Ecumene

Domenica, 19 Giugno 2016 12:49

I Giainisti, gli asceti di Bombay (Clea Chakraverty)

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Dottrina della non-violenza e del rispetto della vita in tutte le sue forme, il giainismo,una della più antiche religioni indiane professa l'auto-controllo e una igiene di vita austera. A Bombay i fedeli tentano di conciliare i loro principi con la vita moderna.

La dottrina dell'estremo

Come il buddismo, il giainismo è nato in India per reagire contro l’induismo dominante e il suo sistema di caste e contro l’istituzioni dei brahmani che imponevano dei rituali sempre più pesanti ed anche sacrifici cruenti. Ad ogni era universale, dice la traduzione dello giainismo, 24 Tirtankar, santi che hanno raggiunto la Mokcha (l’illuminazione) emergono nel seno dell’umanità per indicarle la via della liberazione. Non sono degli dei, ma esseri umani perfetti. I Tirthankar della nostra era si sono tutti rivelati in India, ma la loro lista comincia con Rishabha che sarebbe vissuto sei mila anni fa. La lista dei Tirthankar termina con Mahavira il fondatore del giainismo, che visse nel VI secolo prima della nostra era.

I giainisti professano cinque principi fondamentali: scegliere la non-violenza, dire la verità, vivere del necessario, accettare la castità e l’idea dell’altro. Il principio della rinuncia e del karma (insieme delle azioni dell’uomo che conducono a forgiare la propria maniera d’essere per aver un buon karma), la ricerca della Moksha o liberazione che conduce eventualmente al nirvana, fanno anche parte del credo dei giainisti. Per la sua vista sulla Collana della Regina, la grande baia di Bombay, Malabar Hill, la montagna di Walkeshwar Road, è un isolotto verde apprezzato dagli uomini d’affari e dalle antiche fortune della città. È anche il punto di incontro di una importante comunità di Bombay, i giainisti.

Secondo il governo indiano si tratta di una minoranza di 4,2 milioni di persone (cioè il 4% della popolazione) che ha ispirato l’Indiano più celebre del mondo, Gandhi. “Il nostro principio fondamentale è la non-violenza. Noi dobbiamo far torto agli altri il meno possibile, nella vita quotidiana, con le nostre parole, con i  pensieri o le  azioni fisiche. L’altra grande teoria è la rinuncia alla vita materiale” spiega una giovane adepta, Viraghi Thaveri.

Questa religione, nata verso il VI secolo prima della nostra era, chiamata da alcuni la “dottrina dell’estremo” esige un’igiene di vita stretta, anzi austera, vegetariana. Viraghi non consuma neanche legumi cresciuti sotto terra “a causa della vita, delle batterie sugli alimenti che uno distrugge” o  prodotti fermentati, come molti dei suoi correligionari. Lei si  permette  a volte di indossare seta o cuoio considerati dai più ortodossi, impuri e contrari ai principi di rinuncia e d’immaterialità che professa lo giainismo.
Sono ‘coquette’ mi piace uscire. Conduco una vita normale”. Tuttavia lei segue rigorosamente i principi religiosi che conducono all’auto-controllo.
"Quando sono nel tempio prego per purificarmi, per riflettere e ripensare alle parole offensive che ho potuto pronunciare nei riguardi di quanti mi avvicinano
Viraghi appartiene al ramo dei Derawasi, i praticanti giainisti che vanno regolarmente ai derasar, i loro templi.
Questi luoghi possono lasciare nella perplessità i non-iniziati.
I giainisti appartengono alle comunità più intellettuali e ricche dell’India perché molti hanno fatto fortuna nel commercio dei diamanti. I loro templi riflettono la loro ricchezza che è in contrasto radicale con l’ideale ascetico che professano.

L’idolo, guida dei credenti

Fra i grattaceli lussuosi di Walkeshwar Road, appare una mole immacolata. Si tratta del Tempio Jain, uno dei più bei templi della città, Babu Amichand Panalal Adishwarji, che si innalza per almeno venti metri ed è sovrastato da una cupola ornata di decorazioni in oro. Elefanti di marmo, delicatamente scalpellati, accolgono i fedeli all’entrata. Nella sala principale, incastonata di gioielli e di brillanti, attende i suoi fedeli, il XXIV Tirthankar Mahavira, gli occhi dipinti, seduto su di una specie di cuscino d’oro e di bronzo nella posizione del loto.
Questa statua può essere rivestita  di diversi abiti ed ornamenti. Intorno ad essa pitture e disegni antichi presentano la vita di questo sant'uomo vissuto 4000 anni prima. Ai lati della statua due altri Tirthankar più antichi vegliano sui credenti che pregano, inginocchiandosi a turno e toccando la terra con la fronte.
Viraghi Thaveri si rialza. "I Tirthankar sono sorvegliati giorno e notte. Durante il nostro festival annuale, Paryushan, i preti cambiano gli ornamenti della statua".
Una donna canta a sottovoce le sue preghiere come una cantilena, toccando i piedi del Mahavira. Dopo aver acceso qualche bastoncino d'incenso, si allontana, camminando a ritroso per non voltare le spalle al Tirthankar.
Tutte le statue dei Tirthankar sono identiche. Differiscono solo i simboli animali che li accompagnano. Per Mahavira si tratta di un leone.
"L'idolo non rappresenta Dio o un profeta. Si tratta d'un simbolo che serve di guida ai credenti. Un'immagine astratta che non personifica l'uomo Mahavira" spiega Kavita, giainista del ramo religioso Shanawasi che non aderisce all'insieme del rituale, come le visite ai templi e gli idoli. Kavita applica la religione continuamente nella sua vita quotidiana. "Non c'è bisogno di essere giainista, si può essere nel sapere anche senza convertirsi. Noi crediamo nella nozione di Karma. Inoltre noi rispettiamo ugualmente gli esseri animati e quelli inanimati, la terra, il cielo. Noi non possiamo uccidere o distruggere a piacer nostro perché noi non sappiamo sotto quale forma potremmo rinascere, ed anche morire. Considero una fortuna essere giainista perchè so che, secondo quanto è scritto, noi nasciamo umani una sola volta in 84 vite. É al di là d'ogni speranza poter vivere sotto questa forma". Recita silenziosamente i suoi mantra a casa sua.
"Imparo ad accettare a rinunciare. Perciò non assumo nel mio lavoro più missioni di quanto non sia necessario. Non cerco di guadagnare più del necessario". Mi confida la giovane donna professoressa di francese.

Paryushuan il grande perdono

Anche i giainisti non praticanti seguono questo festival. Questa festa, una delle grandi commemorazioni delle tappe della vita dei Tirthakar, ha luogo ogni anno verso la fine di agosto. I giainisti di tutte le diverse opzioni, praticano l'attai, un digiuno completo di otto giorni non concedendosi altro che uno o due bicchieri di acqua durante la giornata e un po' di cibo al tramonto. Nessuno può bere o mangiare. Solo i malati e i bambini piccoli sono esonerati da questo rituale. Consiste nel purificare il corpo e lo spirito e nel concentrare le energie al fine di ricevere il "perdono" con l'anima pura. Al calar della sera la comunità si raduna per ascoltare i preti e i guru che predicano e spiegano certi testi sacri. L'ultimo giorno, ciascuno domanda pubblicamente "perdono" per i suoi atti violenti, coscienti o incoscienti, le parole cattive pronunciate e i pensieri sconsiderati avuti durante l'anno.
"Scusarsi non è un atto d'inferiorità nel proprio rapporto con l'altro. Si tratta di mostrare che si accorda più valore all'altro che al suo proprio ego", affermano i giainisti.

Perdono si dice in sanscrito "Michami dukkdam".

Harthik, un agente di pubblicità per Microsoft, cerca di conciliare una vita occupatissima e una religione esigente. "Viaggio molto e a volte non trovo il cibo che mi converrebbe, dunque mi adatto. Seguo l'insegnamento dei preti, cerco di contribuirvi come posso".
Ogni domenica va in un ospedale gestito da una fondazione giainista, dove passa, come volontario, un certo tempo vicino ai malati. Dagli Shanawasi, dei monaci spiegano i testi e i principi in un quadro spoglio di ogni decorazione, l'upasharay un locale collettivo completamente vuoto.

Effettuare un ritorno su se stessi

Per altri giainisti le decisioni sono più radicali. "L'idea è di effettuare un ritorno in se stessi. Alcuni hanno abbandonato tutto", racconta Kavita, come i guru della setta dei digambaras, solo uomini, che hanno scelto di vivere interamente nudi.
Davanti ai gradini del secondo tempio giainista di Malabar Hill, due fantasmi bianchi scivolano sui lastroni dai riflessi marmorei al crepuscolo. Si tratta di Ananta Yashashiri Ji Maharaj e di Yrinasha Maharaj, due Sadvi, donne guru. Per la loro comunità esse non sono né mogli né sorelle. Sono considerate come sante.
Provenienti da famiglie estremamente ricche, hanno lasciato le loro famiglie e la vita in società a 15 o 17 anni per seguire unicamente i principi insegnati dal giainismo. Vivono in un ashram non lontano dal tempio, in una sala, tenuta costantemente nell'oscurità, dove si seggono dopo averla scopata con grande cura per non uccidere per negligenza qualche essere vivente.
"Noi ci siamo preparate mentalmente a condurre questa esistenza, dalla nostra adolescenza, seguendo l'insegnamento obbligatorio di quattro anni presso il nostro guru" spiega Ananta.

Auto-esclusione dalla società delle guru

Ananta si alza alle 5 del mattino, partecipa alla vita dell'asharam, recita alcuni mantra, discute le interpretazioni dei testi. Va al tempio regolarmente quando non è in cammino con le sue compagne, sette donne dai venti ai sessanta anni di età. "Viaggiare è importante. Noi andiamo incontro ad altri Sadvi, condividiamo il nostro sapere con i credenti, possiamo anche andare nei luoghi sacri dei giainisti".
A piedi nudi, poiché questo è il solo modo di preservare  al massimo la vita. "La pianta del piede è morbida e dunque distrugge meno della suola delle scarpe, senza parlare poi dei mezzi di trasporto moderni" spiegano queste donne che traversano la città per raggiungere altri templi. A volte vanno nelle case dei credenti, invitate a celebrare un puja, una cerimonia religiosa, o a spiegare testi. I fedeli offrono loro il pasto, che non è mendicato, ma viene ricevuto come un regalo.
Yirinasha Maharaj ha un volto rotondo che nasconde a volte sotto un velo bianco, coprendo i suoi capelli corti, diradati. "Ci strappiamo i capelli usando la cenere. Che differenza c'è dal depilarsi le gambe?". Lei ride dolcemente coprendosi la bocca con un fazzoletto.
Le Sadvi combattono la vanità incarnata dai capelli ed anche ogni forma di ostentazione dell'ego come la fotografia e la televisione.
"Noi spieghiamo la filosofia a quelli che vengono a vederci e come possono applicarla nella loro vita quotidiana".
Caste, escluse volontarie dalla società, le Sadvi cercano di raggiungere l'ideale predicato da Mahavira.
"L'ahimsa passa anche attraverso l'autocontrollo. Controllare la propria rabbia, la collera, la violenza quotidiana, dominare il proprio corpo, abbandonare la ricerca del piacere. Noi chiamiamo salem il controllo dei cinque sensi. Pratichiamo anche le restrizioni alimentari. Noi non crediamo alla felicità raggiunta a spese della vita d'un altro essere. Noi troviamo soddisfazione nella nostra indipendenza. Perchè voler sempre aspettarne altre?". Chiede Yinnasha Maharaj. Separarsi dalla società significa anche rinunciare alla vita passata e cambiar nome. È un modo di vivere che non tutti i giainisti adottano.
Viraghi Jhaveri, una neofita, sospira: "Non so se le invidio, in ogni caso le ammiro. Tutti non possono essere come loro. Ciò domanda una forza mentale e spirituale fuori del comune. Noi tentiamo di condurre la nostra vita il meglio possibile, grazie al loro insegnamento".

Digambara e Svetambara

Non c'è mai jainismo senza scisma. Il primo sarebbe intervenuto all'epoca di Mahavira, il 24° Tirthankar.
L'ottavo, il più importante. è iniziato nel I° secolo. Ha spaccato il giainismo in due grandi scuole o sezioni: i Digambar (30% dei giainisti) e gli Svetangara (maggioritari). Ognuna di queste due scuole si è poi suddivisa in parecchie sotto-sezioni. Le loro principali opposizioni riguardano lo statuto della donna e la pratica dell'ascesi. Contro l'opinione degli svetangara, i digambar considerano che per accedere alla liberazione, l'anima deve incarnarsi in un corpo d'uomo. Finché è incarnata in un corpo di donna, non può veramente purificarsi. In quanto concerne  la pratica dell'ascesi, i digambar giudicano la nudità, espressione estrema dell'abbandono d'ogni possesso materiale, essenziale per ottenere la salvezza. Infine stimano che un sant'uomo non ha bisogno di nutrirsi per vivere. Teoricamente, le sezioni giainiste non condividono neanche i luoghi di pellegrinaggio. In pratica, però, tutti si recano negli stessi luoghi. Un ecumenismo facilitato probabilmente dall'assenza di gerarchia religiosa.

Clea Chakraverty

(tratto da Le Monde des Religions, novembre 2008)

tradotto dal francese da Immacolata Occorsio smsm

 

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Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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