Ecumene

Sabato, 14 Gennaio 2012 11:00

Sadhu, i santi erranti (Cléa Chakraverty)

Vota questo articolo
(1 Vota)

A immagine del dio Shiva, questi asceti indù hanno abbracciato la 'via della rinuncia' per vivere di elemosina, solcare continuamente le strade del paese e meditare per liberare la loro anima.

Haridwar. La sua minuscola stazione, tranquillissima, non lascia indovinare che da poco ha avuto luogo la riunione di mistici e di uomini, la più fantastica, la più affollata, la più strana dell'India, la Khumba Mela, celebrata dagli asceti di tutto il paese. Haridwar si trova ai piedi dell'Himalaya, dimora cara a Shiva, il dio contemplativo e distruttore, l'eremita per eccellenza. Ad Haridwar, come in tutto il paese, migliaia di uomini seguono il suo esempio e spesso lo incarnano fisicamente: i sadhu. La loro esistenza sembra già attestata nel periodo vedico. Coperti di tessuti semplici, di tinta unita, a volte nudi o rivestiti di un semplice perizoma, il corpo reso livido dalle ceneri, i capelli intrecciati, i sadhu hanno scelto di ritirarsi dal mondo. Essi vivono di elemosina e di meditazione, alla ricerca dell'assoluto, della liberazione dell'anima e della simbiosi fra l'essere e il mondo cosmico - di cui Shiva e Vishnu sono gli amministratori.

Testi sacri vedici

La maggior parte di essi percorrono continuamente strade e testi sacri vedici. Alcuni scelgono di trasmettere il loro sapere. Come Swami Debananda Saraswatiji Maharaj, 93 anni, che non lascia quasi più il suo ashram nel cuore di Haridwar, lo Sri Sri Bholananda Sanyas. «Come sull'autostrada» dichiara con umorismo, nel  suo indiano mescolato di inglese e di sanscrito, «ci sono tre vie, tre prastranth: Shrutri Prastranth, Naya Prastranth, Smriti Prastranth ["La conoscenza rivelata", "La nuova strada", "la Memoria"]». Seguendo la tradizione del maestro Shankara (fine del secolo VIII- inizio del IX)  questo vecchio dice di ritornare alle «vere» sorgenti dell'induismo:
«Chi sono? Dove sono? Dove vado? Il "chi sono" importa poco. Io sono, questo mi importa. Se penso, allora io sono l'atma-chintan ["anima", "spirito"]. Io sono un corpo, uno spirito, un vecchio: ma sono soltanto questo? E tu sei questo? Noi siamo delle energie che utilizzano diversi mezzi per rivelarsi: la luce, il fuoco, il corpo umano». Il guru riceve discepoli e visitatori in modo affabile e veglia, dopo che si sono prostrati e abbiano baciato i suoi sandali, a offrire loro il prasad - dei dolciumi che ha benedetto. Swami Debananda Saraswatiji Maharaj ha scelto il sannyasa, la «via della rinuncia» dopo aver militato per la decolonizzazione dell'India. «Se sono ancora vivo, è che Dio mi ha fatto alla rovescia», ride. Stanco, deluso e sconcertato dalla Partizione dell'India e dalle scelte politiche del suo tempo (1), egli dichiara di aver viaggiato attraverso tutta l'India a piedi, prima di stabilirsi in questo ashram. «Ho dato la mia vita per la patria, la terra madre, Bharat. Volevo l'azione. Oggi appartengo a Parvati-Devi, anch'essa Madre e Terra. Credo ormai al rinnovamento dell'azione nella sua forma immateriale». Non lontano dall'ashram si estendono per chilometri i ghat, quei gradini situati sul bordo del Gange, presso dei quali gli indù si bagnano. Qui Swami Vishwanath Puri, 60 anni, ha stabilito un bivacco sommario. Vestito di un semplice perizoma rosa pallido di cotone e di un gilet arancione aperto sul dorso, dove si ammucchiano alla rinfusa delle collane di rudraksh, le nocciole sacre, il sadhu sta per partire per Bradrinath, un altro luogo di pellegrinaggio. «Provo una felicità intensa, una potenza incredibile durante i bhajan silenziosi, gli inni. Un sannyasi [un rinunciante] deve cercare la forza, la conoscenza e mostrare la via agli altri».

Una libertà di non più rinascere

L'eccessivo camminare, l'apprendimento di tecniche particolari di yoga, le costrizioni fisiche alle quali si sottopongono certi sannyasi fanno parte di una volontà di sublimare il sé, l'essere, l'umanità. Quando un sadhu muore in posizione di samadhi - quando il corpo cessa ogni attività, per la meditazione o per la morte - , i suoi simili lo seppelliscono in posizione seduta o l'immergono, rispettando un rituale particolare. Questo stato di grazia, di liberazione è l'ultima volontà del sadhu.
Le rive del Gange, formicolano di questi asceti che meditano, dormono o semplicemente osservano le onde, tranquillamente. Deepak Giri è uno di loro. «Vedo il mondo in modo diverso», mormora l'uomo di 40 anni. Ha scelto questa via alla morte improvvisa dei genitori, quando aveva 15 anni, a Bangalore. I suoi capelli lunghi e irsuti sono nascosti sotto un turbante di stracci. Porta due anelli d'oro alle orecchie. Come suo unico possesso, come tutti i suoi simili, conserva uno jhola (una borsa di stoffa), un lota (un piccolo recipiente di rame) per ricevere le elemosine e un dhanda (un bastone). Dopo questa pausa, il sadhu riprende pian piano il suo cammino lungo il fiume sacro, risparmiando i movimenti, a testa bassa, avvolto in una toga arancione, stinta dal tempo. «Ho bisogno di  questa iniziazione, la diksha, per arrivare alla moksha, la liberazione  e non rinascere più. Shiva mi sostiene: è per me padre e madre» dice con lo sguardo triste e lontano.
Paradossalmente l'ancoraggio al globo fisico è importantissimo per i sannyasi. «Noi camminiamo, noi viviamo grazie alla Terra. La guardo trasformarsi, cerco di comprenderla», dichiara Chhotta Baba Maharaj, che dice di esere stato «chiamato» all'età di 7 anni. Istallato anche lui sul bordo del Gange, ma a Nord di Haridwar, a Rishikesh, ha con sé un trishul, il tridente emblematico di Shiva, e molti braccialetti di perle al braccio. Il suo compagno di strada ha arrotolato le sue lunghe trecce imperlate e unte intorno al braccio per poter camminare, e ha cinto al fianco una sciabola dal pomo argentato per difendersi dai vagabondi e dagli animali. Le faccie di questi baba, l'altro nome che si dà a questi asceti senza età, sono  coperte di ceneri bluastre, per avvicinarsi all'aspetto di Shiva. «Noi cerchiamo il paese delle stelle», sussurra l'uomo, stralunato, fra due sbuffi del suo chillum, la pipa utilizzata per fumare la resina di cannabis. Molti sadhu, mentre si interdicono l'alcool, la carne e ogni sessualità (in virtù del Brahmachari, il celibato), si riuniscono volentieri intorno a un chillum e a un bicchiere di chai, il thè indiano zuccherato. Si dice che Shiva stesso consumi una grande quantità di cannabis. I sannyasi, divisi fra la ricerca di un assoluto cosmico e una realtà materiale che cercano di abbandonare, seguono una pratica tutta propria.

L'occasione di migliorare il proprio karma

Molti hanno raggiunto degli akhara, i centri di sadhu creati come reggimenti nel secolo VIII per «difendere e conservare il vero induismo», spiega Maha Mantri, guru e supervisore della Juna Akhara, ad Haridvar, una celebre e antica comunità di naga baba, i sadhu nudi. Seduto nella posizione del loto, Maha Mantri sorveglia con la coda dell'occhio un chella, un giovane discepolo intento al lavaggio di due fuori strada che troneggiano in mezzo all'akhara. La testa rasata e l'atteggiamento deferente del discepolo dimostrano la sottomissione a una gerarchia rigida. L'aspetto materialista e molto regolamentato degli akhara potrebbe urtare il visitatore che si aspetta di trovare un centro di «rinuncianti». Gli akhara ricevono di fatto doni in natura o in denaro, che vengono ripartiti fra i membri o utilizzati per il centro. E anche se oggetti come auto, transistor o telefoni  sembrano poco ortodossi, il donatore però offre a se stesso l'occasione di migliorare il suo karma.

Picche, tridenti e alabarde

Per i cinquanta naga baba che vi risiedono, sono obbligatori alcuni rituali, quali lo Hath-Yoga, la meditazione, e le cerimonie religiose sul Gange o nel recinto del tempio dell'akhara. L'arati è una delle cerimonie quotidiane. Verso le 19.30 i damrus, piccoli tamburi, risuonano senza fine, percossi metodicamente da un baba. Altri accendono un fuoco sacro, il dhuni, altri agitano una campana d'argento, mentre il visitatore deve rimanere all'esterno del tempio in cui si svolge la cerimonia. Al centro del cortile principale si innalza la bandiera della Juna Akhara, orgoglio e segno di raduno della comunità, che lo porta a ogni Kumbha Mela. Ai quattro angoli, le armi dei naga baba - picche, tridenti, alabarde, bastoni - reminiscenze del passato guerriero di questi baba, che significano le divisioni simboliche dell'akhara. «Noi siamo ormai rispettati come guerrieri spirituali», osserva Maha Mantri.

Shiva, la forza motrice del cosmo

Dopo la cerimonia, Maharaj Surendra Puri, 33 anni, prende una larga buffata dal chillum che gli porge un altro baba. Sei di loro sono comodamente istallati in un stanzetta, seduti a terra su vari strati di tappeti, in un edificio di cemento che sovrasta sul Gange. Su di un letto, sul suo asan, su una piattaforma rialzata, è seduto uno dei guru di Maharaj Surenda Puri. Essi si incontrano oggi per discutere su alcuni punti della religione e particolarmente del tantrismo. Insieme o da soli, i sadhu recitano anche ogni giorno dei mantra. «Japa è il fatto di dire il nome di Dio senza posa: ci si sente d'un tratto trasportati, in estasi» osserva Maharaj Surenda Puri. Egli ha avuto una rivelazione a 13 anni, dopo un incontro con un baba nelle vicinanze del suo villaggio. «Allora ho sentito Shiva in me. Questo sentimento non mi ha più lasciato per un anno. Ho convinto la mia famiglia a lasciarmi partire. Fu uno strappo, ma oggi sono un maharaj, anche per mia madre, dice semplicemente. È fuggire? Sì e no. Noi lasciamo i piedi di Dio per raggiungere la sua mano: tagliamo i nostri legami, la nostre responsabilità, ma prendiamo altri impegni». Maharaj Surenda Puri lascia gli altri baba ancora seduti per compiere una preghiera, la puja, in un piccolo tempio accanto ai ghat. Versando l'acqua del Ganga e alcuni fiori di ibisco, recita cinque volte: «Om nama Shivaya». Poi sorride: «Io sogno che Shiva, questa forza motrice del nostro mondo cosmico, sia accessibile a tutti». Allora tira fuori da una tasca della sua tunica color zafferano un telefonino, lo istalla a "viva voce" e recita contemporaneamente alla litania trasmessa dal portatile: «Shantakaram shikhar shayanam, Sarapa malam maheshwaram, Vishvadharam sfatik sadrisham, Swachvarnam shubhangam...». («Noi ci inchiniamo davanti a Shiva, dall'aspetto contemplativo, portando le ghirlande del serpente, Signore dell'Universo, trasparente come puro cristallo...»).
Cade la sera. Impassibile in lontananza, come Shiva, il Gange tuttavia si agita. La sua corrente trasporta rumorosamente alcuni sacchi di puja gettati sbadatamente da bagnanti tardivi. Una coppia di gracole spicca il volo con un grido stridulo. Si posa su un albero ricurvo la cui foglie rosso–arancio richiamano gli abiti dei sadhu, gonfi per il vento. Il giovane baba sorride: «Abbiamo ancora una strada lunga davanti a noi».

Cléa Chakraverty

(da Le monde des religions, juillet-aout 2010, pp. 47-51)

Nota

1) La partizione dell’India è la divisione dell’ex colonia dell’India britannica, al momento dell’indipendenza, il 15 agosto 1947, in  due nazioni indipendenti, l’India e il Pakistan.

 


Il Maestro Shankara e gli asceti guerrieri

Shankara, chiamato con rispetto Sahnkar Acharya («Maestro») fu un riformatore indù che sarebbe vissuto fra la fine del secolo VIII e l’inizio del IX. La sue biografie postume le ritengono una incarnazione del dio Shiva. Levandosi contro i culti della sua epoca che riteneva lontani dagli insegnamenti vedici, avrebbe intrapreso la conversione degli asceti e dei pensatori religiosi alla Advaita Vedanta, sistema ispirato al Vedanta, appendice dei Veda, auspicando un ritorno al monoteismo puro in cui l’individuo e l’universale non fanno che una cosa sola. Shankar Achayra ha anche organizzato la popolazione dei sadhu in dieci sotto-sette (das nam sannyasi) e quattro centri monastici. Fra queste sette i naga sannyasi, asceti guerrieri, formano dei reggimenti, detti akhara, in numero di sette, e si richiamano a Shankar Akharya, benché sia provato che la loro esistenza è precedente.

 


La Kumbha Mela, un celebrazione straordinaria

La Kumbha Mela, o festa della brocca, riunisce i fedeli e tutti i sadhu del paese ogni tre anni, in quattro luoghi a turno – luoghi particolarmente sacri per gli indù: Prayag (Allahabad), Nasik (Maharashtra), Haridwar (Uttaranchal, Ujjain (Madhya Pradesh). Essa rappresenta un momento di potente comunione fra quel milione di persone venute a purificarsi nelle acque sacre, che simboleggia anche la «zangolatura» del mare da parte di Shiva e degli dei, preoocupati di recuperare il loro nettare divino dalle mani dei demoni asuras. Ogni ciclo di dodici anni include una Maha Kumbha Mela a Prayag alla quale prendono parte vari milioni di persone e costituisce probabilmente il più grande pellegrinaggio sulla terra.

 

Letto 6687 volte Ultima modifica il Martedì, 26 Marzo 2013 17:55
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search