo potrebbe portare a uno spostamento del patriarcato da Baghdad a una sede più sicura?
Personalmente, credo che la collaborazione geografica della sede patriarcale non sia così importante. Essa deve essere dove sono i fedeli. Per ora sono state spostate queste due istituzioni, e il Grc ha anche concesso una vasta area dove costruire una casa per i religiosi. Se i cristiani dovessero sparire da Baghdad converrebbe spostare la sede patriarcale, ma per ora molti di essi vivono ancora nella capitale e dobbiamo essere ottimisti.

Come giudica la presenza della chiesa in Kurdistan?
Oltre al clero delle varie diocesi, si contano religiosi di vari ordini: i padri redentoristi belgi che vivono in Iraq da almeno 35 anni, domenicani e un gesuita americano che vive in Giordania e che viene ad Ankawa per insegnare. Cerchiamo di essere sensibili alle varie esigenze dei fedeli delle nostre comunità. Per esempio, molti cristiani che ora vivono in Kurdistan hanno vissuto per decenni lontano e, per questa ragione, non conoscono l’aramaico, che è la lingua ancestrale della maggioranza dei cristiani in Iraq ed è pure la lingua liturgica della chiesa caldea. Per questa ragione il venerdì c’è una messa in arabo per chi non capisce l’aramaico.
Pare strano che sia di venerdì e non di domenica, ma il venerdì è il giorno festivo islamico e siccome a questa messa partecipano anche fedeli che provengono da Mosul o da altre zone, cerchiamo di agevolarli facendo sì che possano approfittare del giorno festivo.

Se le forze internazionali se ne andassero dall’Iraq, ci sarebbero conseguenze per la popolazione cristiana e quali?
Questa è una domanda che bisogna rivolgere a George Bush e non a me che sono un vescovo. Per quanto riguarda il Kurdistan la zona è stata affidata alle truppe coreane, con le quali la collaborazione è stata ottima. Il Kurdistan ha il proprio esercito – i peshmerga – e non ha bisogno di essere difeso da altri.
Dai coreani quindi abbiamo avuto modo di imparare molte cose che senza dubbio saranno utili in futuro. Oggi la presenza americana in Kurdistan è minima e i soldati USA che vi risiedono dicono che per loro è come “essere in vacanza”. Hanno ragione, chiunque abbia vissuto a Baghdad sa che è così: là la guerra, in Kurdistan la pace.

di Luigia Storti
MC  Luglio-Agosto 2007


Laboratorio Kurdistan: un paese in formazione

Il Kurdistan iracheno, formato dai tre governatorati di Dohuk, Erbil e Sulaymaniyah, occupa la parte nord e nord-orientale del paese. Oltre ad essere un’entità geografica, il Kurdistan è anche, nella sua visione più ampia, un «sogno» politico del popolo curdo. Con il dissolvimento dell’impero ottomano, i curdi avevano creduto di poter ottenere un proprio stato, come era stato promesso loro con il «Trattato di Sèvres» del 1920. Gli interessi delle potenze europee e dei nascenti stati nazionali arabi, però, misero fine a quel sogno e il «Trattato di Losanna» del 1923 ne sancì l’appartenenza a quattro stati: Turchia, Iraq, Iran e Siria. Solo con la guerra all’Iraq del 2003 ha potuto assaporare per la prima volta una sorta di autogoverno riconosciuto, anche se non, per ora, indipendente.
Per quanto riguarda i curdi iracheni la loro storia è stata segnata da diverse lotte che li hanno opposti ai vari governi che si sono succeduti nel paese. Particolarmente aspra, è stata l’opposizione curda al regime baathista di Saddam Hussein, culminata con la «Campagna di Anfal» che, dal 1986 al 1988, portò alla morte di migliaia di curdi.
Nel 1991,dopo la sconfitta dell’Iraq nella prima guerra del Golfo, i curdi tentarono di ribellarsi al regime baathista, che reagì con una feroce repressione. A loro protezione venne varata l’operazione «Provide Comfort» che portò all’istituzione di una zona di interdizione al volo (no-fly zone) per gli aerei iracheni, a nord del 36° parallelo.
Grazie a questo ombrello protettivo, i curdi elessero, nel 1992, il primo parlamento regionale, i cui 105 seggi furono così assegnati: 5 ai cristiani, 50 al Partito democratico curdo (Pdk), guidato da Massoud Barzani, e 50 all’unione patriottica del Kurdistan (Puk), guidato da Jalai Talabani, attuale presidente dell’Iraq.
il governo curdo, però, durò solo due anni e da allora, per tutti gli anni Novanta, si succedettero varie lotte intestine, in cui si fronteggiarono militarmente i due maggiori partiti. Tali lotte causarono migliaia di morti e portarono la regione a una situazione di stallo, con il Kurdistan diviso in due zone di influenza: a ovest il Pdk e a est il Puk.
Al momento dell’invasione dell’Iraq del 2003 i curdi si rivelarono alleati preziosi degli usa e delle forze alleate, specialmente dopo il rifiuto dei governo turco di far transitare le truppe statunitensi per il proprio territorio. Nel gennaio del 2006 le due entità politiche curde si riunirono e, nel maggio dello stesso anno, diedero vita al Governo regionale curdo, con capitale Erbil (Hewlèr in curdo). Il governo ha come presidente Massoud Barzani e come primo ministro Nechirvan Barzani, e un parlamento regionale con i propri ministeri.
Per ora il Kurdistan, sebbene di fatto indipendente, fa parte della Repubblica irachena, anche se i suoi dirigenti continuano a invocarne la totale autonomia. Questa richiesta è però avversata sia dal governo centrale di Baghdad, sia dalla confinante Turchia. Quest’ultima, infatti, teme che anche i cittadini curdi che risiedono nei suoi confini siano tentati di richiedere autonomia e indipendenza; cosa che il governo di Ankara non è assolutamente disposto a concedere.
La relativa calma di cui il Kurdistan gode, e che ne ha fatto la terra di elezione per coloro che sfuggono alle violenze del centro e sud dell’Iraq, corre però il rischio di infrangersi. Alla fine del 2007, infatti, si dovrebbe tenere un referendum per decidere la sorte della città di Kirkuk, il capoluogo del governatorato di At-Ta’mim, attualmente facente parte della Repubblica irachena. Negli anni ‘90, questa città venne sottoposta dal regime di Saddam Hussein a una politica di «arabizzazione», che ne limitò la presenza curda e che di fatto ne mutò la composizione demografica. A partire dal 2003, invece, si è potuto assistere a un’opposta politica in favore della popolazione curda. Il referendum dovrebbe dare la possibilità ai suoi abitanti di scegliere se rimanere a far parte del governo centrale o essere ammessi a quello curdo, che ne vorrebbe addirittura fare la propria capitale. Il motivo di questo interesse speciale per Kirkuk è presto spiegato. Ai di là delle varie ragioni di ordine etnico, culturale, religioso o morale, bisogna ricondurre il discorso al cuore di tutti i problemi del paese: il petrolio, sui quale la città di Kirkuk letteralmente galleggia.
Lu.Sto.
Domenica, 20 Aprile 2008 20:31

ASSIRI, SPERANZA DI DIALOGO

«Spero che potrà essere dato un nuovo impulso ai rapporti con la Chiesa assira d’Oriente». E’ quanto ha auspicato il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, in occasione della visita del patriarca Mar Dinkha IV, leader di una tra le più piccole Chiese orientali «precalcedonesi», a Benedetto XVI lo scorso 21 giugno. Secondo il cardinale, infatti, «il dialogo è decisivo nella risoluzione della crisi in Medio Oriente». La Chiesa assira d’Oriente, che oggi conta circa 400 mila fedeli tra l’Iraq e la diaspora, risale ai tempi della prima espansione missionaria della Chiesa primitiva oltre i confini dell’Impero romano, verso la Mesopotamia.

Jesus / Agosto 2007

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