Pregare non significa dire preghiere, e ‘parlare con Dio’ non vuol dire ancora che stiamo pregando. Lc 11, 1-13 potrebbe essere un monologo auto consolatorio.
Non siamo chiamati tanto a pregare, quanto a trasformaci in preghiera. La preghiera non è fare, ma piuttosto questione dell’essere. Se Dio è solo dono, la preghiera è farsi ricettacolo capace di accoglierlo. Più divento ampio più posso essere inabitato da Lui.
Nella pagina di oggi, Gesù invita a «chiedere, cercare, bussare». Ma non per estorcere qualcosa alla divinità, perché non chiediamo per forzare la sua mano, ma per aprire la nostra al suo dono.
Chiedendo ci si fa ampi, recipienti che accolgono, non ciò che si è chiesto ma Lui che è dono, e quindi infinitamente oltre ciò che abbiamo domandato.
«Chi chiede a Dio dei doni, è in una situazione difficile. Adora la creatura e non il Creatore» (Angelo Silesius).
L’Amore non concederà mai quello che desidero, ma piuttosto ciò di cui ho bisogno, perché egli concede sempre all’uomo secondo la sua sete.
Il mio chiedere diventa così unica misura del suo dare, dato che lui «in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare» (Ef 3, 20).
E alla fine «Si alzerà» (v. 8) a dare ciò di cui abbiamo necessità per vivere.
In questo ‘si alzerà’ viene usato – in greco – il verbo della resurrezione: egli è risorto, ha scavalcato la morte, perché si è donato in un amore capace di darsi fino alla fine. Ora il suo dono a noi, rende noi stessi capaci di farci dono a nostra volta ai fratelli che vengono a visitarci nel bel mezzo della notte, mettendo qualcosa da mangiare nel loro piatto. Solo in quel momento ci ‘alzeremo’ anche noi dalle nostre paralisi ‘religiose’ nelle quali pensiamo di essere cristiani nella misura in cui recitiamo preghiere, scoprendoci finalmente risorti e quindi figli dell’Amore.