Ecumene

Venerdì, 10 Maggio 2019 09:39

Esigente ebraismo (Emmanuel Lévinas)

Vota questo articolo
(1 Vota)

È probabilmente caratteristica del popolo ebraico vivere e sopportare, già nella sua eccezionale storia e nella precarietà della sua condizione e della sua collocazione sulla terra, l’incompiutezza di un mondo sperimentata a partire dall’esigenza, irriducibile e urgente, della giustizia nella quale risiede l’essenza del suo stesso messaggio religioso.

La religione, indipendentemente dalle posizioni metafisiche ed escatologiche enunciate o implicite nei discorsi e nei riti che la raffigurano, può, certo, anche esprimere o sostenere alcune strutture sociali. Può giustificare gli interessi particolari dei gruppi dominanti e servire da ideologia in maniera tale che i loro membri si plasmino la buona coscienza necessaria alla loro dominazione e al loro pensiero di benpensanti. E' probabile che, come le altre confessioni, la religione ebraica sia, in un certa misura, in grado di prestarsi ai bisogni della classe privilegiata alla quale gli ebrei possono unirsi nella società occidentale contemporanea ed è probabile inoltre che alcuni di loro abbiano potuto svolgere questo ruolo di classe privilegiata anche in seno alle comunità di un tempo separate, escluse e sempre minacciate.
Malgrado ciò è evidente che la religione dalla quale sarebbero dipesi i privilegi possibili in un ghetto costituiva di per sé stessa il pretesto della ghettizzazione, dell'esclusione e dell'esposizione ad un arbitrio che non risparmiava nessuno; e che, ammessa tardi alla condizione di realtà confessabile, la società ebraica del nostro tempo conserva, fin negli strati della sua borghesia, considerati soddisfatti, un sentimento di incertezza e di instabilità. La Passione chiamata «olocausto» e tutto il passato di prove del quale questo sacrificio avrà per sempre riattualizzato i ricordi, proiettano sull’avvenire l’ombra di un punto interrogativo. Niente in questa religione di sopravvissuti assomiglia meno alla buona coscienza e alla sicurezza di un ordine stabilito.
Nessuna religione, certo, si esaurisce in canoni di conformismo, di dominio e di fondazione economica. Ma è probabilmente caratteristica del popolo ebraico vivere e sopportare, già nella sua eccezionale storia e nella precarietà della sua condizione e della sua collocazione sulla terra, l’incompiutezza di un mondo sperimentata a partire dall’esigenza, irriducibile e urgente, della giustizia nella quale risiede l’essenza del suo stesso messaggio religioso.
Crudezza del mondo, se si può dir così, di cui il giudaismo non è soltanto la coscienza, ma anche la testimonianza, cioè il martirio; crudezza nella quale la bruciatura della mia sofferenza e l’angoscia della mia morte hanno potuto trasfigurarsi in spavento e in preoccupazione per l’altro uomo. Come se il destino ebraico rappresentasse una spaccatura nel guscio dell’essere imperturbabile e un’allertata presenza in seno ad un’insonnia nella quale l’inumano non è più ricoperto e nascosto dalle necessità politiche da esso costruite e non è più scusato dalla loro universalità.

***

Momento profetico della ragione umana nel quale ogni uomo – e tutto l’uomo – finisce per ritrovarsi, il giudaismo non starebbe semplicemente a significare una nazionalità, specie di un genere e contingenza della Storia. Rottura della realtà naturale e della realtà storica incessantemente ricostruite, e, per ciò, Rivelazione sempre dimenticata. Essa si iscrive, e si fa Bibbia, ma anche rivelazione ininterrotta; si produce sotto forma di Israele: destino di un popolo travolto e che travolge, attraverso la sua vita quotidiana, quel che, in questa vita, si contenta del suo senso naturale o «storico». Pensiero precocemente e instancabilmente impegnato a denunciare la crudeltà, gli eccessi del potere e l’arbitro. (…)
Il traumatismo della «schiavitù in Egitto» che ha lasciato il suo segno sulla Bibbia e nella liturgia del giudaismo apparterrebbe all’umanità stessa dell’ebreo e dell’ebreo presente in ogni uomo che, schiavo liberato, sarebbe vicinissimo al proletariato, allo straniero e al perseguitato. La Scrittura che ricorda, incessantemente, questo fatto fondatore – o questo mito – non si spinge fino al punto da trasformare l’esigenza inconvertibile della giustizia nell’equivalente della spiritualità dello Spirito e della prossimità di Dio? non è quella la circostanza originaria nella quale affiora o si ha per lo meno sulla punta della lingua questa parola straordinaria?
Forse un testo, quello di Isaia LXVIII, il cui carattere significativo per il giudaismo è sottolineato dal suo posto centrale nella liturgia del giorno del Kippur che costituisce l’acme dell’anno liturgico ebraico, ci permetterà di illustrare questa equivalenza: «Perché digiuniamo senza che tu te ne accorga, perché mortifichiamo la nostra persona senza che tu lo noti?» domandiamo, in questo passo profetico, al versetto 3, alcune anime pie, con ogni probabilità già spiritualmente abbastanza raffinate per sollecitare mediante la mortificazione e nell’umiltà non il compimento di qualche voto, ma la prossimità divina.

***

Ed ecco, nella bocca del profeta, la prima risposta del Signore: la prossimità ricercata non è compatibile con la pura e semplice continuazione della vita economica, con tutti i momenti conflittuali che l’accompagnano, brutalità, odi, dominio, perfidia: «E’ che nel giorno del vostro digiuno voi perseguite i vostri interessi e tirannizzate i vostri debitori. Sì, voi digiunate per fomentare diverbi e dissensi, per colpire con pugno brutale; voi non digiunate nell’ora presente per far sì che la vostra voce sia intesa là in alto. È questo un digiuno che mi può essere gradito? È questo un giorno in cui l’uomo mortifica se stesso? Curvare la testa come una canna, coricarsi sul cilicio e la cenere, questo è quel che tu chiami un digiuno, un giorno gradito all’Eterno?».
Nessuna religione esclude, certo, l’etica, tutte vi fanno appello, ma ognuna tende anche a collocare quel che è propriamente religioso al di sopra di essa e non esita a «liberare» il religioso dalla obbligazioni morali. Pensiamo a Kierkegaard. Che il religioso sia allo zenit nel movimento etico verso l’altro uomo, che la prossimità stessa di Dio sia inseparabile dalla trasformazione etica del sociale e che, specialmente e più particolarmente, essa coincida con la scomparsa della servitù e del dominio nella struttura stessa del sociale, è quel che ci dice invece il seguito di questo testo profetico: «Ma ecco il digiuno che io amo: rompere le catene dell’ingiustizia, sciogliere i legami di tutti i gioghi, rinviare liberi gli oppressi, infrangere infine ogni servitù».
Trasformazione della socialità stessa della società! Ma, come se questa formula contenesse ancora qualche cosa di impersonale, come se una soluzione che noi definiremmo «burocratica» la minacciasse congiuntamente al capovolgimento nel suo contrario della domanda profetica, il profeta vi aggiunge qual che si può realizzare solo in un rapporto personale con l’altro (altrui): «… poi ancora dividere il tuo pane con l’affamato, accogliere nella tua casa gli sventurati senza asilo, quando vedi un uomo nudo, coprilo, senza mai sottrarti a quelli che sono come la tua propria carne». Stupendo finale nel quale l’altro (altrui) è riconosciuto non nella grazia del suo volto ma nella nudità e nella miseria della sua carne!
Di conseguenza, realizzazione dell'etica che realizza il religioso, e, connesso con ciò, un mutamento di piano nell'essere: «La tua luce spunterà come l'alba, la tua guarigione sarà pronta a sbocciare, la tua virtù marcerà davanti a te, e dietro di te l'incedere dell’Eterno chiuderà la marcia. Allora tu chiamerai e il Signore risponderà, tu lo supplicherai ed egli dirà: eccomi».
Donde, forse, un sentimento che non si può tradurre certo in formula teologica e «non regge» teoricamente, ma che contraddistingue la religiosità di Israele: il sentimento che il suo destino, che la Passione d’Israele, dai tempi della schiavitù in Egitto fino a quelli di Auschwitz in Polonia, che la sua Storia santa non è soltanto quella di un incontro tra l'uomo e l'Assoluto e quella d'una fedeltà; ma che essa è, se è consentito dirlo, costitutiva dell'esistenza stessa di Dio.
Pensata in se stessa, questa esistenza resta astratta come la conclusione, sempre problematica, di qualche sillogismo o di qualche teorema più complesso, più  moderno, della prova dell'esistenza di Dio. Astrazione che nessuna teologia negativa e nessuna proposizione  iperbolica  riesce  a riempire di senso. Come se il senso di questa esistenza, il senso del verbo «essere» applicato a Dio, non si lasciasse esplicitare, né formulare, né comprendere, e neanche accostare al di fuori della Storia santa, attraverso le sue contraddizioni, le sue cadute e i suoi innalzamenti, i suoi sacrifici e i suoi dubbi, le sue fedeltà e i suoi rinnegamenti; come se la storia di Israele fosse la «divina commedia» o la «divina ontologia» stessa; come se le prove dei giusti capaci, malgrado le loro debolezze, d’essere fedeli fino al punto da morirne, costituissero un vissuto più forte della morte che lo nega, esperienza concreta o vero e proprio avvento dell’eternità divina, appartenente alla semiotica della parola Dio o, come dicono gli ebrei  dei  loro  fratelli  che muoiono per l'Invisibile, alla santificazione del Nome.
Non che questo destino, questa Passione, questa Storia apportino «infine» la prova dell'esistenza di Dio che mancava ai filosofi. Esse potrebbero essere piuttosto il dispiegamento  di questa esistenza stessa, dispiegamento concreto fino alla Diaspora nella quale, secondo un’espressione enigmatica dei dottori talmudici, Dio seguì Israele.

Emmanuel Lévinas

(tratto da L'aldilà del versetto, 1986)

 

Letto 1812 volte Ultima modifica il Venerdì, 10 Maggio 2019 09:51
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search