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Domenica, 07 Agosto 2011 11:31

Imparare la cattolicità: esplorazione dell’ecumenismo ricettivo (Mary Tanner)

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Il colloquio ci invita a rimanere realisti di fronte alle difficoltà innegabili, pur dando prova di immaginazione e di audacia. Come imparare gli uni dagli altri  e come ricevere gli uni dagli altri? Come imparare a ricevere da una parte e dall’altra, in questo tempo di ostacoli e di sfide?

Imparare la cattolicità: esplorazione dell’ecumenismo ricettivo (1)

Il ragionamento che è alla base della progettazione di questo colloquio ci è stato presentato con chiarezza. L’impegno a lavorare in vista della “unificazione strutturale” continua a costituire un elemento irriducibile sia per i cattolici che per gli Anglicani. (2) Tuttavia “appare chiaro che il desiderio di una riunificazione programmata a breve termine non sia molto realistica”. La soluzione di questo problema non sta, secondo chi ha programmato il colloquio, nell’accontentarsi di uno scopo più modesto, come “la diversità riconciliata senza unità strutturale”, ma piuttosto di interrogarsi sul problema di sapere come “le tradizioni cristiane potrebbero, fin da ora e mantenendo tutta la loro integrità, imparare a ricevere le une dalla altre, in maniera efficace e autentica”. Il colloquio ci invita a rimanere realisti di fronte alle difficoltà innegabili, pur dando prova di immaginazione e di audacia. Come imparare gli uni dagli altri  e come ricevere gli uni dagli altri? Come imparare a ricevere da una parte e dall’altra, in questo tempo di ostacoli e di sfide?

UNO STUDIO DI UN CASO DI ECUMENISMO RICETTIVO NELLE RELAZIONI FRA ANGLICANI E CATTOLICI ROMANI

È istruttivo esaminare le storia delle relazioni fra Anglicani e Cattolici romani dopo i tempi esaltanti dell’indomani del Vaticano II, e distinguere ciò che è stato efficace e ciò che si è dimostrato controproducente nel reciproco apprendistato ecumenico.
Bisognerebbe certamente notare subito che l”ecumenismo ricettivo” rappresenta un elemento nuovo nella vita delle Chiese cristiane. Esso non è ancora oggetto né di convenzioni generalmente ammesse, né di regole chiaramente stabilite. Gli ultimi anni erano un tempo di cammino e di scoperta per tutte le Chiese nel movimento ecumenico. L’ora è venuta di riflettere sulle acquisizioni di tale cammino e di prevedere le misure da prendere per stimolare l’ecumenismo ricettivo nell’avvenire.

L’importanza delle dimensioni personale e relazionali

Nella Dichiarazione comune pubblicata alla conclusione dello storico incontro del 1966 del Papa Paolo VI con l’arcivescovo Michael Ramsey, si parla “di una nuova atmosfera di fraternità cristiana fra la Chiesa cattolica romana e le Chiese della Comunione anglicana [...] una nuova era nell’evoluzione delle relazioni fraterne, basata sulla carità cristiana e sugli sforzi sinceri in vista di rimuovere la cause del conflitto e di ristabilire l’unità”. (3) Il gesto del vescovo di Roma, che infilava il suo anello al dito dell’arcivescovo, ha illustrato in maniera molto concreta il rispetto e l’amore fraterno che essi avevano evocato. Al momento del saluto, il Papa Paolo Vi ha notato che egli attendeva con interesse il momento in cui la comunione affettiva sarebbe divenuta comunione effettiva. Vale la pena di ricordare questo perché l’amicizia è un ambiente propizio in cui può svilupparsi l’ecumenismo ricettivo. L’incontro ha sottolineato l’importanza delle dimensioni personali e relazionali. Ma quale che sia l’importanza dei gesti simbolici posti fra i dirigenti delle Chiese per quanti fissano lo sguardo sull’unità della Chiesa, è necessario che lo stesso rapporto di fiducia e di mutuo affetto si stabilisca fra i membri delle due comunioni, perché possa realizzarsi l’ecumenismo ricettivo.

LA VISIONE DEL RAPPORTO DI MALTA RIGUARDANTE LE TAPPE E LE FASI

Due anni più tardi, nel 1968, una Commissione preparatoria ha elaborato un programma realistico e originale per il progresso delle relazione fra gli Anglicani e i Cattolici romani secondo un modello che veniva chiamato “avvicinamento per tappe”. (4) Anglicani e Cattolici si sarebbero avvicinati gli uni agli altri adottando misure audaci  e intraprendendo nuovi passi, giustificati dalla relazione stabilita ufficialmente, che stabiliva l’accordo esplicito raggiunto nel dialogo teologico. Una prima tappa era già stata identificata dal Papa e dall’Arcivescovo nella loro Dichiarazione comune. La tappa successiva, quella di una relazione più stretta si sarebbe collocata nell’avvenire.Questa seconda tappa doveva cominciare con una dichiarazione di mutuo riconoscimento, basato sul grado di accordo nella fede raggiunto nel dialogo teologico. L’accordo teologico doveva dunque essere la base di impegni solidi, con lo scopo di intensificare la collaborazione mediante l’azione comune nella vita e nella missione. Si pensava a una tappa di associazione più stretta, in cui le due comunioni avrebbero cercato di riformare ciascuna la propria vita alla luce degli accordi teologici, e di sperimentare anche il grado di mutuo avvicinamento che la convergenza dottrinale avrebbe reso possibile. Questa seconda tappa sarebbe stata riconosciuta ufficialmente dalle rispettive autorità ecclesiastiche e avrebbe condotto a una terza e ultima tappa, che la Commissione preparatoria ha chiamato la “piena unità organica” fra le due comunioni”.
Rileggendo il Rapporto di Malta si è colpiti dall’impegno forte che esso attesta verso l’unità organica come scopo, e dalla sua intenzione di tendere a esso col prendere misure appropriate alle tappe chiaramente definite. Ogni tappa sarebbe ufficialmente  convalidata e accolta. I gradi crescenti di comunione avrebbero costituito un contesto nuovo nel quale le parti avrebbero trovato l’occasione di “scambiarsi doni”. Il documento di Malta insiste sul nesso necessario fra gli accordi teologici e l’avvicinamento a livello di vissuto delle Chiese. Per quanto indispensabili siano gli accordi dottrinali, non sono in grado da soli di produrre l’unità organica della Chiesa.
Purtroppo non sembra che si sia riflettuto abbastanza sulla procedura da seguire per reagire agli accordi teologici, né sul problema di sapere chi li avrebbe convalidati e come. Il problema è tanto più grave in quanto le due parti sono dotate di strutture assai diverse in materia di consultazione e di decisioni, e che l’articolazione fra i livelli regionali e internazionali assume forme assai divergenti da una comunione all’altra.

L’ECUMENISMO RICETTIVO ALLA LUCE DELLE RELAZIONI FRA ANGLICANI DA UN LATO E LUTERANI, RIFORMATI, MORAVI E METODISTI DALL’ALTRO

Il concetto di un avanzamento graduale verso l’unità, che passi attraverso fasi successive identificate esplicitamente, si è dimostrato particolarmente ben appropriato per la mentalità anglicana. Nel corso degli anni è stata messa in pratica in una serie di incontri regionali fra Anglicani da una parte e Chiese luterane e riformate in Europa e in America del Nord dall’altra. La si è ritrovata più tardi in filigrana nell’Alleanza fra Anglicani e Metodisti in Inghilterra.
Tutti questi accordi si sono conclusi a livello regionale. Ma la Conferenza di Lambeth nel 1988, dopo aver valutato i risultati delle conversazioni bilaterali internazionali con gli stessi interlocutori, ha raccomandato che si favorisca il livello della regione dovunque tale procedimento sia realizzabile. Per quel che riguarda il livello internazionale, si affermava dunque che questo metodo conveniva alle province ecclesiastiche della Comunione anglicana nella loro ricerca di avvicinamento con le altre tradizioni cristiane, ma non si insisteva meno sulla necessità di coerenza e di uniformità fra accordi regionali e accordi dottrinali sui quali essi dovrebbero basarsi.Ogni accordo regionale manifesta l’impegno delle parti verso lo scopo dell’unità visibile, pur essendo il frutto del consenso nella fede già acquisito mediante il lavoro compiuto a livello internazionale. Tali accordi tengono conto anche del fatto che le Chiese hanno già cominciato a camminare insieme verso la scoperta scambievole, e che esse hanno espresso il desiderio di un avvicinamento autentico.In conseguenza ci si poteva impegnare a creare una collaborazione più stretta nella missione e nel ministero, secondo il grado di consenso teologico raggiunto. Nel caso degli Accordi di Meissen, per esempio, non si era raggiunto un consenso sicuro sulla questione dell’episcopato storico, e dunque non si poteva pensare di considerare i ministeri come intercambiabili. L’Accordo di Povoo invece, con il suo accordo esplicito sulla apostolicità e sulla successione, ha potuto arrivare fino a rendere intercambiabili i ministeri.
Il fatto che tutti gli accordi abbiano lo stesso scopo e che rappresentino il frutto dello stesso consenso nella fede, conferisce loro una certa coerenza e un certo grado di uniformità. Le Chiese che vi partecipano stabiliscono delle commissioni con lo scopo di verificare e di seguire l’evoluzione della nuova collaborazione e l’attuazione degli impegni presi.
Sollecita della concordanza e dell’uniformità di questi sviluppi regionali, la Conferenza di Lambeth nel 1998 ha stabilito una Commissione permanente inter-anglicana sulle relazioni ecumeniche, (5) incaricata di visionare le proposte regionali prima che vengano convalidate. Ci si rendeva ben conto, infatti, che questa nuova fase di ecumenismo ricettivo esigeva nuove procedure di verifica della coerenza e dell’uniformità, sia nell’interesse dell’unità della Comunione anglicana, sia per lo sviluppo di alleanze ecumeniche coerenti sul cammino dell’unità visibile.
Tuttavia, per favorire l’ecumenismo ricettivo, gli Anglicani accettano che il paesaggio ecumenico non sia privo di qualsiasi irregolarità. La Conferenza di Lambeth del 1988 ha affermato: “Il processo di avvicinamento verso l’unità visibile e piena può implicare l’esistenza provvisoria di alcune anomalie [...] Alcune di queste anomalie saranno tollerabili nella misura in cui il loro scopo comune è l’unità visibile, ma [...] deve sempre esserci un impulso verso la loro soluzione, quanto verso l’eliminazione dell’anomalia principale che è la disunione”. (6)
Se è vero che la Chiesa cattolica romana cerca di non impegnarsi troppo a fondo a livello regionale, non è meno vero che la recente Alleanza fra Anglicani e Cattolici romani in Papuasia- Nuova Guinea è basata su un concetto paragonabile al principio enunciato della Conferenza di Lambeth nel 1988.
L’intenzione del Rapporto di Malta era dunque di collegare la convergenza nella fede, espressa nei rapporti dottrinali, e la convergenza nella vita ecclesiale. Lo stesso principio ha trovato un appoggio in uno degli aspetti del dibattito attuale in seno alla Commissione di “Fede e Costituzione” del COE. Molti avevano inteso la ricezione dei documenti ecumenici come una semplice affermazione, espressa ai massimi livelli dell’autorità di una comunione, del fatto che la fede della Chiesa attraverso le età è riconoscibile negli accordi conclusi con i dialoghi bilaterali o multilaterali. Ma una comprensione approfondita della ricezione ecumenica implica di più del riconoscimento della fede della Chiesa attraverso le età mediante un documento: si tratta della ricezione di questa fede nel concreto di una vita trasformata e in relazioni rinnovate con le altre comunità. La ricezione ecumenica diventa dunque un processo di conversione: conversione delle Chiese alla verità del vangelo nel profondo della loro vita ecclesiale, e conversione verso l’altro in una relazione nuova e impegnata – orientata – verso lo scopo dell’unità visibile. La ricezione è un processo trasformante e “costoso”, - non è un semplice riflesso automatico, ma un processo nel quale ci si impegna coscientemente.

Il successo dei dialoghi dell’ARCIC e il fallimento dell’ecumenismo ricettivo

Il dialogo anglicano – cattolico romano (ARCIC) (7) ha avanzato in maniera straordinaria nel suo lavoro sui problemi dell’eucaristia, del ministero e dell’autorità. Fin dall’inizio la Commissione lavorava in stretta collaborazione con le due comunioni, incoraggiando la riflessione sulle prime redazioni dei documenti e sollecitando le riflessioni dei gruppi nazionali di contatto fra Anglicani e Cattolici romani.In alcune parti del mondo c’era un vivo interesse per lo studio dei rapporti dell’ARCIC, nei gruppi di sacerdoti, di seminari, di parrocchie locali e di gruppi misti di Anglicani e di Cattolici. La Commissione ha continuato questo dialogo con la base rispondendo alle loro reazioni e con una serie di Elucidazioni. (8) Duplice era la posta in gioco per questo processo di dialogo fra la Commissione e le due comunioni. In primo luogo gli Anglicani e i Cattolici romani crescevano nella comprensione reciproca, eliminavano i falsi stereotipi e scoprivano l’estensione della loro fede comune. Tale scoperta è sfociata talora in una intensificazione a livello locale della preghiera e della testimonianza comune. L’avvicinamento andava di pari passo con la speranza crescente di un sensibile miglioramento delle relazioni ufficiali fra le due comunioni. Si arrivava persino a immaginare nuove forme di intercomunione e un passo verso la riconciliazione dei ministeri. Proprio in questa fase di scoperta scambievole, grazie alle comunicazioni a proposito del lavoro dell’ARCIC, si preparava un terreno propizio all’ecumenismo ricettivo. Ma nonostante i segni promettenti che lasciavano augurare l’inizio di una nuova era di ecumenismo ricettivo, il clima cominciò ben presto a guastarsi.
Nel rapporto finale dell’ARCIC nel 1982 due domande venivano poste alle comunioni:
1° Gli accordi sono in sostanziale conformità con la fede degli Anglicani e dei Cattolici romani?
2° Quali sono le “tappe concrete” che bisogna programmare alla luce di questi accordi? (9)

Collegando queste due domande, gli autori si collocavano nella linea del Rapporto di Malta: essi riunivano le dimensioni teologiche, pratiche e relazionali. Il procedimento attestava la speranza che il consenso teologico avrebbe prodotto un miglioramento concreto delle relazioni, cioè un vero ecumenismo ricettivo.
Ma la formulazione della prima domanda invece di portare le due parti al riconoscimento auspicato della “fede della Chiesa attraverso le età”, le indusse piuttosto a confrontare le dichiarazioni comuni con la propria posizione interna. Con ciò si rinforzava l’identità delle denominazioni invece di metterla in questione. Se negli accordi teologici si ricerca una espressione interamente conforme alle proprie formulazioni confessionali, ci si mette al riparo dalla chiamata a un rinnovamento “costoso” alla luce del Vangelo. Purtroppo non veniva domandato alle due parti di chiedersi quali riforme e quali cambiamenti erano necessari nella propria vita per meglio rispondere alla fede della Chiesa, quale si trovava espressa nel documento. Così si lasciò passare un’occasione preziosa di invitare le due comunioni a esaminarsi alla luce dei rapporti d’accordo dell’ARCIC e a trarne le conclusioni pratiche. Il processo di risposta è così diventato più un esercizio accademico che un atto di ecumenismo ricettivo.
Oltre al problema della formulazione delle domande, bisognava constatare che le due parti non hanno molto compreso la ragione per la quale le due domande erano così collegate. Da una parte e dall’altra ci si diede a rispondere alla prima domanda, teologica e dottrinale, ma si trascurò la seconda domanda riguardo alla ricezione nella vita ecclesiale. In tal modo si è perduta una occasione di intensificare l’ecumenismo ricettivo. Verso la fine degli anni ottanta la visione di ecumenismo ricettivo espressa nel Rapporto di Malta si eclissava già nelle relazioni fra Anglicani e Cattolici romani.
Un’altra difficoltà emergeva. Le due comunioni avevano procedure molto diverse per rispondere ai documenti ecumenici. Da una parte e dall’altra, non si sapeva bene quale sarebbe stata la procedura scelta dell’altra parte; spesso, d’altronde, non si aveva neppure un’idea chiara su quale procedura sarebbe stata seguita nella propria tradizione. La Comunione anglicana si riferiva alle risposte delle sue province ecclesiastiche, risposte basate sul frutto di una larga consultazione e su decisioni sinodali. Queste risposte sono state riunite e pubblicate per la Conferenza di Lambeth nel 1988, che si sforzava di discernere lo spirito della Comunione sull’argomento. Ma la risposta cattolica non fu resa pubblica in tempo per essere comunicata alla Conferenza. Inoltre dopo la pubblicazione delle risposte di due o tre conferenze episcopali, nessuna risposta cattolica regionale fu più pubblicata. Questo fatto ha prodotto una grande delusione da parte anglicana e si è sospettato un conflitto interno nella chiesa cattolica.Quando fu finalmente pubblicata la risposta ufficiale, essa faceva eco a certe difficoltà già rilevate nelle Osservazioni iniziali della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il testo infatti chiedeva all’ARCIC una maggiore conformità all’insegnamento della Chiesa cattolica.
Si intuiva che vi fosse una scarsa comprensione del metodo ecumenico di dialogo, che tenta di ritornare alla sacra Scrittura e alla Tradizione per riformulare oggi la fede della Chiesa in maniera che nessuna delle due parti dovesse aspettarsi di trovare nell’accordo finale il suo proprio linguaggio dottrinale. Ci si è anche resi conto di quanto sia difficile aspettarsi una risposta dalle due parti in un tempo di egual durata, dato i diversi modi di procedere per prendere le decisioni dagli uni e dagli altri. I laici hanno finito con il disinteressarsi non solo della discussione dottrinale, ma anche dell’ecumenismo ricettivo in generale.  
Anche altri fattori hanno militato contro l’ecumenismo ricettivo. Alcune province della Comunione anglicana avevano già deciso di ordinare delle donne al sacerdozio, e verso gli anni ottanta il problema dell’ordinazione delle donne all’episcopato era già oggetto di discussione in America. La Chiesa di Inghilterra, da parte sua, aveva ordinato alcune donne al diaconato e si interrogava in maniera più viva sull’ordinazione di donne al sacerdozio. Per la Chiesa cattolica questa evoluzione, decisa in maniera unilaterale, sembrava mettere in discussione l’impegno ecumenico della Comunione anglicana verso l’unità visibile, verso il progresso già compiuto nel dialogo dell’ARCIC, e verso il grado di comunione esistente fra Anglicani e Cattolici romani..Pareva che divenisse impossibile ogni passo concreto in vista del riconoscimento delle ordinazioni, della riconciliazione dei ministeri. E contemporaneamente pareva che svanisse ogni speranza di reciproca ospitalità eucaristica. Si vedeva così rimandare a un avvenire assai incerto l’impulso indispensabile per incoraggiare e sostenere l’ecumenismo ricettivo, cioè la condivisione intensificata a livello di ministero e di vita sacramentale. E del pari non si è vista emergere la prossimità relazionale che avrebbe potuto permettere che, in una delle due parti, fossero trattate insieme in maniera creativa nuove questioni di fede, di costituzione e relative alla vita morale.
Guardando indietro si può facilmente scorgere l’influenza negativa che ha avuto l’assenza di un accordo previo sul procedimento di consultazione. Non ci si era neppure domandati se la considerevole comunione che esisteva già fra le due parti non avrebbe dovuto imporre una certa moderazione nell’affrontare queste questioni nuove, almeno lungo la durata del dialogo. Una consultazione di questo genere, infatti, richiede il rispetto e la scambievole fiducia.
Esisteva d’altronde un’altra delusione da parte anglicana: prendendo delle decisioni sulla ordinazione delle donne, gli Anglicani avevano riconosciuto che si trattava di una questione che riguarda il ministero della Chiesa universale e che, per conseguenza, le decisioni e le azioni provinciali dovevano essere necessariamente comprese come un processo aperto di ricezione, nella Comunità anglicana stessa e nella comunità di tutte le Chiese. Il fatto che la Chiesa cattolica abbia dichiarato che la discussione era chiusa definitivamente è stato sentito dagli Anglicani come un duro colpo, perché in tal modo si escludeva il discernimento continuo e la ricezione aperta sulla quale erano basate le loro risoluzioni e le loro legislazioni.
Certo i Cattolici romani hanno il diritto di insistere sul fatto che in regime di ecumenismo ricettivo occorre evitare di prendere decisioni unilaterali su questioni che potrebbero mettere in pericolo l’unità stessa della Chiesa: dovrebbe imporsi una certa moderazione. Da parte loro gli Anglicani replicheranno che l’ecumenismo ricettivo esige che nessuna questione di fede, di costituzione o di vita morale sia esclusa dall’ordine del giorno ecumenico.
Nella corrispondenza aperta fra il papa e l’arcivescovo Robert Runcie a proposito dell’ordinazione delle donne in seguito alla Conferenza di Lambeth nel 1988, il papa evoca la seria erosione, a causa di quello che è avvenuto, del grado di comunione esistente fra Anglicani e Cattolici romani. Ma afferma anche che un grado di comunione continua a esistere. Lo scambio ha sottolineato che non può darsi nessuna azione unilaterale senza conseguenze per l’altra parte. Il riferimento al “grado di comunione” che esiste sempre ricordava però che, se vogliamo che sussista l’ecumenismo ricettivo, dobbiamo vigilare sul grado di comunione che esiste già ed evitare tutto quello che può nuocere a questa comunione. Ci si rende perciò conto di quanto sia urgente stabilire dei meccanismi di consultazione e di discernimento comuni e persino di decisioni da prendersi in comune.

Il lavoro dell’ARCIC II

Il lavoro dell’ARCIC II è passato in gran parte inavvertito nelle due comunioni. A differenza dell’ARCIC I, questo lavoro non è stato oggetto di inviti rivolti alla base a studiare i suoi rapporti e a redigere reazioni. Questo fatto ha avuto il risultato di rallentare il processo di mutua scoperta delle due parti; si constatava anche una perdita di interesse per i dialoghi teologici, che non potrebbero produrre altro che documenti destinati a rimanere tranquillamente negli scaffali delle biblioteche. Poiché, a livello delle parrocchie, non si avvertiva alcun cambiamento concreto nei rapporti fra le due comunioni, l’interesse cominciò a diminuire. Si aveva sempre più l’impressione che la ricerca dell’unità visibile non fosse più attuale.
Tuttavia nell’ulteriore lavoro dell’ARCIC II le nozione della ricezione e della “ri-ricezione” è diventata un elemento centrale delle stesse dichiarazioni comuni. Il dono dell’autorità offre non soltanto una dichiarazione sull’autorità; ma include anche delle sfide concrete rivolte alle due parti per la riforma della loro vita interna fin da ora. Con un certo coraggio esso li invita, ambedue, a “ri-ricevere” il ministero del vescovo di Roma, prima di ogni passo verso l’unità visibile. (10) Le sfide che l’ARCIC rivolge agli Anglicani sono del tutto opportune. Fanno eco, d’altronde, a quelle che la Commissione teologica e dottrinale inter-anglicana (IATDC) aveva rivolto anch’essa agli Anglicani, ma che purtroppo non hanno quasi attirato l’attenzione dei vescovi alla Conferenza di Lambeth del 1988. (11) Il rapporto supera anche l’accordo dottrinale incoraggiando l’ecumenismo ricettivo “mediante il rinnovamento e le riforma delle strutture e dei procedimenti interni di ogni comunione e questo da subito”. Ciò significa che se le due parti intraprendessero una simile riforma si avvicinerebbero l’una all’altra.
In modo simile il rapporto più recente dell’ARCIC II, Maria: Grazia e speranza nel Cristo, va al di là del livello di una dichiarazione dottrinale quando invita le parti a una “ri-ricezione”, supponendo che il documento apra la possibilità di “ri-ricevere” la tradizione riguardante il posto di Maria nella redenzione che Dio ha operato . Un tale fatto accelererebbe anche il processo già avviato, nel mondo anglicano con il rinnovamento liturgico, e per la Chiesa cattolica con il capitolo VIII della Lumen Gentium e la Marialis Cultus. (12)
Questi due recenti documenti dell’ARCIC II insistono sul fatto che la ricezione non è semplicemente un fatto di accettazione di alcune formule, ma anche e soprattutto una volontà  di riformarsi e di essere riformati. Si tratta, in una parola, di “ecumenismo ricettivo” nel senso più profondo della parola. E nasce la questione bruciante di sapere a chi spetta la responsabilità, in ognuna delle due parti, di trarre le conseguenze per la vita e per la testimonianza in risposta alla sfide poste dalla stessa Commissione. Quali sono le struttura che incoraggerebbero in maniera efficace questo rinnovamento radicale, e chi può verificare che siano messe in atto?

Una nuova iniziativa nell’ecumenismo ricettivo: Mississauga, 2000

Una iniziativa senza precedenti di “ecumenismo ricettivo” è stata presa nel maggio 2000, quando l’arcivescovo George Carey e il cardinale Cassidy, con la benedizione di papa Giovanni Paolo II, hanno riunito a Mississauga (Canada) vescovi anglicani e cattolici di tredici paesi per conoscere a qual punto le due comunioni erano nella loro mutua relazione e dove si dirigevano all’inizio del nuovo millennio. Si aveva l’impressione che la bandiera ecumenica stesse per passare dalle mani di alcuni ferventi ecumenisti della prima ora a quelle di coloro il cui ministero comprende la cura dell’unità della Chiesa. L’intenzione era che i vescovi riflettessero sulle proprie esperienze di relazioni fra Anglicani e Cattolici romani nelle loro rispettive diocesi, che prendessero conoscenza di quel che avveniva in altre regioni del mondo e che valutassero tali esperienze alla luce della convergenza teologica che nasce dal lavoro dell’ARCIC. L’intenzione era di porre la domanda per sapere quale è la relazione fra l’accordo teologico e le relazioni vissute. (13)
Alla fine del loro incontro i vescovi hanno pubblicato una dichiarazione e un progetto di azione. Nel loro rapporto essi affermano che la comunione esistente fra gli Anglicani e i Cattolici romani non deve più essere considerata in maniera minimalista. Essa è, secondo loro, una “ricca e vivificante comunione, dai molteplici aspetti”. Essi constatano che gli Anglicani e i Cattolici romani si sono molto avvicinati alla meta dell’unità visibile. I vescovi giungono fino a tracciare in poche parole il modello di unità al quale Dio chiama le due comunioni a vivere insieme. (14) Essi stabiliscono la lista degli elementi che gli Anglicani e i Cattolici romani hanno in comune: tali  elementi mettono in prospettiva le differenze sussistenti – l’esercizio dell’autorità, la natura precisa del primato universale, gli ordini anglicani, l’ordinazione delle donne e le questioni morali ed etiche. La prospettiva possiede una dinamica che consente di affrontare tali differenze.
Il suggerimento più importante del comunicato finale dell’incontro di Mississauga era che il momento era venuto di dare inizio a una nuova tappa delle relazioni firmando una dichiarazione comune di accordo che enunciasse lo scopo comune dell’unità visibile, elencasse gli accordi  e le convergenze teologiche constatate dal lavoro dell’ARCIC e, su questa base, esprimesse l’impegno concreto di vivere una relazione più stretta e in una missione comune. I vescovi lasciano intendere il genere di vita comune che considerano possibile fin d’ora e sottolineano il bisogno di nuove forme di consultazione e insieme il riconoscimento del fatto  che nessuna dichiarazione ecclesiale è per ora di natura puramente interna. Essi sottolineano l’importanza della condivisione fra vescovi e della collegialità condivisa, e dichiarano che spetta proprio ai vescovi di assumersi la responsabilità di questa nuova fase di ecumenismo ricettivo.
Il suggerimento dei vescovi riuniti a Mississauga si situa nella linea della visione del Rapporto di Malta, specialmente per quel che riguarda l’idea del nesso necessario fra il progresso teologico e il progresso nell’esperienza vissuta insieme. Come il Rapporto di Malta, esso raccomanda che si inauguri una nuova relazione mediante l’affermazione e il riconoscimento esplicito al più alto grado di autorità di ogni comunione  e che questa nuova relazione sia inaugurata in maniera festiva a livello locale. I vescovi si sono lasciati con la grande speranza di vedere che le relazione fra Anglicani e Cattolici romani acquistino una nuova velocità ed entrino in una nuova collaborazione che permetta una vera ricezione comune. Molto rapidamente si è costituita una nuova commissione internazionale, l’IARCCUM, incaricata di elaborare una dichiarazione comune per inaugurare questa nuova tappa di collaborazione impegnata, questa nuova franchezza comune, questa nuova tappa di impulso verso l’ecumenismo ricettivo.

ALCUNE CONCLUSIONI POSSIBILI

Che cosa possiamo dunque apprendere dalla storia di questi ultimi 45  anni sull’ecumenismo ricettivo?
   1° L’ecumenismo ricettivo esige la partecipazione non solo di dirigenti e di teologi, ma di comunità intere che abbiano voglia di imparare a conoscersi reciprocamente e che accettino il fatto che il rinnovamento e il cambiamento sono necessari per l’unità nella missione e nel servizio.
   2° L’ecumenismo ricettivo esige che vi siano dei dirigenti efficaci, incaricati di un ministero di unità, che siano impegnati verso l’unità visibile della Chiesa e che siano disposti a considerare come elemento integrante del loro ministero la responsabilità a livello sia personale sia collegiale, di una collegialità crescente che abbia come scopo di consolidare la comunione che già esiste e di dirigere il processo dell’ecumenismo ricettivo.
   3° L’ecumenismo ricettivo esige una comprensione migliore delle strutture e dei processi di ricezione nella propria comunione e nella altra parte; esige anche che si giunga a protocolli comuni riguardo al processo di ricezione.
   4° L’ecumenismo ricettivo esige che si elaborino delle strutture comuni per stabilire e portare all’applicazione i principi pratici della ricezione, che tengano conto della responsabilità e della scambievole consultazione.
   5° L’ecumenismo ricettivo esige una riflessione rigorosa sul significato della mutua responsabilità quando da parte di una delle parte viene impostata una discussione che riguardi la fede, la costituzione della Chiesa, la vita morale, oppure quando essa impegna i legami fondamentali della comunione della Chiesa. Occorre anche riflettere su quel che le due parti si aspettano l’una dall’altra in materia decisioni da prendere.
   6° La conversazione teologica deve continuare, ma con una maggiore partecipazione delle due comunità, e con una maggiore chiarezza in quel che concerne le questioni da prendere come materia di una dichiarazione comune, e sulle procedure di risposta che impegnino maggiormente la comunità dei fedeli.
In conclusione non è il momento di abbandonare lo scopo di quello che si chiama “l’unione strutturale”. Se ci auguriamo un approfondimento dell’ecumenismo ricettivo, bisognerà insistere costantemente sullo scopo dell’unità visibile; questa insistenza non condurrà a una concezione autoritaria dell’unità strutturale, ma a una visione che offra ai fedeli un’idea convincente e motivante dell’unità alla quale Dio chiama gli Anglicani e i Cattolici romani, Questa insistenza deve invitarci tutti ad affermare la ricca diversità che può manifestarsi nell’unità. Essa ci invita anche a riflettere sulle strutture e sui processi che potrebbero sostenere la diversità autentica nella comunione, collegando il locale all’universale. Questa insistenza sullo scopo deve presentare la ricerca dell’unità come una risposta convincente alla volontà di Dio, nell’interesse di una testimonianza credibile resa al Vangelo della riconciliazione.
La riunificazione strutturale non si produrrà da un giorno all’altro. In quanto scopo può sembrare poco realistica a breve tempo. Ma le misure fiduciose e autentiche  che possiamo prendere e le nuove tappe che possiamo inaugurare fin d’ora nel graduale avvicinamento, potranno fornire un nuovo contesto di ricettività reciproca e una nuova fase di apprendistato ecumenico.

Mary Tanner

(da Irenikon, 2008, n. 2-3, p. 179)

 

Note

1)  Contributo al colloquio su “L’apprendistato cattolico: esplorazioni sull’ecumenismo ricettivo”, organizzato al Collège d’Ushaw (Inghilterra) dal 12 al 17 gennaio 2006, pubblicato in Receptive Ecumenisme and the Call to Catholic Learning. Exploring a way for contemporary ecumenism, Oxford University Press, 2008, ISBN 978 0 19 921645-1.
2)  Il Papa Benedetto XVI lo ha affermato chiaramente fin dalle prime dichiarazioni del suo pontificato. Si trovano sentimenti simili nei discorsi dell’arcivescovo di Canterbury e nelle decisioni prese dai vescovi della comunione anglicana riuniti alla Conferenza di Lambeth nel 1998. Persino la regina Elisabetta II ha invitato il Sinodo generale della Chiesa di Inghilterra, nel novembre 2005, a mantenere tale impegno al centro del suo lavoro.
3)  The Common Declaration, in A. CLARK e C DAVET, Anglican-Roman Catholic Dialogue. the Work of the Preparatory Commission, Oxford university Press, (1974), pp 1 ss.
4)  The Malta Report, in A. CLARK e C. DAVEY,  op. cit.
5)  La Inter-Anglican Standing Commission on Ecumenical relations  (Commissione permanente inter-angliacana sulle relazioni ecumeniche)
6)  The Official Report of the Lambeth Conference 1988,  Harrisburg, (Pennsylvania [Stati uniti]), Morehouse Publishing, 1988, p.404.
7)  Anglican – Roman Catholic International Commission ARCIC (Commissione internazionale anglicana-carttolico romana.
8)  Una domanda rimane sempre aperta:bisogna preferire la pubblicazione dei testi originali dei documenti ecumenici accanto alle Elucidazioni? Oppure è meglio riformulare il testo tenendo conto delle risposte e delle reazioni?
9)  The Final Report of the Anglican – Roman Catholic International Commission, CTS/SPCK, 1982.
10)  The Gift of Authority: Authority in the Church III, CTS/Anglican Book Centre, Toronto (Canada), 1999.
11)  The Virginia Report. The Report of the Inter-Anglican Theological and Doctrinal Commission, Harrisburg, (Pennsylvania [Stati Uniti]), Morehouse Publishing, 1999.
12)  Mary, Grace and Hope in Christ, Pennsylvania [Stati Uniti], Morehouse, 2005.
13)  One in Christ, t. 39, n° 1, gennaio 2004, pp. 3-61.
14)  Una “comunione eucaristica delle Chiese che confessano questa unica fede e ne rivelano la ricchezza con la loro armoniosa diversità; che si mostrano unanimi nell’applicazione dei principi che governano la vita morale; che sono servite da ministri che la grazia dell’ordinazione riunisce nel corpo episcopale innestato sulla società degli Apostoli, e al servizio dell’autorità che il Cristo esercita sul suo Corpo. Il ministero di supervisione possiede allo stesso tempo una dimensione collegiale e primaziale ed è sempre aperto alla partecipazione della comunità nel discernimento della volontà di Dio. Questa comunione eucaristica sulla terra è una forma di partecipazione alla comunione più vasta dei santi e dei martiri, e di tutti coloro che si sono addormentati nel Cristo attraverso le epoche” (Service d’information CPUG, n° 104).

 

Letto 5944 volte Ultima modifica il Martedì, 30 Agosto 2011 11:02
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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