Quale fu la più felice fra le figure bibliche? Forse Abramo quando Dio gli mandò un capro da sacrificare al posto del figlio? Oppure Sara quando Dio le fece sapere che, nonostante l'età avanzata, avrebbe conosciuto le gioie della maternità? Oppure Giacobbe quando poté rivedere il figlio Giuseppe che credeva morto da anni? Se la felicità è presente nella Torah, è sempre inestricabilmente mescolata con episodi dolorosi. La ferite vengono sempre prima della felicità. Sara deve sopportare la presenza insostenibile di un'altra donna nel letto del suo sposo prima di potere, anche lei, essere feconda. Occorreranno migliaia di lacrime brucianti prima che Giacobbe ritrovi il figlio prediletto in Egitto. Felicità e disgrazia non regnano in maniera indipendente l'una dall'altra; sono le due facce di una stessa realtà.
Festa di Pessah e pianti amari
Forse è per questo che, nel giorno della festa di Purim, gli Ebrei si rallegrano di essere stati salvati da una persecuzione che era stata proclamata verso l'anno 480 prima della nostra era da Aman, primo dignitario del re di Persia, pur ricordando le sofferenze e l'angoscia dei loro antenati (Libro di Ester). Il giorno di Pessah, essi festeggiano l'uscita dall'Egitto pur gustando i pianti amari e l'amarezza del passato. Nel giudaismo la disgrazia non è mai abbastanza forte da non lasciare uno spazio alla felicità; e la felicità per quanto sia immensa non deve mai cancellare i momenti di tristezza. Per questo l'Ecclesiaste ci avverte: «Nel giorno lieto sta’ allegro e nel giorno triste rifletti: Dio ha fatto tanto l’uno quanto l’altro, cosicché l’uomo non riesce a scoprire ciò che verrà dopo di lui» ( Qo 7,14).
In francese la parola felicità, "bonheure", deriva da «bonne heure», "buona ora" e tale etimologia le dà una dimensione di «caso»; ora la felicità ebraica non risulta mai dal caso. Testi biblici come i Proverbi o i Salmi la stabiliscono nel divino e nel sacro. La felicità è in Dio o non c'è affatto: «Il Signore concede la felicità» (Sal 85,13). Si potrebbe quasi dire che è divina, che partecipa della pietà di una opera buona. Per il celebre rabbino Nahman di Bratislav (1772-1810), la gioia aggiunge santità all'osservanza di un comandamento: «Grazie alla gioia della mitswa la Santità è completa» (Liqouté Moharan I, 24). In altri termini, la gioia che si prova nel compiere una buona azione rende questa azione pia. C'è nel giudaismo una duplice tonalità della felicità: essa è insieme fonte e frutto. È fonte nella misura in cui è la conditio sine qua non della pietà; è frutto perché è la ricompensa divina della pietà: «Felice l'uomo che trova in te la sua forza» (Sal 84, 6) o ancora « Felici coloro che osservano il diritto, praticano la giustizia in ogni tempo» (Sal 106, 3). La felicità appare quando si compiono delle buone azioni e viceversa le buone azioni si compiono (diventano sante) quando si è felici. In questo senso la felicità ebraica è religiosa poiché è comunitaria: «Felice l'uomo [...] che trova la sua gioia nella Legge dell'Eterno e medita questa Legge giorno e notte» (Sal 1,1-2). Essa dipende dal compimento delle mitzwot e dunque dal rispetto della Torah: «La felicità è la sorte dei retti» (Pr 28,10), «felicità grande per chi ama la tua Legge» (Sal 119,165).
In questo la felicità dipende dal giudizio divino che dà a ciascuno secondo le sue opere: «So che saranno felici coloro che temono Dio, appunto perché provano timore davanti a lui, e non sarà felice l'empio» (Qo 8,12-13). Se dipende da Dio, essa è intimamente legata al libero arbitrio dell'uomo. Se vuole essere felice, l'essere umano deve scegliere il bene. Evidentemente tale sistema di ricompensa e di punizione non è sempre affidabile; il povero Giobbe ne farà la dolorosa esperienza. Tuttavia, anche se provoca Dio per comprendere l'oscurità e la sofferenza del Giusto, non lo rinnegherà e continuerà a temerlo, malgrado i consigli di sua moglie (Gb 2,9). La felicità è dunque anche nel timor di Dio (salmo 128,1) e consiste in uno stupore e insieme in una coscienza delle nostra fragilità. Nonostante le sue critiche lanciate verso Dio, Giobbe rimane pio, perché il suo timor di Dio è l'ultima scintilla di felicità che gli rimane e che gli consente di vivere.
Impadronirsi del proprio destino
Si comprende dunque perché nell'articolo «Simhah» - che significa la gioia, il giubilo - nel Dictionnaire du judaïsme (dir. Geoffrey Wigoder, Lafont, 1997), sia scritto che la felicità è un «elemento fondamentale della vita religiosa ebraica». Si potrebbe quasi dire che è una mitzwah, un dovere, di essere felici. Il Baal Shem Tov aveva l'abitudine di dire a questo proposito che «il solo fatto di vivere nella gioia costituisce il compimento della volontà del Creatore». Più che una necessità, il comando della felicità va di pari passo con la vita umana. L'uomo ha il dovere di essere un animale felice, altrimenti fallisce il suo destino: «Mi sono accorto che nulla c’è di meglio per l’uomo che godere delle sue opere, perché questa è la parte che gli spetta» (Qo 3,22).
Una simile idea si apparenta con un certo carpe diem. La vita dopo la morte non è un problema giudaico; ciò che importa, ciò che deve riuscire, è la vita di quaggiù, come sta scritto: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli dunque la vita!». (Deuteronomio 30,19). La felicità è qui e adesso. Il Qohelet, che, secondo la tradizione, era il re Salomone, ci invita a cogliere la felicità prima che sia troppo tardi: «Anche se l’uomo vive molti anni, se li goda tutti, e pensi ai giorni tenebrosi, che saranno molti» (Qo 11,8). È la presa di coscienza di fronte al destino mortale dell'uomo che crea un entusiasmo e una corsa contro l'orologio per impadronirsi della felicità.
Nel giudaismo la felicità è un dovere religioso, un certo modo di vedere e di comprendere il mondo. E se l'uomo deve essere un animale felice, nessuna miseria né alcun dolore potrà colpirlo,come dichiara quel vecchio proverbio yiddish: «Se hai fame, canta! Se ti battono, ridi!».
Gabrielle Halpern
(da Le monde des religions, mai-juin 2010, n. 41, pp. 32-33)