Religioso Marista
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Il Tibet della Cristianità
di Piero Pisarra
«Ci sono luoghi al mondo in cui la natura sembra offrirsi un santuario, con tutta la ricchezza del simbolismo primordiale: centro, asse, bellezza paradisiaca delle acque. E l'Athos è uno di questi», ha scritto il teologo Olivier Clément.
Monte Athos, Aghion Oros, Santa Montagna. Da più di un millennio il promontorio orientale della penisola Calcidica - secondo la mitologia, fu scagliato in mare dal gigante Athos in collera con Poseidone - richiama monaci e viandanti dell'assoluto. Dell'Athos parlano, nelle veglie attorno al fuoco del grande inverno siberiano, i personaggi di Leskov. All'Athos sogna di andare il Pellegrino russo, autore dei celebri Racconti. E all'Athos, quando le convulsioni della storia si fanno insopportabili, quando le guerre e l'odio lacerano l'umanità, si rivolgono le speranze del mondo ortodosso. Perché l'Aghion Oros non è soltanto un luogo di aspra bellezza, rifugio ideale di asceti in fuga dalle lusinghe del secolo: è anche, come vuole la leggenda, il "giardino della Vergine", precluso a ogni altro volto di donna. Un luogo di battaglie spirituali e di pace, di hesychia, la pace interiore che nasce dalla ripetizione incessante della "preghiera di Gesù" («Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me»), secondo il ritmo della respirazione.
Alla frontiera del mondo greco e del mondo slavo unito dal Mediterraneo ai patriarcati orientali e alla cattolicità latina, l'Athos - aggiunge Clément - sembrava predestinato «a diventare il cuore di una Chiesa che si definisce soprattutto come un mistero di deificazione». Ed è così che è stato visto da intere generazioni di credenti.
Cuore dell'ortodossia, Tibet della cristianità: queste definizioni possono farci sorridere, ma esse hanno affascinato i viaggiatori dei secoli scorsi, gli antenati di Bruce Chatwin e di William Darlymple, che a dorso d'asino - coi loro pesanti bagagli - venivano qui a respirare una dose di esotismo, senza le fatiche di un viaggio nella lontana India. Nel 1834, sir Roben Curzon concluse il suo viaggio tra i monasteri d'Oriente, alla ricerca di antichi manoscritti, qui all'Athos (si veda il suo pittoresco resoconto: Visits to Monasteries in the Levant, Century, Londra, 1983). E quasi un secolo dopo, nel 1926, il giovane Robert Byron, omonimo del celebre lord, vi fece due lunghi soggiorni. Curzon comprò per poche sterline, ingannando i monaci, manoscritti antichissimi. Byron, più disinteressato o squattrinato, si accontentò di raccontare il paesaggio umano e spirituale dell'Athos in un libro che avrebbe influenzato in maniera durevole i travel writer delle generazioni successive (The Station, tradotto sciattamente da Bompiani nel 1952, col titolo Monte Athos). Ma la descrizione più accurata della vita sulla Santa Montagna, prima che i germi della modernità - come lamenta l'autore - introducessero anche qui «gli agi e le usanze mondane», si deve alla penna e al pennello di Fortunato Perilla.
Sfoglio con emozione il Monte Athos del pittore italiano (Parigi e Salonicco, 1926), ricco di xilografie, corredato di acquerelli: monaci dalla lunga barba, con il tradizionale copricapo (lo skufos) oppure con l'abito angelico, il megaloskima dei monaci professi; volti levigati dagli anni, ma da cui emana una luce interiore come nei santi delle icone; novizi coi capelli raccolti a crocchia, secondo l'uso orientale. Perilla non trascura alcun dettaglio: gli affreschi antichi, le reliquie, i sigilli, le simandre, cioè le tavole di legno sulle quali ancora oggi i monaci battono ritmicamente per invitare alla preghiera o al riposo, le fiali, cioè i chioschi con al centro una fontana in cui è così gradevole prendere il fresco nelle sere d'estate.
Sono passati circa ottant'anni, eppure quel libro sembra parlare di oggi. Perché se anche qui trillano i cellulari, se le jeep e le Range Rover hanno sostituito gli asini e i muli, se i monaci non disdegnano Internet e le autostrade telematiche, l'Athos è pur sempre un angolo di Bisanzio sopravvissuto per miracolo agli assalti della modernità. Nulla sembra distinguerlo dall'ambiente circostante, dal resto della penisola Calcidica: qui ritrovi la stessa vegetazione, querce, castagni, cipressi, eucalipti, ulivi, aranci, gli stessi odori di origano e di basilico, la luminosità accecante, i riflessi dorati sull'azzurro dell'Egeo. Ma non appena si arriva nel porticciolo di Dafnì sembra di essere in un altro mondo, in un'altra dimensione. E non solo perché si torna indietro di tredici giorni, calendario giuliano oblige. «Qui il tempo sembra essere fatto di una sostanza differente. E il mondo dei vivi riproduce con tanta precisione quello dei morti e degli antenati che i monaci danno talvolta l'impressione di essere icone animate, ombre di ieri smarritesi nel nostro presente», ha scritto Jacques Lacarrière che all'Athos ha dedicato uno dei suoi libri più belli (L'ètè grec, 1975).
Le icone animate, i primi anacoreti, scelsero questi luoghi, le grotte a strapiombo sul mare, già nel VII e nell'VIII secolo, quando l'impero bizantino era lacerato dalla controversia iconoclasta. Ma il primo eremita venerato dai monaci della Santa Montagna è Pietro, un ex soldato che nelle caverne dell'Athos trascorse cinquantatre anni in solitudine, nel IX secolo. A Pietro l'Atonita apparve in sogno - così racconta la Vita scritta dal monaco Nicola nel X secolo - la Theotokos, la Madre di Dio. «La tua dimora sarà sul Monte Athos che su mia richiesta ho ricevuto in eredità da mio figlio», gli disse la Vergine. «Là quelli che abbandoneranno i turbamenti mondani e abbracceranno le cose spirituali, secondo le loro forze, e invocheranno il mio nome in verità, fede e disposizione d'animo, trascorreranno la vita presente e guadagneranno la vita futura per mezzo di opere gradite a Dio». Secondo la profezia, il Monte Athos si sarebbe riempito di monaci da un capo all'altro. E così avvenne. Non lontano dalle caverne degli eremiti, sorse il primo monastero, fondato da Atanasio, un greco di Trebisonda, amico del futuro imperatore Niceforo Foca.
La prima pietra della Grande Lavra fu posta nel 963. In pochi decenni, sulle tracce di Atanasio l'Atonita, arrivarono, da ogni regione dell'Oriente cristiano e poi anche dall'Occidente, centinaia di uomini: greci, georgiani, slavi del Sud, italiani. Lungo la costa, sorsero i monasteri di Vatopediou, Zografoti, Filotheou, Dochiariou, Xenophontos e Iviron. Serbi e russi arrivarono più tardi, tra l'XI e il XII secolo. Con la benedizione di patriarchi e imperatori, era nata una curiosa Repubblica monastica, uno Stato federale, senza esercito, ma sotto la protezione della Vergine. Accanto ai venti monasteri maggiori o lavre, furono fondate numerose dipendenze, che ospitavano comunità più piccole. Tutte le forme di vita monastica trovarono rifugio nel giardino dell'Athos: da quella eremitica a quella cenobitica e alla idiorritmica, secondo la quale ogni monaco organizza in maniera indipendente la propria vita, con pochi obblighi comunitari. Senza dimenticare i "folli in Cristo" della tradizione russa, dal comportamento che alle cosiddette persone normali può sembrare stravagante, ma che è il segno di una saggezza più alta (quella delle beatitudini). E i sarabaiti, i monaci girovaghi, a volte indicati a cattivo esempio, nella letteratura spirituale, per la loro irrequietezza.
Arrivarono anche i maestri dell'arte bizantina: nel XIV secolo, Manuele Pansélinos e i suoi discepoli affrescarono le chiese di Vatopediou, Chilandari e Karyes, nello stile della cosiddetta "scuola macedone", conciliando ieraticità e umanità nella raffigurazione dei personaggi e degli episodi del Vangelo. Poi, tra il XV e il XVI secolo, si impose lo stile cretese, più austero e di una religiosità tutta interiore. Ai grandi cicli della "scuola macedone", gli artisti di questa nuova corrente - il cui iniziatore fu il grande Teofane di Creta - preferivano composizioni più vicine, nella tecnica e nello spirito, alle icone o alle miniature destinate a favorire la contemplazione e la preghiera. Sull'Athos sorsero vari atelier, laboratori iconografici che nulla avevano da invidiare alle botteghe dei maestri italiani. E anche per la vita spirituale cominciò una fase nuova.
Gli uomini che avevano scelto il nascondimento, che in alcuni casi avevano abbandonato il potere o rinunciato al mestiere delle armi, che avevano lasciato affetti e amicizie, cantavano nel giardino della Vergine, in liturgie interminabili e affascinanti, le lodi al Signore del cosmo e della storia, il Pantocrator di cui vedevano, alla luce tremula delle candele, la figura maestosa negli affreschi o nei mosaici delle loro chiese. Vita angelica: così la tradizione definisce il monachesimo. Ma quella dell'Athos era una vita dura, povera, essenziale, nel rispetto della sobrietà e della vigilanza, la nepsi, che i Padri consideravano come valore fondamentale, per non lasciarsi sorprendere dal nemico in agguato e non essere vinti dalle passioni.
Vita di lotta spirituale e di penitenza, perché - come scrisse Gregorio Palamas in un encomio di san Pietro l'Atonita - «quando la mente si leva al di sopra di tutte le cose sensibili ed emerge dal diluvio turbinoso che le circonda e osserva l'uomo interiore, e vede la ributtante maschera derivata dalla caduta, cerca di lavarla con l'afflizione». Testimoni dell'unità e l'universalità dell'Ortodossia, i monaci atoniti hanno salvato in almeno due occasioni, secondo Olivier Clèment, la Chiesa ortodossa: nel XIV e nel XVIII secolo al momento della polemica sull'esicasmo che scosse l'Oriente cristiano e all'epoca dell'Illuminismo, quando la fede sembrava minacciata dalla dea Ragione.
Nato in ambiente monastico, l'esicasmo (da hesychia) trovò sull'Athos il terreno più fertile. Non soltanto una corrente teologica o un movimento che mette l’accento sulle “energie divine” all’opera nel mondo e che trasfigurano il creato, bensì una via alla contemplazione. Un "metodo" basato sul respiro e caratterizzato da una particolare postura del corpo, la testa raggomitolata tra le gambe. E che anche per questo si attirò il sarcasmo di un teologo come il monaco calabrese Varlaam di Seminara. «Omfalolatri, adoratori dell'ombelico», fu il giudizio sprezzante e superficiale. Gregorio Palamas (1296-1357), che era stato monaco dell'Athos prima di essere eletto arcivescovo di Tessalonica, definiva la vera hesychia come «il ritorno e la conversione della mente a sé», cammino di unità e di pacificazione interiore, illuminato dalla grazia. Il contrario, insomma, del ripiegamento narcisistico su sé stessi o sul proprio ombelico.
L'esicasmo segnò in profondità la vita del monachesimo atonita. E i suoi frutti, dopo periodi di crisi o di stagnazione, si manifestarono nel XVIII secolo, in tutto l'Oriente cristiano, in quella che fu chiamata l'epoca del "rinnovamento filocalico".
Sull'Athos, Macario di Corinto e Nicodemo l'Agiorita compilarono l'antologia che avrebbe rivelato all'Europa, nel clima dell'Illuminismo, la ricchezza della tradizione ascetica e mistica dell'Oriente cristiano, dai Padri del deserto ai grandi "teorici" dell'esicasmo, Gregorio il Sinaita e Gregorio Palamas.
Stampata a Venezia nel 1782, la Filocalia ebbe un impatto fortissimo nel mondo slavo, grazie alla traduzione di un grande maestro spirituale, lo starec Paisij Velickovskij. La "vita angelica" era, dunque, nient'altro che filocalia, amore della bellezza. Al di là del colore, delle lunghe liturgie e dei riti che tanto colpivano i viaggiatori occidentali, l'Athos aveva conservato per secoli, non come un tesoro inaccessibile ma come pratica di vita ascetica, la tradizione dei santi padri, l'insegnamento di Evagrio, di Massimo il Confessore, di Simeone il Nuovo Teologo. Così come aveva custodito gelosamente la tradizione dell'arte bizantina e ne aveva tramandato i canoni in un manuale preziosissimo per gli iconografi e gli studiosi di iconografia: l'Ermeneutica della pittura di Dionisio da Furnà (XVIII secolo).
Ma forse a queste due epoche, all'esicasmo e al rinnovamento filocalico, bisogna aggiungere il periodo della grande glaciazione comunista, quando anche sull'Aghion Oros si preparava la rinascita dell'Oriente cristiano, con i santi anonimi che qui custodivano i tesori spirituali della Santa Russia. O l'epoca immediatamente precedente la rivoluzione sovietica, quando al monastero di San Panteleimonos viveva, facendo il mugnaio, un uomo semplice, senza grande cultura, ma che fu uno dei grandi mistici del XX secolo: Silvano dell'Athos. Un uomo che bruciava di compassione per i suoi simili e per tutte le creature. E che anche nel buio della tentazione o della prova diceva: «Fratello mio, chiunque tu sia, per quanto grande sia il tuo peccato, per quanto oscura sia la tua tenebra, tieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare!».
Nato in uno sperduto villaggio della provincia di Tambov, in Russia, nel 1866, Silvano visse per quarantasei anni sul Monte Athos, fino alla morte nel 1938. «Fin dalla mia infanzia amavo il mondo e le sue bellezze», scrisse nei suoi quaderni spirituali. «Amavo i boschi, i verdi giardini e i campi, amavo guardare le nuvole splendenti e vederle correre nell'azzurro cielo, e tutto il mondo di Dio creato in modo così meraviglioso. Ma da quando ho conosciuto il mio Signore, è cambiata ogni cosa dentro di me, non desidero più contemplare questo mondo, ma l'anima mia è attratta incessantemente verso quel mondo dove si trova il Signore». Per tutta la sua vita, l'ex contadino russo, divenuto uno starec amato e ascoltato, volle essere testimone dello Spirito, «perché lo Spirito Santo è la vita eterna».
Quanti monaci come Silvano, quante altre icone viventi hanno percorso i sentieri dell'Athos? Quante altre storie di santità celano le grotte e i monasteri dell'Aghion Oros? Quanti altri uomini spirituali, veri pneumatikoi, praticano la preghiera di Gesù, alla ricerca dell’hesychia, il silenzio del cuore e dei pensieri, la serenità piena che nasce dalla lotta contro le passioni e che non è indifferenza al mondo, ma una forma più alta di compassione?
Ora, dopo il crollo dell'impero sovietico, l'Athos conosce un'altra fase di rinnovamento. Progressivamente, i monasteri hanno abbandonato il sistema idiorritmico, all'origine di molte contraddizioni e di abusi, per la vita cenobitica. Sotto l'impulso dei monaci di Stavronikita, Iviron, Simonos Petra, hanno riscoperto le radici autentiche della vita monastica, lo studio dei Padri, il valore della nepsi e dell'hesychia. Mai interrotti, i legami con i Paesi di quello che fu il blocco comunista sono ora più frequenti. E anche dai luoghi più lontani della diaspora ortodossa - America, Australia - arrivano nuovi candidati alla vita monastica, nuovi postulanti. L'Athos vive una nuova primavera. Eppure, di tanto in tanto riaffiora la tentazione della chiusura, dell'integralismo, della conservazione gelosa dell'identità ortodossa. Come nel 2003, quando alcuni monaci di Esfigmenou, ribellandosi al Patriarca di Costantinopoli, giudicato troppo aperto, troppo debole verso l'Occidente, issarono la lugubre bandiera: «Ortodossia o morte!».
Battaglie di retroguardia? Scaramucce di una piccola minoranza? Manifestazioni di"zeloti", nemici del dialogo ecumenico, difensori di un ritualismo senz'anima? Certamente. Nella stragrande maggioranza, i monaci disapprovano questo fanatismo, anche se la diffidenza per l'altro, in particolare per i latini (fratelli sì, ma eretici) è ancora forte. Ma è inutile applicare, a una realtà così complessa, troppo riduttive categorie di giudizio, schemi politico-teologici che non reggono alla prova dei fatti.
«L'Athos sconcerta gli occidentali», scrive Olivier Clément nei Dialoghi con Atenagora. «E talvolta di esso si nota soltanto l'aspetto pittoresco o le ombre: la sporcizia, le celebrazioni dall'orario indefinito, la tentazione dell'omosessualità. Ma questo operaio che lavora al mulino è forse uno starec Silvano. La santità non si vede. Tuttavia essa riempie certi luoghi, e l'anima attenta scopre subito che il silenzio delll'Athos è saturo di santità». Saturo di santità e di bellezza.
(da Jesus, agosto, 2004)
Alla luce del nuovo orizzonte tracciato diventa comprensibile che la prospettiva dell'interculturalità abilita il cristianesimo alla pluralità delle culture e delle religioni, che lo abilita all'esercizio plurale della propria memoria e alla rinascita, a partire dalla rinuncia a ogni centro di controllo, con la forza di tutti i luoghi della pluralità.
Anche l'islam storico (alla pari di altre religioni, tra cui il cristianesimo) ha conosciuto la "strumentalizzazione" della religione da parte della politica. Ma questo è l'islam "politico", che fa a pugni con la coscienza moderna dei diritti della persona umana.
Se la domenica è la Pasqua settimanale, la Pasqua è la grande domenica annuale. E se tutta la settimana converge verso la domenica e da essa riparte per vivificare, alla luce del Mistero celebrato, la nuova settimana, così la Pasqua è la meta del cammino quaresimale e sorgente della vita nuova donataci dal Cristo.
L'affaire delle vignette satiriche
di Maria Domenica Ferrari
“La reazione di certi musulmani si situa al di là del surrealismo” inizia in questo modo un articolo dell'ex mufti di Marsiglia Sohieb Bencheick.
Questo breve scritto è una specie di collage di articoli e interventi su blog che darà voce alla maggioranza silenziosa di tutti quei musulmani che in questi giorni si sentono offesi non tanto per le caricature, ma, da una parte per il monopolio mediatico esercitato dagli integralisti e dall'altra dai media occidentali che ne diventano i portavoce.
Alla fine di settembre 2005 un giornale danese ha pubblicato una serie di vignette che avevano come soggetto Muhammad. Dopo le proteste, prima di alcuni paesi musulmani e, poi, della Lega Araba l'affare scoppia alla fine di gennaio quando l'Unione Internazionale degli Ulema, al Cairo, chiede ai musulmani di boicottare i prodotti danesi e norvegesi. Sull'onda delle crescenti manifestazioni di piazza (spontanee?) a fine gennaio le vignette compaiono prima su un giornale norvegese e in seguito su vari giornali europei.
La cosa strana è che il giornale danese abbia giustificato la scelta di pubblicare queste vignette come reazione al fatto che tutti si siano rifiutati di fare disegni per un libro sulla vita di Muhammad. Eppure esistono manoscritti con bellissimi disegni raffiguranti episodi della vita di Muhammad, sono stati fatti film, è il suo viso che viene celato o con un velo, o perché visto di spalle e nessuno ha mai protestato. Che rappresentare Muhammad sia proibito dalla religione islamica lo sostiene solo una piccola parte: gli wahhabiti. Per la maggior parte di essi le vignette, non solo blasfeme, ne si sente offesa, non sono di buon gusto e del tutto innocue, eccetto quella con Muhammad con una bomba sul turbante, che equipara in questo modo musulmano a terrorista.
Lo stesso profeta è stato oggetto di ingiurie ed umiliazioni, tanto penose da indurlo ad emigrare a Medina e ai politeisti di Mecca che lo definivano un impostore rispondeva: “Dio sarà giudice tra noi il giorno del Giudizio”.
Se i cattolici del mondo reagissero nello stesso modo quando sui giornali compaiono caricature sulla Chiesa e scendessero in piazza a milioni bruciando le ambasciate voi li giudichereste dei pazzi. Perché questo non viene fatto quando, come in questo caso, sono una manciata di integralisti musulmani? Perché gli ambienti progressisti giustificano questi musulmani e dicono di non offenderli, di non essere blasfemi?
Gli integralisti impongono alla stessa manggioranza dei musulmani la loro ristretta visione dell'islam, chi non si comporta come loro è accusato di kufr (infedeltà), è contro l'islam, l'unico vero islam è il loro.
E tutti gli altri, compresi gli agnostici e gli atei originari dei paesi musulmani, non hanno la possibilità di far sentire la loro voce, ignorati dai media.
Certo è che questi musulmani che manifestano sono molto ignoranti, ignorano che nel Corano è scritto di trascendere le polemiche e di rispondere ai provocatori con la parola pace.
Come può una religione sicura di sé, solida, fuggire alle critiche, vacilllare innanzi a futili provocazioni?
E' grazie alla libertà d'espressione che l'islam si può esprimere liberamente nei paesi democratici. Nessuno impedisce in Europa ai musulmani di esprimersi liberamente.
Non sono i musulmani a domandare le scuse, sono gli integralisti. Fino a quando in Europa si lasceranno parlare gli integralisti a nome di tutti i musulmani, quando verrà dato alle forze progressiste il posto di interlocutore per iniziare a risolvere quei problemi sociali di lavoro, di integrazione, di riconoscenza sociale su cui fondano il loro proselitismo gli integralisti?
Dov'erano le gerarchie musulmane, le persone che oggi manifestano quando in Algeria uomini, donne e bambini erano sgozzati da gruppi islamisti? Chi infanga la religione islamica e il suo Profeta sono i disegnatori danesi o i gruppi estremisti?
Perché gli stessi giornali europei che oggi sono solidali con il giornale danese non si sono mai pronunciati in favore dei giornalisti algerini che hanno pagato con la loro vita il diritto alla libertà d'espressione?
In realtà il politico viene camuffato da conflitto religioso da entrambe le parti: l'Islam contro Occidente - Cristianesimo contro Islam ovvero il Bene contro il Male.
Per dirla con le parole dell'altro Bencheick, Ghaleb “Non è che scontro delle inculture e degli ignoranti".
Gli strumenti delle Buone Opere
nell'insegnamento monastico di San Bernardo
di Sr. Maria Pia Schindele o. cist.
San Bernardo nei suoi insegnamenti monastici si serve spesso degli “strumenti delle buone opere” (osservanze con le quali i monaci e anche i cristiani dovranno purificarsi), senza menzionare espressamente il quarto capitolo della Regola in cui S. Benedetto indica le condizioni del cristiano (RB 4,1-9), della vita monastica (RB 4,10-40) e della speranza nella grazia santificante (RB 4,41-74). Per queste tre suddivisioni del suddetto capitolo della Regola benedettina presentiamo alcuni strumenti scelti dalla grande quantità proposta da San Benedetto.
1. Amare Dio ed il prossimo
Gli strumenti fondamentali per la vita del cristiano, elencati all'inizio del capitolo quarto sono indicazioni che riguardano l'amore verso Dio e verso il prossimo: “Amerai il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le tue forze” (RB 4,1) e “poi il prossimo come te stesso” (RB 4,2).
Dal momento che Bernardo parla di questo tema nel trattato "Sul dovere di amare Dio", dobbiamo riportare qui i pensieri più importanti.
a) Il trattato "De Diligendo Deo"
Nel trattato "Sul dovere di amare Dio" san Bernardo parte dall'inclinazione naturale dell'uomo verso l'amore, radicato nella sua tendenza all'amore di sé e che può svilupparsi soltanto in rapporto all'amore verso Dio e verso il prossimo. Bernardo spiega, che ogni tentativo dell'uomo di limitarsi all'amore di sé per se stesso, porta alla sua distruzione, perché nessuno può sussistere senza essere giusto. Chi si rifiuta di condividere i beni indispensabili per la vita, li condivide, in fondo, con il nemico della sua anima. Bernardo quindi interroga:
“Non è più giusto e più onesto far partecipe di quei beni non il nemico, ma chi ha la natura in comune con te, cioè il prossimo?” (1).
Più avanti afferma:
“Allora il tuo sentimento sarà equilibrato e giusto, se ciò che è sottratto ai personali piaceri non sarà negato alle necessità del fratello. Così l'amore carnale, essendo esteso alla comunità, si trasforma in sociale” (2).
Bernardo ritiene che: “è quindi atto di giustizia non tralasciar di dividere i doni di natura con chi ha la natura in comune con te” (3).
Lo sviluppo del nostro amore verso Dio, ancora inconscio, presuppone questo comportamento naturale nell'amore; la sua crescita dipende dalla nostra disponibilità ad aprire il nostro cuore a Dio. Per amare rettamente il nostro prossimo, afferma Bernardo, Dio deve essere considerato l'origine di tutto.
“In realtà come si potrebbe amare puramente il prossimo, se non lo si ama in Dio? Ma non si può amare in Dio, se non si ama Dio. Occorre quindi che prima sia amato Dio, perché si possa amare in Dio anche il prossimo” (4).
Bernardo parla dell'aiuto che Dio ci dona nelle nostre necessità e in quelle del prossimo. Questo aiuto ci avvicina a Dio e ci insegna ad amarlo non solo per il nostro interesse, ma per Lui stesso:
“A colui che avrà raggiunto questo grado d'amore non sarà difficile osservare il comandamento relativo all'amore del prossimo. Essendo arrivato ad amare Dio secondo verità, ama anche ciò che appartiene a Dio. Ama in maniera casta, e perciò non gli pesa obbedire ad un casto comandamento, rendendo più casto il suo cuore, come è stato scritto, nell'obbedire alla carità. Ama secondo giustizia e perciò accoglie volentieri un comandamento giusto. Questo amore è ben gradito perché è gratuito. È casto, perché non è profuso in vane parole, ma in opere di verità. È giusto, perché così come lo si riceve, tale lo si rende. Chi ama così, non ama diversamente da come è stato amato, ricercando anche lui a sua volta non il proprio interesse, ma quelle di Gesù Cristo, come egli non ha ricercato il suo interesse, ma il nostro, o meglio noi” (5).
Dopo averci spiegato il precetto dell'amore, Bernardo parla ancora di un altro tipo di amore verso Dio, interamente donato dalla grazia, in cui l'amore naturale di sé, raggiunge nella “dimenticanza di se stesso”, il perfezionamento dell'amore. Bernardo descrive tale stato spirituale con queste parole: “Arrivare a questo sentimento significa indiarsi” (6).
È l'offerta di Dio a noi, che cerchiamo la cosiddetta “realizzazione di noi stessi”. Le persone che hanno fatto una simile esperienza, tornano alla vita quotidiana, anelando con tutto il cuore l'adempimento della richiesta del Padre nostro: “Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra” (Mt 6,10). Bernardo esalta questo stato d'animo quando esclama:
“O amore santo e casto! O sentimento dolce e soave! O volontà schietta e purificata, tanto più schietta e purificata in quanto non vi rimane commisto nulla che sia personale, e tanto più dolce e soave, in quanto tutto ciò che si avverte è di origine divina! Arrivare a questo sentimento significa indiarsi” (7).
2. Imitazione di Gesù Cristo
Bernardo addita nei suoi diversi sermoni gli strumenti delle buone opere che riguardano in particolare la vita monastica:
- Rinunziare interamente a se stesso per seguire Cristo (RB 4,10);
- mortificare il proprio corpo (RB 4,11);
- rendersi estraneo alla mentalità del mondo (RB 4,20);
- non anteporre nulla all'amore di Cristo (RB 4,21).
a) Il Sermone nel mercoledì della Settimana Santa
Nel sermone del mercoledì della Settimana Santa Bernardo raccomanda questo strumento delle buone opere: “Rinunziare interamente a se stesso per seguire Cristo” (RB 4,10) e ci ricorda i patimenti di Cristo per la nostra salvezza quando afferma:
“Nella sua vita ebbe un'azione passiva, nella sua morte sopportò una passione attiva, per operare la salvezza sulla terra” (8).
Bernardo esorta a considerare che il Signore mediante la sua fortezza divina e la sua somiglianza con la natura umana, ci salva se siamo decisi ad imitarlo e di conseguenza, a seguirlo, perciò afferma:
“La sua forza e la sua somiglianza dunque agisce in me a condizione che non manchi l'imitazione, seguendo le sue orme” (9).
Inoltre egli ci pone davanti l'esempio di coloro che hanno seguito questa strada:
“Questa imitazione è per me una validissima prova, sia la Passione del Salvatore, sia la somiglianza dell'umanità, vengono per mia utilità” (10).
b) Il Sermone sul versetto: "Il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo" (Mt 13,44)
Nel Sermone 65° De Diversi, che, in riferimento al versetto del Vangelo di San Marco, è intitolato: “Il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo”, Bernardo medita sullo strumento delle buone opere: “Mortificare il proprio corpo” (RB 4,11). In questo sermone afferma:
“Il campo è il corpo. Quando è ancora dominato dalle passioni dei desideri, esso giace incolto e vittima della maledizione, produce spine e rovi, e non si sa cosa nasconda al suo interno” (11).
Poi riguardo al nostro corpo precisa:
“Non sai cosa vi è nascosto? Cosa se non il "regno dei cieli”? Trovare nel corpo questo regno significa produrre quelle opere di salvezza che permettono di conquistare il regno dei cieli. Compra dunque il campo e libera dalle concupiscenze il tuo corpo, pagando il prezzo richiesto, vendendo ciò che fomenta e stimola le concupiscenze stesse” (12).
c) Il sesto Sermone sull'Ascensione del Signore
Nel sesto sermone in occasione della solennità dell'Ascensione, Bernardo, medita sullo strumento delle buone opere: “Rendersi estranei alla mentalità del mondo” (RB 4,20).
“Tutti, se non sbaglio, con l'intelligenza della fede e il giudizio della ragione, cerchiamo le cose di Lassù; però forse non tutti gustiamo allo stesso modo delle cose di lassù, dal momento in cui viviamo presi, fino a un certo punto, dalle cose di questa terra con una veemente attrazione” (13).
Poi aggiunge: “si esaurisce il flusso dell'olio, dove mancano i recipienti vuoti” (Cfr. 2Re 4,3-6), vale a dire, se siamo pieni delle cose del mondo ci vengono a mancare le grazie divine.
Ci esorta dunque a prendere in considerazione che: “da ogni parte si infiltra in noi l'amore del mondo con le sue consolazioni, o meglio con le sue desolazioni; spia le vie d'accesso, irrompe all'improvviso e prende in possesso il cuore” (14).
Bernardo ci ammonisce a gioire della vera e santa letizia nel Signore che però, percepiamo soltanto, se rinunciamo alle gioie terrene, perché non può stare insieme “il vero con il falso, l'eterno con il caduco, lo spirituale con il carnale, il sublime con il basso”.
d) il terzo Sermone sul salmo 90
Nel terzo sermone sul salmo 90 Bernardo esorta a “non anteporre nulla all'amore di Cristo” (RB 4,21), ci induce dunque a riflettere intensamente sull'amore di Cristo, l'amore che il Signore vuole dai suoi discepoli. Dice infatti:
"I mondani, quando li esortiamo a fare penitenza, rispondono: "È duro questo linguaggio”. È appunto ciò che leggiamo nel Vangelo. Allora il Signore parlava proprio di penitenza, ma in figura, come a gente alla quale non è concesso di conoscere il mistero del regno di Dio. E sentendolo dire: “Se non mangerete la carne del Figlio dell'uomo e non berrete il suo sangue... Molti dei suoi discepoli dopo aver ascoltato dissero: "Questo discorso è duro” e se ne andarono (Gv 6,53.60)” (16).
Dal momento che Bernardo vede nel Signore “il sacramento primordiale”, contempla il legame fra l'eucaristia e la vita di Gesù. Dice quindi a proposito dell'amore verso Gesù Cristo:
“Che cosa è infatti mangiare La sua carne e bere il suo sangue se non prendere parte alle sue sofferenze e imitare La condotta che egli tenne durante la sua vita terrena? Per cui, l'illibato sacramento dell'altare nel quale riceviamo il corpo del Signore ci insegna che come le specie e le apparenze del pane entrano visibilmente in noi, così dobbiamo pensare che egli stesso entra in noi con quella condotta che egli tenne sulla terra, per abitare nei nostri cuori mediante la fede. Quando, infatti, entra nelle nostre anime la giustizia, è colui che per opera di Dio Padre è divenuto per noi giustizia che entra. Così pure "colui che sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui" (l Gv 4,16)” (17).
3. Vivere nella speranza della salvezza
Riguardo al gruppo degli strumenti delle buone opere che hanno per tema principale la nostra speranza nella salvezza (RB, 4,41-74), Bernardo, ci offre in diversi sermoni le sue indicazioni. Approfondisce soprattutto i primi tre:
1. “Riporre la propria speranza in Dio (RB 4,41);
2. se uno scorge in sé qualche cosa di buono, lo attribuisca a Dio, non a se stesso (RB 4,42);
3. sappia invece che il male è sempre opera sua e se ne ritenga responsabile lui solo” (RB 4,43)
a) Il nono Sermone sul Salmo 90
Il sermone nono del salmo 90 è intitolato: “Sì, tu, Signore, sei la mia speranza, hai posto in luogo altissimo il tuo rifugio”, (cf. v. 9). Bernardo spiegando questo versetto commenta lo strumento delle buone opere: “Riporre la propria speranza in Dio” (RB 4,41).
“Nessuno può dire dal profondo del cuore "tu, o Signore sei La mia speranza” all'infuori di colui, che, per un'intima convinzione proveniente dallo spirito... getta sul Signore il proprio affanno” (18).
In riferimento al versetto del salmista: “Hai posto in luogo Altissimo il tuo rifugio”, Bernardo dice: “Fuggiamo spesso fratelli, verso questo riparo è un luogo fortificato, là non c'e da avere paura di nessun nemico” (19).
Gli dispiace, però che in questa vita questo non sia possibile:
“Quello che ora è rifugio, un giorno diventerà dimora, e dimora eterna. Per adesso, anche se non ci è dato di rimanervi, bisogna almeno ritornarci spesso. Infatti, per ogni tentazione, per ogni tribolazione, per qualsiasi necessità sta aperta per noi una città di rifugio, abbiamo un seno materno largo per accoglierci...” (20).
La meta altissima di ogni speranza è il Signore stesso, per spiegarlo Bernardo commenta il brano del salmista “Tu Signore sei la mia speranza”.
“Le parole forse dicono qualcosa di più grande e più sublime, cioè che egli non soltanto spera nel Signore, ma che spera il Signore stesso... Forse vi sono alcuni che bramano di ottenere dal Signore beni corporali o spirituali di ogni specie, ma l'amore perfetto ha sete soltanto del bene sommo e grida con desiderio ardentissimo: “Che c'è per me in cielo e che cosa desidero da te sopra la terra? O Dio del mio cuore e mia porzione, o Dio, in eterno! (cfr Sal 73, 25-26)” (21).
b) Il Sermone: "Le sei giare della purificazione"
Nel sermone 55 “De Diversi" intitolato “Le sei giare della purificazione" Bernardo indica questi due strumenti delle buone opere:
1. “Se uno scorge in sé qualche cosa di buono, lo attribuisca a Dio, non a se stesso e
2. sappia invece che il male è sempre opera sua e se ne ritenga responsabile lui solo” (RB 4,42-43).
Bernardo, fra le sei giare della purificazione, menziona al secondo posto la forza purificatrice del canto dei salmi, afferma che l'uomo che prega attraverso la salmodia con cuore sincero, sarà mondato dalla lode di se stesso e dal disprezzo di Dio e descrive l'effetto di questa purificazione:
“Una volta che uno si converte e confessa il suo peccato ed è istruito nei cantici divini, dopo aver corretto il suo modo di vivere, corregge anche le parole: accusa se stesso e attribuisce a sé i suoi mali; loda invece Dio e, il bene che vede in sé lo attribuisce a Lui non a sé. Tutto questo lo si canta nella salmodia” (22).
c) Il primo Sermone nella Festa dell'Annunciazione del Signore
San Bernardo che nei suoi diversi sermoni cita spesso san Paolo, medita i suddetti strumenti delle buone opere (RB 4,42-43) alla luce del versetto ai corinzi: “Questo infatti è il nostro vanto: la testimonianza della coscienza...” (2Cor 1,12).
Il primo sermone per la festa dell'Annunciazione inizia con le parole del salmo 84:
“Affinché la gloria [di Dio] abiti nella nostra terra, la misericordia e la verità si sono incontrate, la giustizia e la pace si sono baciate (v. 10-11). Poiché questo è il nostro vanto insegna l’Apostolo, la nostra coscienza” (23).
Questa testimonianza non ha niente in comune con quell'orgogliosa e falsa del fariseo (cfr. Lc 18,11-12), poiché è vera soltanto la testimonianza che ci dà lo Spirito stesso.
“Io credo che tale testimonianza consti di tre elementi. Anzitutto credere che non puoi ricevere il perdono dei peccati, se non per la misericordia di Dio; poi che non puoi fare alcuna opera buona se non ti dà egli stesso di farla; infine che non potrai meritare la vita eterna con le tue opere, se egli non te la desse come dono gratuito” (24).
Infine Bernardo insegna:
“Riguardo il perdono dei peccati, ho un argomento molto più valido: la passione del Signore... È stato messo a morte per i nostri peccati. Ora, non vi è dubbio che è più potente ed efficace per il nostro bene, la sua morte, che non i nostri peccati, per la nostra disgrazia. Quanto poi, alle buone opere, l'argomentazione più valida per me, ritengo, sia la risurrezione, perché "egli è stato risuscitato per la nostra giustificazione" (Rm 4,25). Inoltre, quanto alla speranza del premio, ne è testimonianza la sua ascensione, poiché egli ascese al cielo per la nostra glorificazione” (25).
NOTE
1) Le Opere di san Bernardo, a cura di F. Gastaldelli, Scriptorium Scriptorium Claravallense, Fondazione di Studi Cistercensi, Milano 1984, vol. I, De Diligendo Deo, VIII, 23, p. 305, (d'ora in poi Dil).
2) Dil. VIII, 23, p. 305.
3) Dil. VIII, 24, p. 307.
4) Dil. VIII, 25, p. 307.
5) Dil. IX, 26, p. 309.
6) Dil. X, 28, p. 313.
7) Ibid.
8) SAN BERNARDO, Sermone nel Mercoledì della Settimana Santa, 11.
9) Ibid.
10) Ibid. 12.
11) Le Opere di san Bernardo, a cura di F. Gastaldelli, Scriptorium Scriptorium Claravallense, Fondazione di Studi Cistercensi, Milano 2000, vol. IV, Sermoni diversi e vari, LXV, 1, p. 417, (d'ora in poi Div.
12) Div. LXV 1, p. 417.
13) SAN BERNAROO, Sermone sull’Ascensione del Signore, 6, 8.
14) Ibid.
15) Ibid.
16) SAN BERNARDO, Sermoni sul salmo 90, introduzione, traduzione e note a cura di I. Teli, Scritti monastici 20, Edi. Abbazia di Praglia 1998, 3,3, p. 19.
17) Ibid. 3,3, pp. 19-20.
18) Ibid. 9,6, p. 76.
19) Ibid. 9,7, p. 78.
20) Ibid.
21) Ibid. 9,8, p. 78-79.
22) Div. LV 1, p. 307.
23) BERNARDO DI CHIARAVALLE, Sermoni per le feste della Madonna, Ed. Paoline, sec. ed. rev., Milano 1990, Nell’Annunciazione del Signore, 1, 1, p. 141.
FONTI
Le opere di San Bernardo, testo latino/italiano, a cura di E Gastaldelli, Scriptorium Ciaravallense, Fondazione di Studi Cistercensi, vol. I, De Diligendo Deo, Milano 1984; Sermoni diversi e vari, vol. IV, Milano 2000.
SAN BERNARDO, Sermoni sul salmo 90, a cura di I. Tell, Scritti monastici 20, Abbazia di Praglia 1998.
S. BERNARDO Dl CHIARAVALLE, Sermoni per le feste della Madonna, a cura di Giorgio Picasso, Ed. Paoline 1990.
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Teologie a confronto:
Paul Tillich e Karl Barth
di Renzo Bertalot
Con la salita di Hitler al potere nel 1933 Karl Barth e Paul Tillich perdono le loro cattedre in Germania. Il primo trova rifugio in Svizzera e il secondo negli Stati Uniti d'America. Gia si è scritto molto su questi due teologi che hanno segnato profondamente la teologia del XX secolo. Non si tratta quindi di insistere sui contenuti delle loro opere, ma soltanto di rilevarne alcuni punti che hanno caratterizzato la loro testimonianza.
Insieme hanno partecipato alla crisi della società borghese che si era affermata con il liberalismo precedente. Le chiese avevano fatto il loro nido, con una certa soddisfazione, accanto ai poteri costituiti ed erano entrate in crisi per il crescente allontanamento del proletariato e dei giovani sempre più attratti dalle promesse di una secolarizzazione crescente.
Per Karl Barth e Paul Tillich era giunto il momento di far riemergere tutta la forza dell'Evangelo che contesta sempre le nostre sicurezze e riorienta il divenire della comunità cristiana.
Vi fu innanzi tutto una rinnovata attenzione di carattere politico. Il socialismo religioso di Paul Tillich e il socialismo democratico di Karl Barth erano entrambi tesi all'ascolto delle nuove esigenze della società e al carattere profetico delle attese che andavano manifestandosi. Si incarnava così un nuovo modo di vivere in riferimento alla riscoperta dell’Evangelo.
Intanto tra i due teologi si erano inseriti altri elementi. La distanza tra l'Europa e l'America e i venti di guerra che stavano preannunciando nuove catastrofi, non facilitavano i contatti delle rispettive esperienze.
Paul Tillich lasciò l'Europa con grande amarezza non certo per risentimenti personali, ma per la convinzione della maledizione della storia europea e della demonia della cultura tedesca che si era affermata. "La Germania sopra tutti" non aveva convinto solo i politici ma anche gli spiriti più avvertiti dell'epoca. La malattia radicale era dovuta al "provincialismo", cioè al metro con il quale andiamo costantemente misurando gli altri e li troviamo sempre mancanti. Gli Stati Uniti offrivano un crocevia di culture che, offrendo ognuna il meglio di se stessa, dà un carattere veramente universale alla ricerca e allo studio. Paul Tillich conobbe anche la contestazione pratica che ebbe modo di apprezzare. Al termine delle sue dotte lezioni gli veniva posta la domanda: "A che serve?" L'esistenzialismo europeo, al quale Tillich faceva spesso riferimento, si presentava come una corazza ingombrante per i popoli dell'America e dell'Asia: non era conforme al loro modo di intendere la vita.
La nozione di angoscia va curata dal medico in casi nevrotici, ma la scienza è impotente quando si tratta di mancanza di significati e di senso di colpa. Tuttavia, a sua grande meraviglia, Paul Tillich incontrò un russo che non conosceva affatto l'angoscia.
Per Tillich dalla nostra angoscia nascono gli interrogativi sulla nostra esistenza. Bisogna indagare attentamente per individuare i valori definitivi perché non possiamo dare risposte a domande mai poste! L'uomo non può che formulare interrogativi che per lo più puntano verso l'idolatria. La risposta viene solo (extra nos) dalla Parola di Dio.
Per Karl Barth la situazione è diversa. Si trovò impegnato nell'opposizione al nazismo cominciando con la stesura delle tesi di Barmen (1934) e il sostegno alla chiesa confessante che respingeva l'atteggiamento dei cristiano-tedeschi, perché non contestavano apertamente le avventure hitleriane. Barth era molto vicino a Bonhoffer che, per la sua opposizione manifesta al nazismo, venne impiccato.
Paul Tillich e Karl Barth condividono con termini molto forti il rifiuto di ogni teologia naturale: una teologia dalla situazione anziché rivolta alla situazione. La teologia e la filosofia non vanno confuse. Per Barth il teologo che dal basso (è in cammino inverso dell'incarnazione) tenta di risalire a Dio è un "criptoteologo" e il filosofo che parte dall'alto per fare della filosofia di questo mondo è un "criptofilosofo".
Per Tillich la teologia e la filosofia non vanno confuse. Tra di loro non v’è sintesi, non v'è terreno comune, perciò una filosofia cristiana è una "disonestà filosofica". Bisogna saper vivere sulla linea di confine. La religione (la religiosità) non produce fede anche se costituisce la sostanza della cultura e la cultura le dà una forma.
Tuttavia per entrambi una filosofia della religione, pur non essendo necessaria, può essere utile per indagare le forme della nostra religiosità. Da un lato ci aiuta a superare le nostre superstizioni e i nostri pregiudizi e dall'altro ci ricorda la nostra umanità (Cristo vero uomo). Non abbiamo strumenti sterili e non condizionati per parlare della rivelazione!
Sia Barth sia Tillich sono riconoscenti a Kant per averci liberati dalla metafisica dei "visionari" e ridotto le nostre dissertazioni entro i rigorosi limiti della ragione e del fenomeno. Per Tillich, Kant si conferma come "filosofo del protestantesimo". Per molti contemporanei Kant riesce sempre a riaffermarsi dopo il crollo o il tramonto delle varie filosofie.
Per Tillich il mondo creato da Dio non è stato abbandonato come una nave senza timone nella tempesta. Dio gestisce la storia e ne prende le redini nei momenti da lui ritenuti opportuni. È quindi in atto una vittoria di Dio sia pure frammentariamente e saltuariamente, sulle nostre distorsioni e i nostri fallimenti. Questa vittoria, per chi ha occhi per vedere e orecchi per udire rende la nostra storia trasparente. E la storia del Christus Victor!
Anche per Barth meno propenso ad indagare quello che passa nella mente del filosofo (o di qualunque uomo) siamo tuttavia strutturati in vista del nostro destino del Regno di Dio La creazione non gli è estranea: v’è un’analogia creationis.
Con entrambi assistiamo ad una concentrazione cristologia riguardo alla teologia sistematica. Per Barth la cristologia è tutto o siamo di fronte al vuoto. Già nel 1957, riprendendo con Hans Kùng il tema della giustificazione per fede, prevedeva che tra cattolici e protestanti si andasse evidenziando una stessa fede, non più alternativa anche se formulata in maniera diversa. Per Tillich il pensiero teologico gravita intorno al Nuovo Essere che si esprime in Gesù il Cristo.
Intanto si affacciano all'attenzione delle nuove generazioni altri problemi di grande attualità. Qual è il rapporto con le altre religioni? Per Tillich bisognerà interrogarsi sullo Spirito Concreto nella prospettiva del pan-en- tei-smo: tutti raccolti in Dio.
Per Barth nelle varie religioni ci sono delle parole vere, buone, autentiche e notevoli: sono combinazioni o luci non concorrenziali con Dio.
Un'ultima parola sull'uomo: Barth rovescia la tesi di Cartesio "cogito ergo sum". È importante affermare invece "cogitor ergo sum". Quello che io penso di Dio può essere significativo e importante per le nostre biblioteche, ma è decisivo sapere quello che Dio pensa di noi. Io sono quel che sono all'interno del suo pensiero. Chi cerca se stesso non troverà nulla; chi è trovato da Dio troverà se stesso.
(da: Quaderni di Studi ecumenici, Fede e cultura, 8, I.S.E. Venezia)
Perché mentre noi e i farisei digiuniamo i tuoi discepoli non digiunano?”
Lombardini, partigiano disarmato
di Luca Maria Negro
«Ditegli che con lui credo nella realtà della nostra fratellanza cristiana internazionale, che si erge ai di sopra di tutti gli interessi e conflitti nazionali, e che la nostra vittoria è certa». Sono le ultime parole dl Dietrich Bonhoeffer, un messaggio per l'amico George Bell, vescovo dl Chichester. È significativo che l'ultimo messaggio del teologo e martire luterano prima della morte (avvenuta il 9 aprile 1945) sia rivolto a un vescovo anglicano, e abbia per oggetto il movimento ecumenico di cui Bonhoeffer fu uno dei pionieri. I sessant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale sono un'occasione preziosa per fare memoria di questo e di molti altri «martiri ecumenici» che hanno testimoniato e difeso la purezza del Vangelo negli anni della guerra. La proposta di creare un «martirologio ecumenico» è uno dei recenti contributi cattolici al movimento ecumenico: l'idea è stata cara a Giovanni Paolo II; la comunità di Bose ha compilato un voluminoso «Libro del martiri» ecumenico e a Roma la basilica di San Bartolomeo all'isola Tiberina è stata dedicata ai «Nuovi Martiri»: tra di essi cattolici e ortodossi del Ventesimo secolo, ma anche protestanti come Bonhoeffer e il pastore Paul Schneider.
Da un punto di vista protestante - e particolarmente da quello di un protestantesimo minoritario con una storia di secolare persecuzione, come quello italiano - la proposta del «martirologio ecumenico» non è esente da aspetti problematici. Vi è intanto la diversa concezione che i protestanti hanno della santità (che tuttavia non ci impedisce di fare memoria dei testimoni-martiri della fede). Vi è soprattutto la sensazione che, prima di arrivare a una memoria comune del martiri del Ventesimo secolo, occorrerebbe operare una «guarigione delle memorie» delle ferite che i cristiani si sono reciprocamente inferti nei secoli precedenti. Tale guarigione implica, in Italia, il recupero della memoria delle centinaia di nomi di martiri della persecuzione (anti-eretica prima e anti-protestante poi) che giacciono nell'oblio più totale. Qualcuno di questi comincia ad essere ricordato, come quello del pastore valdese Goffredo Varaglia da Brusca (Cuneo), a cui il Comune di Torino, il 15 novembre 2000, ha dedicato una lapide in piazza Castello, luogo in cui fu arso nel 1558. Alla cerimonia ha partecipato, fra gli altri, mons. Pietro Giachetti, vescovo emerito di Pinerolo.
In ogni caso i due «martirologi», quello del Ventesimo secolo e quello relativo ai secoli dell'inquisizione e delle guerre dl religione, non sono alternativi, ma complementari. E per contribuire alla memoria dei «nuovi martiri» vorrei ricordare, nel sessantesimo anniversario della morte, un protestante italiano: Jacopo Lombardini, predicatore laico metodista e insegnante presso il Collegio Valdese di Torre Pellice. Lombardini è stato uno degli ultimi martiri della seconda guerra mondiale, perché fu ucciso in una camera a gas di Mauthausen proprio alla vigilia della liberazione, il 24 aprile 1945. Educatore, poeta, antifascista convinto, raggiunse i partigiani di Giustizia e libertà nelle Valli Valdesi del Piemonte con li doppio ruolo di «commissario politico» delle Brigate e di cappellano valdese. Ruolo, quello di cappellano, che svolse anche nei confronti dei partigiani cattolici, pur nel pieno rispetto della loro identità. Partigiano disarmato, durante tutta la Resistenza non imbracciò altra arma che la Bibbia e, come ricorda Giorgio Spini, «non odiò mai i fascisti», giungendo a «supplicare la grazia della vita per una spia catturata e destinata alla fucilazione». Arrestato in un rastrellamento, Lombardini proseguirà li suo ministero di cappellano anche nel lager, dapprima a Fossoli (Carpi) e poi a Mauthausen. In quel campo «non vi erano più preti» - ricorda un compagno di prigionia, il cattolico Nino Monelli - «ma Lombardini non esitava a rincuorare i suoi fratelli cattolici nella loro propria fede. Ripeteva loro che il sacrificio dei giusti è utile alla patria e gradevole a Dio. E in quei giorni non si domandava che di credervi! E se, nell'abbrutimento raccapricciante della disperazione dovuto alla fame e alla sensazione di catastrofe imminente, i giovani italiani non caddero in eccessi irriferibili, anche questo fu dovuto all'azione di Lombardini».
(da Mondo e Missione, giugno-luglio 2005, p 25)
La prova del diabolico
di Marie Balmary (1)
Le religioni monoteistiche riconoscono un solo spirito del male, una creatura che può entrare nell'uomo e possederlo. Il male si trova allora a essere incarnato? Lo si è creduto e per molti secoli un potere religioso ha voluto risolvere questo male bruciando posseduti e streghe…
Quando compare la medicina scientifica, essa rifiuta ogni soprannaturale. Per essa non esiste né possessione diabolica né miracolo. Tuttavia, nel secolo XIX, alcuni medici dell'anima umana che cercavano di comprendere disturbi come l'isteria, si trovano di fronte a un curioso ritorno e Freud può scrivere all'amico Fliess (17 maggio 1897) (2) : “Tu ti ricordi di avermi sempre sentito dire che la teoria medievale della possessione, sostenuta dai tribunali ecclesiastici, era identica alla nostra teoria del corpo estraneo e della dissociazione del cosciente. Perché le confessioni estorte con la tortura assomigliano tanto ai racconti dei miei pazienti durante il trattamento psicologico?”.
Freud si lancia allora nella sua autoanalisi, viaggio agli inferi in cui incontra “forze oscure venute dal fondo dell'anima” che in seguito paragonerà al diavolo (3); l'inconscio, le pulsioni sessuali rimosse, il padre seduttore… “Il rispetto degli Antichi per il sogno dimostra che essi presentivano giustamente l'importanza di quel che l'anima umana custodisce di incontrollato e di indistruttibile, il potere demoniaco che crea il desiderio del sogno che ritroviamo nel nostro inconscio”. (4) Con l'ipotesi dell'inconscio, il diavolo che i Lumi avevano fatto scomparire trova una nuova abitazione. Il “possesso” diventa malattia e non colpa.
Localizzato nella psiche umana
Si presenta allora un problema: se il diavolo è ormai localizzato nella psiche umana e non più nel mondo soprannaturale, verranno invalidate le pagine della Scrittura che lo riguardano? Oppure, per un imprevisto rovesciamento, possiamo farne una lettura nuova? Tentiamo.
Il diavolo compare principalmente in tre racconti, due nella Bibbia e uno nei vangeli. Dapprima nell'Eden (5): “Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna. Il serpente era la più astuta (nuda) di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio”.
Mentre l'uomo e la donna non si sono ancora riconosciuti differenti, la menzione della loro nudità e l'apparizione del serpente nudo si seguono immediatamente. Il serpente, simbolo maschile quant'altri mai, si rivolge alla donna, presentandole il sesso che essa non ha. Questo sesso-serpente è una riprova che il dio non ha dato tutto agli esseri umani, poiché li ha fatti mancanti di qualche cosa e la donna è la prima ad accorgersene. In precedenza, fra la formazione dell'uomo e quella della donna, il dio aveva posto una proibizione: non mangiare dell'albero della conoscenza del bene e del male. Il serpente, parlando alla donna, presenta il dio come colui che vuole conservare per sé solo la conoscenza divina. Per diventare “come dei” il serpente incita gli esseri umani a non accettare limiti. Questo discorso del serpente è diabolico, perché la proibizione data dal dio era al contrario l'accesso alla parola, il limite che consente a due soggetti di trovarsi l'uno di fronte all'altro senza mangiarsi. Il sessuale non simbolizzato… il diabolico seduttore…, non è forse ciò che Freud, anche lui, aveva incontrato?Nei vangeli (6) Gesù affronta il diavolo. È lo stesso? Quest'uomo che risale da un battesimo, è stato chiamato “figlio” da una “voce dal cielo”; egli è condotto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo. “Allora il diavolo gli disse: Se tu sei figlio di Dio… ”, provalo comandando alla materia: (“…dì che questi sassi diventino pani”), alla morte: (“…dal pinnacolo del tempio… buttati giù”) e a tutti gli altri uomini: (“…tutti i regni della terra… ti darò… se ti prostri dinanzi a me”). Il diavolo fa del tutto-potere, del tutto-godere la prova della filiazione divina. E Gesù risponde con parole della sua tradizione che gli consentono di sventare le parole di Satana e di smascherarlo.
Senza continuare a lavorare su questo testo, sul quale ci sarebbero tante cose da ricercare, me ne ritorno alla Bibbia dove si trova la storia più lunga del diavolo. Giobbe (7), l'uomo integro. E tuttavia… “i suoi figli solevano andare a fare banchetti in casa di uno di loro, ciascuno nel suo giorno, e mandavano a invitare anche le loro tre sorelle per mangiare e bere insieme. Quando avevano compiuto il turno dei giorni del banchetto, Giobbe li mandava a chiamare per purificarli; si alzava di buon mattino e offriva olocausti secondo il numero di tutti loro. Giobbe infatti pensava: Forse i miei figli hanno peccato e hanno benedetto - l'autore non ha osato scrivere “maledetto” - Dio nel loro cuore. Così faceva Giobbe ogni giorno.”
Dei sacrifici per annullare, non una colpa reale commessa dai figli, ma una colpa immaginaria supposta da lui, Giobbe. Colui che crede di incarnare il Bene suppone negli altri il male e colpisce - qui a colpi di sacrifici preventivi e illimitati (“tutti i giorni”). Certo Giobbe non bombarda i suoi figli, ma annulla la loro parola. Ora, ecco il seguito: Satana, parlando con Dio, gli dice che Giobbe non è per niente integro, ma che lui, Dio, “ha messo una siepe intorno a lui”. Ma, aggiunge Satana, “tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!”. E infatti quando Giobbe ha perduto tutto, persino la pelle, egli “aprì la bocca e maledisse il suo giorno; prese a dire: Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: È stato concepito un uomo!”.
Ciò che esce dalla bocca di Giobbe quando infine “apre la sua bocca” è molto vicino a quel che supponeva nei suoi figli: egli maledice, non il suo dio, ma “il giorno” che da Lui ha ricevuto, e vorrebbe abolire la sua nascita. Così la voce chiamata “Satana” portava veramente in sé ciò che Giobbe rimuoveva: il desiderio di maledire la propria vita, lui l'uomo troppo perfetto che non aveva accesso a “ciò che l'anima umana custodisce di incontrollato”, come dice Freud, se non proiettandolo sugli altri. È forse una coincidenza? all'inizio del libro le tre figlie di Giobbe non avevano casa (andavano dai fratelli). Alla fine Giobbe, finalmente chiamato “loro padre”, nomina le sue tre figlie e “le mise a parte dell'eredità insieme con i loro fratelli.” Aveva dunque all'inizio misconosciuto l'immagine di Dio, il maschile e il femminile.
La diabolizzazione degli altri
Il diabolico sarebbe insieme interno alla psiche e emanerebbe dalla relazione con gli altri, là dove un limite è stato misconosciuto o violentato: non soltanto i limiti dei sessi e delle generazioni, ma anche quelli che separano l'umano dall'animale e dal divino, il vivo dal morto, e tutti gli altri… Il diavolo non è forse rappresentato il più sovente come un miscuglio: un volto di uomo, dei seni, una lunga coda? Ciò che l'uomo non può intendere dalla sua anima incontrollata, un giorno o l'altro gli ritorna. O diabolizza gli altri, come Giobbe al principio. Oppure prende la strada della parola, ancora come Giobbe - parlare del proprio dolore, dire la propria collera contro l'origine… Rimane la soluzione di Gesù, ma sono pochi coloro che trovano al primo impatto nella prova del diabolico il simbolismo che ne viene a capo.