Ho avuto l’onore di condividere con voi le mie riflessioni sulla sfida dell’evangelizzazione e delle prospettive ecumeniche in Europa, nel contesto moderno e postmoderno dell’Ortodossia. Quale Ortodossia? - dobbiamo chiedere. L’Ortodossia vista dall’esterno come un grande museo dell’antichità, colmo di antiche icone, decorato dalle cupole dorate, ricco di veri tesori spirituali accumulati nei secoli e custoditi nei depositi del sottosuolo del mondo contemporaneo? Il museo non è mai vuoto; è sempre pieno di visitatori ecumenici, a volte con le lacrime agli occhi, pieni d’ammirazione. Ma le visite, come tutte le visite, non durano a lungo. Tranne in alcuni casi, non tanto eccezionali, quando i visitatori nostalgici rimangono nel museo per sempre. Loro diventano i guardiani più vigilanti, ben intenzionati, che non amano sentir parlare dei cosiddetti “problemi” della loro nuova patria che li ha accolti. Per loro l’Ortodossia, secondo le parole romantiche di Rilke sulla Russia (per lui era la stessa cosa), ha una frontiera comune con il Regno di Dio. Non possiamo non essere d’accordo con questa visione, ma c’è anche un’altra Ortodossia che non ha nemmeno la frontiera con un altro regno sulla terra, a volte il più disumano che ci sia. Queste due Ortodossie sono abitate, diciamo, dagli aborigeni, nati lì o convertiti, tornati alla terra natale. Nei paesi post-comunisti, non solo in Russia, la maggior parte dei credenti sono i “primi chiamati”, provenienti da famiglie ancora sovietiche, cioè, atee. O almeno dai nonni sovietici. Loro vivono il proprio rapporto con Dio nel segreto della storia personale, nel banchetto privato del Regno, ma anche nella storia sociale più dura. La cultura e la tradizione ecclesiale è comune per tutti i fedeli, ma la divisione tra le persone che pregano nella stessa Chiesa, nella stessa parrocchia, può essere più tagliente della divisione tra la destra e la sinistra, comune in Occidente.
Prima di condividere con voi il cammino che sto per prendere, devo fissare il mio punto di partenza. Mezzo secolo fa sono entrato in questo tesoro magico: immobile, incantevole, che è rimasto per sempre il mio mondo, ma con gli anni da persona che gode la festa in cui mi sono trovato grato ospite, sono diventato colui che prova anche a ragionare. Queste due esperienze vivono in me, cercano la reciproca comprensione, ma spesso discutono tra loro. L’icona del Santo non è soltanto la pittura, il legno con l’immagine sopra, ma anche l’uomo riconosciuto nella santità. Confessiamo la nostra fede non soltanto nelle formule conciliari, ma anche sui volti e sugli occhi dei nostri confratelli.
Il credo afferma la fede nella Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica, ma per tante Chiese quest’unità esiste solo dentro se stesse. L’unità si appoggia sulla formula classica di Vincenzo di Lerino: è da credere ciò che sia stato creduto da sempre, ovunque, da tutti, ma spesso questi tutti viene allargato oltre alla Chiesa locale, anche alla nazione, alla nostra area culturale e geografica. All’unità spezzata ormai da mille anni tra Roma e Costantinopoli, si è aggiunta poco fa la dolorosa divisione tra Costantinopoli e Mosca, tra il Patriarcato ortodosso con il numero più grande di fedeli ed il Patriarcato ortodosso, che canonicamente è riconosciuto come primus inter pares. Alcune Chiese (il Patriarcato d’Alessandria, la Chiesa Greca…) rimangono dalla parte di Costantinopoli, mentre le altre parteggiano per Mosca o piuttosto preferiscono rimanere in silenzio. In questo caso siamo testimoni di uno scisma clamoroso tra due universi, della stessa confessione, mai visto nella storia della Chiesa d’Oriente (tranne la rottura con Costantinopoli per un breve periodo dopo il Concilio di Firenze del 1439, che Mosca a quell’epoca aveva recepito come un tradimento). Il Credo Niceno-Costantinopolitano rimane lo stesso, la Tradizione, la vita spirituale, i maestri della fede sono comuni, ma in pratica, secondo la logica canonica per la Chiesa di Mosca la Chiesa di Costantinopoli è come non ci fosse. Non è la fede che importa, ma il buon comportamento politico.
Confessando la nostra fede nell’unità, ci rendiamo conto che l’unità non c’è. Crediamo nella cattolicità che nella nostra lingua teologica e liturgica s’esprime come conciliarità, ma almeno quattro Chiese ortodosse non sono venute al Concilio di Creta nel 2016 e non considerano le sue decisioni come vincolanti. Se nel primo caso lo scisma è stato causato dalla creazione della nuova Chiesa Ucraina autocefala per opera della cattedra di Costantinopoli, nel secondo la spettacolare non partecipazione ad un Concilio preparato insieme da decine di anni, è stata creata dall’uso – diciamo “sbagliato” – di una parola sola, ma carica di un significato cruciale: la Chiesa. La Chiesa, secondo l’interpretazione letterale o fondamentalista, non può mai essere usata al plurale, la sua singolarità non va messa in discussione. Questo rifiuto non ha soltanto il fondamento puramente scritturistico ma anche popolare, cioè culturale, psicologico. Nella mentalità dell’Oriente non si è spenta ancora un’opposizione secolare a tutto ciò che proviene dalla Chiesa d’Occidente. I teologi potrebbero a ricorrere alla soluzione cattolica del Vaticano II: la Chiesa di Cristo “soggiorna” o “si trova” nella Chiesa Romana evitando il verbo “è” che senza compromessi afferma l’uguaglianza tra la Chiesa a cui apparteniamo e la Chiesa che Cristo aveva edificato. La Chiesa ortodossa nel suo insieme, dopo tutto il suo cammino ecumenico, già più di un secolo si è fermata sulla soglia di questa formula, non soltanto per ragioni teologiche, ma anche per motivi realistici; la maggior parte del popolo dell’Europa dell’Est potrebbe non sostenere questa decisione.
Ma non è questo il motivo principale. Siamo di fronte a due realismi separati quasi da un muro: quello puramente teologico, che ha poco in comune con la vita ecclesiale com’è, e quello pratico, condizionato dalle necessità di questo mondo, soprattutto politiche. Queste due realtà non soltanto coesistono, ma quasi non si distinguono. Vi sono anche due verità: una è simbolica, spirituale, quasi celeste, l’altra è di qua, del mondo caduto che vive secondo le sue regole e le proprie passioni. Di più: la seconda verità usa la logica puramente religiosa e canonica per fare i propri affari sulla terra. Non si tratta, certo, di un fatto nuovo e mai visto; tutta la storia del cristianesimo è trafitta da quest’opposizione tra due tipi di logica che a volte finisce con lo scontro e con la rottura, anzi, con lo scisma. Lo scisma esiste anche nella nostra coscienza; noi ortodossi, noi cristiani, da tempo siamo abituati a vivere in due mondi e spesso non vediamo che essi si trovano in aspro contrasto. Questo problema, che esisteva da sempre, è venuto fuori in una maniera clamorosa con la guerra russo-ucraina.
Scoppiata il 24 febbraio, questa guerra ha svegliato nel mondo ortodosso tante sfide palesi e crisi nascoste o marginalizzate e mai guarite. Si tratta del problema sempre dolente del rapporto tra lo Stato e la Chiesa, il cui atteggiamento verso la guerra attuale è soltanto un caso particolare, ma il più doloroso. Senza andare in un passato troppo lontano, ad esempio all’epoca di Pietro il Grande, dalla quale secondo le parole di Dostoevskij, la Chiesa Russa si trova paralizzata, consideriamo soltanto il secolo XX, quando con la rivoluzione del febbraio del 1917 la Chiesa Russa ha ottenuto la piena libertà, ma che è stata subito soppressa. Il Concilio di Mosca, convocato nell’ottobre dello stesso anno, proprio durante la rivoluzione bolscevica, ha ripristinato il sistema patriarcale (dopo Pietro il Grande il governo della Chiesa era sinodale), procedendo all’elezione del Patriarca Tikhon.
La situazione fu drammatica: la Chiesa finalmente libera dalla mano zarista, favorevole ma spesso pesante, è entrata in una società nella quale qualsiasi libertà, prima di tutto la libertà di coscienza, è stata condannata a morte. Non in teoria ma in pratica. Senza dubbio la Chiesa non poteva rimanere un’isola autonoma sotto il regime dittatoriale. La vera paralisi si è sviluppata dopo la morte del Patriarca Tikhon, nel 1925, quando la Chiesa ha ufficialmente annunciato la propria resa incondizionata al sistema statale deicida con la Dichiarazione del Metropolita Sergio Stragorodskiy del 1927. Lui l’ha firmata (ma non è sicuro che l’abbia scritta di persona) dopo l’arresto di tutti i candidati al trono patriarcale e dopo tre sue brevi carcerazioni, nella speranza di salvare la Chiesa dalla distruzione totale, ma anche dal movimento modernista interno alla Chiesa, ispirato dal potere. In questo documento egli ha giurato in nome della Chiesa Ortodossa Russa la propria fedeltà ad un potere violento e antireligioso. Ha sacrificato o è stato costretto a sacrificare la libertà della Chiesa, o quel poco che rimaneva di essa, allo Stato che ha cominciato un feroce attacco a qualsiasi “oppio del popolo”: cattolico, protestante, musulmano, ebreo – ma prima di tutto ortodosso. In seguito a questa resa centinaia di parrocchie si sono staccati dal suo capo formale, sono diventate clandestine, per essere poi praticamente tutte eliminate durante la persecuzione staliniana, insieme alle decine di migliaia di parrocchie leali, dette “serghiane”, che a parole avevano ricevuto il permesso d’esistere. Negli anni ‘30 nessuna lealtà ha potuto salvare qualcuno.
Non si tratta di un pezzo lontano della storia, la ferita di questo scisma non si è mai cicatrizzata e per capire l’Ortodossia russa – e non soltanto russa – bisogna sapere queste cose. Dall’opposizione al “serghianesimo” è nata la Chiesa degli ortodossi veri (come loro preferiscono chiamarsi), o piuttosto le Chiese delle catacombe, schiacciate un tempo, risuscitate poi negli anni ‘90, di nuovo quasi clandestine sotto l’attuale regime. Il problema non è sparito con il crollo dell’Unione Sovietica. La Chiesa “ufficiale” rimane sempre a fianco dello Stato, ostile o benevole, non solo a livello del Patriarca, ma anche e soprattutto a livello delle diocesi. Dico “ufficiale” perché al suo margine esiste anche un gruppetto di Chiese non ufficiali, cosidette non-canoniche sulle quali nessuno presta attenzione nel mondo globale cristiano, ma che sono abbastanza influenti all’interno dell’Ortodossia. Soprattutto adesso, da quando l’invasione dell’Ucraina che ha colpito il mondo con le sue atrocità e con l’appoggio incondizionato della Chiesa allo Stato, è diventato insopportabile per tanti ortodossi. Il comandamento “Tu non ucciderai” è stato calpestato in nome di un patriottismo basato su di una minaccia estera puramente immaginaria e su una difesa della patria gonfiata fino al grottesco.
Nella Tradizione ortodossa la guerra può essere giustificata solo come difesa in caso d’attacco della potenza straniera. Così affermavano i Padri della Chiesa, così dice anche la Dottrina Sociale della Chiesa Russa elaborata sotto la guida dello stesso patriarca Kirill quando era ancora metropolita. Le buone intenzioni sono una cosa. In realtà qualsiasi guerra può essere presentata come difensiva. È sempre facile inventare il nemico. Il problema non è la collaborazione della nomenclatura ecclesiale con il regime che versa il sangue innocente. Il problema ecclesiale è l’infezione della fede ortodossa con la credenza pagana, quando l’Ortodossia serve come copertura per una politica chiaramente imperialista.
La fede in Cristo come Salvatore e Redentore è stata offuscata dal mito patriottico per cui con l’aggressione contro un nemico immaginario, non ci si accorge non soltanto della morte incalcolabile di civili, ma neanche degli innumerevoli danni causati alla stessa Russia. Abbiamo perso la nostra sobrietà, una delle virtù più importanti nella spiritualità ortodossa. Ma Cristo, cito le parole di Giovanni Paolo II, è “il più grande realista nella storia”. Per tutte le nostre chiese non c’è un’altra soluzione, tranne quella di tornare alla realtà iniziale, vista dal Vangelo, del quale Cristo rimane l’unico padrone. Ma il problema più pungente è la vulnerabilità del cristianesimo, non solo ortodosso, a causa dei miti statali, laici, conservatori, liberali. Nessuno è illeso da queste malattie, ereditarie o nuove che siano.
Non si può dimenticare neanche il fatto che la Chiesa Russa, e non soltanto russa, ma tutto il mondo ortodosso nel XX secolo, ha subito persecuzioni (uccisioni dei preti, torture, arresti, demolizioni delle chiese) in proporzioni inaudite. Nessuna Chiesa avrebbe potuto uscire da un’esperienza così traumatica, rimasta per sempre nella propria memoria genetica, quasi nel subconscio. Nel senso che la Chiesa Russa è stata in tal modo vaccinata contro qualsiasi conflitto con lo Stato per secoli e subisce la tentazione di confondere lo Stato con il popolo. Ma neanche il popolo in senso etnico può essere il punto principale del riferimento ecclesiale. In Russia oggi il 70% della popolazione si proclama ortodossa, mentre l’1,5% è realmente praticante. Il vecchio modello nel mondo ortodosso, non soltanto russo: Chiesa – Stato – Popolo (oppure Impero - Nazione – Chiesa), dove due di questi termini, quando cercano di acquistare le prerogative divine somigliano a idoli, poiché vogliono diventare uno, non tre. Questo cosiddetto modello costantiniano, superato in Occidente, ma quasi pietrificato nell’Oriente cristiano, non funziona più da nessuna parte. Questo modello ha il suo fondamento teologico, anche spirituale, nell’idea bizantina della cosiddetta “sinfonia”, che si appoggia sulla credenza tradizionale che il potere di un cesare qualsiasi, anche ostile alla fede, sia espressione del potere divino e che ha anche il diritto di punire la chiesa come vuole. Questa visione che segue il modello medievale, non vede la Chiesa come soggetto indipendente dalla società nella quale si trova, perché la Chiesa stessa si capisce come spazio dell’eternità sulla terra, senza preoccupazioni per il regime che domina questo spazio.
Che cosa significa per l’Ortodossia un simile modello nella situazione attuale? Prima di tutto che l’etnofiletismo della Chiesa Russa e dell’Ortodossia in generale, tante volte negato in teoria e tante volte confermato nella pratica, è arrivato ad un punto estremo che si pone contro i fondamenti dell’Ortodossia stessa che si pensa come confessione universale. Tutti hanno sentito che la Chiesa Russa ha elaborato il concetto del cosiddetto “russkij mir”, il mondo russo, che serve oggi come base ideologica-ecclesiale anche alla guerra. Dove c’è il mondo russo non può esserci il mondo ucraino. Questa dottrina proclama che tre popoli slavi: russi, ucraini, bielorussi (che appartenevano all’impero zarista, poi sovietico), siano un popolo solo, nel senso culturale e religioso. E s’intende uno solo anche in senso politico e statale. Dunque toglie agli ucraini la propria identità nazionale, mentre essi combattono proprio per questo. Anzi, per gli ucraini, i veri Russi sono loro, battezzati a Kiev nel 988, nella culla del cristianesimo slavo; i cittadini della Federazione Russa sono soltanto moscoviti. Quest’autocoscienza di una nazione in cui si risveglia l’identità nazionale anche in senso ecclesiale, è considerata in Russia alla stregua di un nazismo aggressivo, che minaccia anche in modo militare.
Forse, abbiamo perso la strada nella foresta di questi nazionalismi e populismi? Non c’è altra uscita che tornare alle sorgenti della fede cristiana, nel senso di ricominciare il nostro cammino dall’inizio, senza perdere le nostre ricchezze spirituali, liturgiche, artistiche, accumulatesi in due millenni. Ricominciare per riscoprire Cristo anche nella tragedia attuale. Non soltanto uscire dalla conchiglia dell’etnofiletismo, una vera trappola per l’Ortodossia, ma anche dalla memoria della paura, delle prove, delle sofferenze, della propria autocoscienza di Chiesa strettamente nazionale. Uscire dall’autorità statale, ma anche dal potere dell’opinione pubblica. L’Ortodossia, con le vicende tragiche del secolo scorso, può attingere forza spirituale dall’esperienza del martirio, della migrazione di massa, della perdita della patria.
Il secolo XX per gli ortodossi è stato il secolo dei martiri e dei profughi. Ve lo ricordo in modo brevissimo. La prima ondata è stata quella greca dopo la sconfitta nella guerra con i turchi nel 1912, che ha creato la sua Ortodossia nazionale negli Stati Uniti e in Europa. La seconda ondata è stata quella russa dopo la Rivoluzione del 1917, poi durante e subito dopo la Seconda Guerra mondiale, quando una parte della popolazione durante l’occupazione tedesca ha potuto lasciare l’Unione Sovietica. Poi negli anni ‘70, con le frontiere chiuse, l’emigrazione con il pretesto del ricongiungimento familiare, spesso fittizio, in Israele. Poi, negli anni ‘90 il nuovo espatrio con le frontiere aperte. Infine, l’attuale quinta ondata, con l’esodo provocato dalla guerra alla quale milioni di persone non vogliono partecipare. Negli anni ‘90 è partita un’emigrazione economica massiccia, molto più importante di quella russa, dalla Romania; come dall’Ucraina, dalla Moldova, dalla Serbia, dall’Albania e anche dalla Georgia. Naturalmente in questi mesi alla povertà si è aggiunta l’emigrazione dei profughi ucraini e non tutti loro torneranno a casa, qualunque sia l’esito della guerra. Tutti questi torrenti umani venuti dai diversi paesi, un secolo fa o negli anni più recenti, hanno istituito le proprie chiese, avute in prestito o costruite dal nulla. Questa è la nuova realtà europea, non soltanto sociale, ma anche ecclesiale. Già adesso, solo in Italia, hanno trovato rifugio non meno di due milioni di ortodossi, o almeno di origine ortodossa e un po’ di meno in Germania. Tantissimi bambini nascono nelle loro famiglie con due madrelingue, due identità culturali e religiose.
Noi ortodossi, però, abbiamo portato in Occidente i nostri doni, ma anche i nostri problemi e vizi, di cui il primo non è soltanto l’etnofiletismo, ma direi la “ghettizzazione”, in senso proprio religioso. La “ghettizzazione” è lo stesso etnofiletismo, ma in esilio. All’estero, le chiese sono sempre nazionali in modo ostentato non solo nella lingua della celebrazione, ma anche nella mentalità della comunità, un po’ ripiegata su se stessa. In Italia abbiamo 6 o 7 patriarcati ortodossi nazionali che sono in comunione formale tra di loro, ma separati in realtà. Tutti questi patriarcati si chiamano canonici (ve ne sono anche altri non canonici). Ma secondo gli stessi canoni su un territorio, in un paese, dovrebbe esistere una solo Chiesa, nel nostro caso la Chiesa Ortodossa Italiana, secondo il principio di San Paolo: ogni territorio ha la sua chiesa. “La Chiesa di Dio in Corinto” oppure dell’Europa Occidentale, ove si possono contare 8-9 milioni di persone (in maggioranza rumene) di origine ortodossa. Quasi tutti i teologi sono d’accordo che dalle comunità ortodosse fuori dei confini nazionali dovrebbe nascere un’unica Chiesa, ma se tutti possono essere d’accordo in linea di principio, in pratica chi lo vuole? Ogni Chiesa giustifica la sua unicità con la preoccupazione per le cure spirituali dei propri connazionali. Ma in Italia sta crescendo già la seconda generazione dei figli nati qui, di madrelingua italiana, senza parlare della Francia, della Germania, degli Stati Uniti, dove vive già la quarta generazione di profughi che spesso non conoscono la lingua dei loro bisnonni. Essi, però, vanno solo in chiese russe, greche, rumene… e non sbagliano mai la strada…
Per quanto riguarda il nostro sogno d’unità cristiana, diciamo che il maggior ostacolo all’unità da parte ortodossa consiste non tanto nelle divisioni dogmatiche, ma nella posizione d’indifferenza nei confronti di un altro, poiché “io non ti conosco”. Nelle Chiese ortodosse questo fenomeno è ancora più visibile a causa della debolezza delle attività sociali. La gente s’incontra per le celebrazioni liturgiche, ma quasi mai per la celebrazione delle opere comuni. Siamo entrando in un’epoca in cui le comunità cristiane diventano di nuovo piccole, come isole in un mare pagano. Ma anch’esse possono essere infettate dal paganesimo, quello dello Stato autoritario e quello del consumismo.
In Occidente, però, le comunità ortodosse sono libere dalla dipendenza politica, vivono in un regime laico e sono in minoranza. Ma il piccolo può essere bello come focolaio dell’evangelizzazione e si può partire proprio da qui. Le comunità ortodosse, anche queste già nate in esilio, come quelle che adesso stanno per nascere, sono composte da pellegrini, da profughi, da persone con l’identità fragile e nostalgica. Torniamo di nuovo alla visione della Lettera a Diogneto “Ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera”. In queste comunità tutti i membri si conoscono, condividono le gioie e le preoccupazioni, spesso cercano di aiutarsi reciprocamente. Se un giorno potranno uscire dal proprio “incapsulamento” confessionale, dalla loro separazione reciproca su base etnica, potranno allora scoprire la propria Ortodossia per portarla agli altri. L’unità inter-ortodossa, aldilà delle frontiere nazionali, rimane per ora un sogno, ma un giorno quando quel sogno diventerà realtà, essa potrà aprire nuovi orizzonti anche per l’unità cristiana.
Ci sono due tipi di comunità ortodosse in Occidente; alcune hanno la faccia rivolta al mondo che li circonda, altre voltano la schiena, vivono nella torre d’avorio confessionale, senza nessun motivo di guardare gli altri. Spesso si chiamano “veri ortodossi”, diversamente da quelli “sedotti” dal dialogo e dall’ecumenismo. La loro ecclesiologia proviene dall’immagine della Chiesa perfetta, ideale, medievale che non cambia mai, dai tempi degli apostoli e i dei primi Padri della Chiesa. La Chiesa non cambia per loro non soltanto sul piano sociale, ma anche spirituale. Questa posizione è intransigente, stretta, e a modo suo anche eroica perché ci si sente circondati dai nemici ed eretici. Con questa ecclesiologia della perfezione le loro comunità stanno diventando sette e come quasi tutte le sette si appoggiano su di una visione apocalittica della fine del mondo e sulla promessa che la salvezza sia promessa solo a se stessi. Non è un fenomeno del tutto marginale; una parte importante della presenza ortodossa in Occidente rimane “fondamentalista”, anche se questa parola non si trova nel nostro vocabolario.
Un’altra parte è quella che vuole uscire da questa gabbia dorata, riscoprire la propria vocazione universale, cioè evangelica. Credo, però, che il vecchio ecumenismo – quello delle commissioni teologiche, che non partoriscono nulla, delle preghiere di amicizia, recitate insieme, dello scambio delle visite quasi turistiche, ecc., - credo che questo stadio sia già superato e che si trovi in impasse. Abbiamo bisogno di una testimonianza nuova, che io chiamerei della riscoperta. Di nuovo riscoprire il nostro Signore comune, che, come dice San Paolo, ieri, oggi e sempre è lo stesso. Con gli stessi doni.
Dopo aver parlato a lungo sui problemi dell’Ortodossia, facciamo il giro, parlando su suoi doni, con i quali possiamo partire con la nuova evangelizzazione e la ricerca dell’unità. L’unità adesso non è tanto l’accordo, quanto un ritorno, una scoperta secondo Karl Barth. Se scopriamo la verità che esiste già non soltanto nel lontanissimo passato ma anche nel futuro, che forse non è ancora chiaro, ma che è imminente poiché il mondo in cui viviamo ci spinge verso la rinascita del cristianesimo stesso. Non si può inventare l’unità da capo, ma si può ritrovare la sua nuova identità. Ogni secolo, ogni generazione, come credo io, ha un compito ricevuto da Cristo: di riscoprirlo nella fede, nell’esperienza attuale, nel pensiero, anche nelle prove. Questa riscoperta può anche dare inizio all’evangelizzazione del tempo in cui viviamo. Certo nel clima attuale del gelo tra l’Oriente e l’Occidente, della micidiale guerra in Ucraina che ha reso tutte le cose ecumeniche dieci volte più difficili. Ma c’è anche un momento, direi “positivo”: siamo arrivati al punto critico, da dove possiamo fare una svolta e tornare ai doni che vogliamo condividere, al vangelo di domani che è sempre lo stesso.
Quali doni può portare all’Europa d’oggi questa Ortodossia strappata dai conflitti interni, così dipendente dallo Stato, coperta dalla secolare polvere bizantina? Proviamo rispondere con la domanda eterna: “per voi chi dite che Io sia”, e la risposta eterna di Simone, figlio di Giona: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio Vivente”. Scrutiamo di nuovo il mistero dell’Incarnazione, come noi lo capiamo e lo viviamo per capire noi stessi? Cerchiamo di rispondere non con le definizioni dogmatiche, ma con le parole dello stesso Pietro che sui doni ricevuti da Cristo scrive nella sua Seconda lettera:
“…Ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventaste per loro mezzo, partecipi della natura divina...” (2Pt 1,4).
“Partecipi alla natura divina....” Chi ha dato il coraggio all’Apostolo di parlare della partecipazione all’inaccessibile natura divina? Il Padre che per mezzo dello Spirito ha rivelato a un semplice pescatore il mistero del Dio Vivente, ma anche il mistero dell’uomo che accoglie Dio in sé. Questo dono enorme fu soltanto un pegno della Rivelazione futura. Esso si è completato con la discesa dello stesso Spirito nel giorno della Pentecoste. Ormai non si può dividere il Figlio di Maria e il Figlio del Dio Vivente, perché la realtà di Gesù Cristo per noi proviene non solo dalla nostra venerazione dell’Uomo Gesù, ma prima di tutto dall’azione dello Spirito che vive in noi. “Nessuno può dire: “Gesù è Signore” se non sotto azione dello Spirito Santo”; dice San Paolo (1 Cor 12,3). “Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio” – dice la stessa cosa l’apostolo Giovanni (1 Gv 4,15).
La nostra partecipazione alla natura Divina è la comunione. La Parola e lo Spirito fanno parte di questa natura, si rivelano nel Volto di un predicatore itinerante che è vissuto 2000 anni fa, in mezzo al popolo d’Israele, ed è anche la Seconda Persona della Santissima Trinità. La fede riempita dalla Parola, portata dallo Spirito Santo, ci fa partecipi dell’irraggiungibile natura divina e l’Ortodossia prende sul serio questa confessione apostolica. Questa partecipazione inizia con il riconoscimento sempre nuovo di Cristo nel cuore umano.
Il cuore, nel suo concetto biblico, è il centro vitale, ma anche il centro spirituale dell'uomo ed è più profondo dell'uomo stesso. L'intelletto, la mente, non è l’ultimo fondamento della vita umana, ma secondo le stupende parole dello stesso Pietro è "l'uomo nascosto nel cuore" (1 Pt. 3,4). E l'uomo che io sono, l'uomo empirico, peccatore, nella visione ortodossa si trova nella fatica della ricerca permanente di questo uomo nascosto, creato da Dio. Ma anche Dio cerca l’uomo nel suo cuore. Un santo russo del diciannovesimo secolo, Serafino di Sarov, dice: "Il Signore cerca il cuore, pieno di amore verso Dio e verso il prossimo, il cuore è il trono della Sua gloria. Figlio mio, dammi il tuo cuore e tutto il resto ti darò in più, perché nel cuore umano è tutto il Regno di Dio".
Anche la conoscenza di Dio proviene dalla conoscenza dell'uomo conosciuto da Dio. Cerco di conoscere Dio perché Dio mi ha conosciuto prima. La pratica spirituale ortodossa vuole portare Cristo nel cuore capace d’accogliere Dio ed essere accolta dalla natura divina. Come? Con l’amore, con la preghiera, con l’Eucaristia. Si può parlare dell'Eucarestia in diversi modi: dal punto di vista dogmatico, liturgico, spirituale, ecclesiologico, escatologico, ma lo scopo finale è sempre la comunione con Dio nella persona di Gesù Cristo, morto e risorto, presente e vivo nei Sui doni, nel Suo Regno ch’è dentro di noi. L’Eucaristia, in senso profondo e teologico, è la partecipazione alla natura divina; in senso concreto, è la partecipazione liturgica all'Ultima Cena del Signore; in senso ecclesiale, è l'attualizzazione della Chiesa come Corpo di Cristo. La parola chiave, nei tre casi, è la partecipazione. La partecipazione al mistero dell’umanità di Gesù che si rivela di nuovo ed è la radice dell’evangelizzazione nella spiritualità d’Oriente.
"La natura della Chiesa stessa è eucaristica” - dice il teologo ortodosso Kiprian Kern. L'Eucarestia è un atto con cui Dio ci unisce nel Corpo del Cristo, fa eco un altro teologo, Nicolai Afanasiev. Nell’Eucaristia Cristo diventa la radice della deificazione della natura umana. L'uomo deve diventare Chiesa perché la comunione con Cristo ci fa Corpo del Cristo. Il corpo umano in questo caso è lo strumento, ma anche il tempio dello Spirito. La vita comune si fa cammino verso la deificazione dell'uomo, che può avvenire solo per azione dello Spirito Santo. Quando il sacerdote dice: “I santi doni ai santi”, al momento della consacrazione del pane e del vino, proclama la santità del Corpo di Cristo presente nella comunità dei credenti – che è anche un popolo di peccatori. Questo Corpo è unito nell'unità escatologica della Parusia. La Chiesa opera l’atto della ri-unione dell'umanità che vive in Cristo. Questi santi doni possono essere anche i doni spirituali e lo scambio dei doni può portare all’unità, che oggi sembra così lontana.
"Egli infatti sapeva ciò che vi era nell'uomo" (Gv. 2, 25). Ed in ogni uomo, nella sua profondità - tranne le debolezze, l'egoismo, l’egocentrismo personale e collettivo ed il peccato -, c'è anche una grande nostalgia e un amore spontaneo che cerca il suo Sposo. Da questa fonte umana, dove il peccato è mescolato con la ricerca di Dio, nasce la preghiera. Il suo primo compito è di liberare l’amore di Dio e di vincere il peccato che è nient’altro che un ladro dell’amore.
Non sono doni nuovi, è vero. Ma la novità più essenziale è il ritorno alla novità della Buona Novella. Nella prospettiva ecumenica l’uomo è lo stesso su tutti i continenti, in tutti i tempi; ogni cristiano può riconoscere se stesso in un altro. Oggi “ll mondo cristiano è frantumato perché le confessioni non si conoscono”, disse il grande teologo russo Pavel Florensky. Questa ignoranza proviene non solo dall’assenza dell’informazione, ma a volte anche dalla sfiducia reciproca, piuttosto nascosta che dichiarata. Così in un ambiente sia polemico, sia ecumenico, nel cuore dell’Ortodossia sorge ogni tanto una domanda: davvero le altre Chiese credono nello stesso Cristo in cui crediamo noi? O si tratta solo di un “buon Gesù”, ridotto all’avventura puramente umana, uscito dal nostro sentimentalismo o rivestito delle cosiddette recenti scoperte scientifiche? Ma si può parlare solo dell’infinita “dolcezza” di Gesù, senza ricordare che Lui è anche il Giudice? Si può creare l’immagine del Salvatore partendo delle nostre idee, dai nostri gusti, come i pittori del passato rivestivano i personaggi biblici con gli abiti della loro epoca?
San Paolo dice: “…se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio l’ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (Rm. 10, 9). ΚΥΡΙΟΣ ΙΗΣΟΥΣ. Il Verbo che si è fatto carne si è sottomesso al ritmo della vita umana con la nascita, la sofferenza, la morte. Il Signore abita fuori delle nostre stagioni, ma Egli è sempre il Dio con noi, nella nostra storia attuale. La Sua età include l’abisso del passato, ma anche l’immensità dell’avvenire che si perde nell’orizzonte. Ma dove si trova quel ponte che unisce le due realtà che la ragione umana fa tanta fatica ad unire, ma che il cuore è capace di credere e la bocca di confessare? Come si può entrare in quell’avventura del credere? La risposta è già nell’invito di Gesù: “Prendi parte nella gioia del tuo Signore” (cf. Mt. 25,21). Prendiamo questa parte insieme, condividiamo la gioia dei primi giorni della Buona Novella, anche se essa può portare le lacrime del vivere con la croce della storia e ricominciamo la strada verso l’unità.
Sì, l’Ortodossia oggi sembra essere in una situazione poco invidiabile. Eppure essa non ha sprecato ancora le sue ricchezze, le possiamo sempre riscoprire nella Chiesa che secondo le parole di Sant’Ireneo “si ringiovanisce sempre”.