Le ferite generate da questa inimicizia sono troppo numerose e non sono state ancora guarite per parlarne in modo puramente accademico. Rendendo conto dei propri limiti, l'autore cercherà di presentare in modo per quanto è possibile imparziale le due verità in antitesi sotto i profili, storiche, religiose, umane.
Il seme del plurisecolare conflitto fu deposto già con la divisione dell’antica Rus' nei due stati di Lituania e di Moscovia. In seguito all'invasione dei mongoli nel XIII s. la Rus' di Kiev, battezzata dal gran principe Vladimir nel 988, era diventata poi parte del grande principato lituano. Successivamente all'unione di Lublino del 1569 la Rus' lituana con la sua popolazione di "fede della legge greca", come si diceva all'epoca, fu annessa al regno polacco, di popolazione cattolica. Dal punto di vista del rispetto della libertà di coscienza, diciamo in termini moderni, la Polonia era infinitamente più tollerante della Rus' di Mosca (siamo all'epoca di Ivan il Teribile), ma nel XVI secolo ogni tolleranza religiosa aveva i suoi limiti. In questo contesto gli ortodossi, perlopiù gente semplice, artigiani e contadini, che vivevano sotto una forte pressione economica e sociale, furono sottoposti anche ad una discriminazione religiosa. La Chiesa ortodossa, se non era apertamente perseguitata, si sentiva umiliata e stretta in un giro di vite in parte anche provocato dall'autorità polacca, che voleva separare da Mosca la metropolia di Kiev per spingerla - nella versione ortodossa - all’unione con Roma. Quell'unione - nella versione cattolica - era niente altro che il ritorno legitimo alle intenzioni originarie del concilio unionista di Firenze-Ferrara del 1439-1440, rigettato senza valido motivo da Mosca e successivamente dal resto del mondo ortodosso.
Nel 1595 alcuni vescovi ortodossi, fra cui Ipatij Potsei, Kirill Terletskij e altri, si recano a Roma e sottoscrivono l'atto di unione con il papa Clemente VIII. Ciò che colpisce gli ortodossi non è tanto il semplice fatto della sottomissione a Roma, ma l'imposizione della teologia romana e di dogmi inaccettabili per gli orientali (il Filioque e il concetto del purgatorio). A quell' epoca, in cui l'idea di ecumenismo non esisteva neanche nel pensiero, l'unica forma di "dialogo" era semplicemente costituita dall' annessione alla Chiesa di Roma delle chiese "scismatiche", o di parti di esse. Nel 1596 fu convocato un concilio nella città di Brest (nella Bielorus di oggi) che proclamò l’"unione" con la Chiesa di Roma della Chiesa ortodossa che si trovava nel Regno polacco. Allo stesso tempo nella stessa città fu tenuto un altro concilio semi-clandestino in cui gli ortodossi scomunicarono gli "uniti". Lo scontro si è fatto sentire anche nei termini: "greco-cattolici" per loro stessi, "uniati", il titolo che ha un accento spregiativo per gli ortodossi.
"Ritorno dallo scisma" per i primi, "complotto dei vescovi, fatto dietro la schiena del propria gregge", per gli ultimi.
Questo gregge in quell'epoca non ebbe vita facile. Dopo l'unione, la pressione sugli ortodossi fu appesantita. Il Seim (parlamento) polacco promulgò contro il culto ortodosso un gran numero di leggi speciali, sorprendente simili alle ben note "istruzioni segrete" di stampo sovietico. "Nelle grandi città le chiese sono state sigillate, le proprietà ecclesiastiche sono state rubate, nei monasteri non ci sono più monaci, i bambini muoiono senza battesimo, i corpi dei defunti sono trasportati alla fossa come carogne e senza il rito funebre, i mariti vivono con le mogli senza benedizione ecclesiale…" - lamentava un deputato ortodosso al Seim di Varsavia nel 1620. La situazione diventò insopportabile per gli ortodossi sotto l'arcivescovo di Polotsk Giosaphat Kunzewicz, ucciso dalla folla dopo aver chiuso tutti i luoghi di culto non-unito esistenti nel territorio della sua metropolìa. "La coscienza mi vieta di concedere queste Chiese perchè in esse si bestemmi Iddio", - scriveva Kunzewicz al Gran Cancelliere del Ducato di Lithuania Leone Sapieha che lo chiamava alla tolleranza.
"Santo martire, apostolo dell'unità", la cui l'icona si trova in quasi tutte le chiese greco-cattoliche. "Implacabile persecutore" - per gli ortodossi.
Tutto il XVII secolo fu trascorso tra conflitti sanguinosi dei cosacchi ortodossi con i polacchi latini e i greco-cattolici ucraini. Questa guerra senza fine spinse l'atamano cosaccho Bogdan Khmelnitskij a chiedere nel 1654 allo zar Alessio - forse, a malincuore - l'adesione della parte dell'Ucraina da lui controllata alla Rus' di Mosca. Alla fine del XVIII s. la Polonia perse la propria independenza e fu ripartita fra tre Stati, Prussia, Austria et Russia. Nel 1831, un tentativo di insurrezione lituano-polacca contro l'impero russo fu schiacciata dallo zar Nicola I, la cui collera cadde anche sui greco-cattolici, coinvolti nella rivolta. Molte chiese da loro edificate vennero sequestrate e riportate con la forza all’ortodossia. La rivoluzione bolscevica del 1917, che dichiarò guerra senza quartiere a tutte le religioni, quasi non toccò la popolazione greco-cattolica rimasta fuori dell'URSS, in gran parte in Polonia. Ma nel periodo 1920-1939 non poche chiese ortodosse presenti in questo territorio (in alcuni casi si trattava di chiese originariamente greco-cattoliche ma successivamente integrate nell’ortodossia) furono sequestrate in seguito a processi in tribunali, a volte anche distrutte. A titolo di verità va detto che se tali chiese si fossero trovate in territorio sovietico, sarebbero semplicemente sparite della faccia della terra.
Nel 1939 l'URSS, in quel momento alleato alla Germania nazista, attaccò la Polonia e restituì l'Ucraina occidentale al governo di Mosca. Al termine della seconda guerra mondiale e successivamente alla suddivisione dell’Europa, Stalin dopo la vittoria decise di dare alla questione "uniate" la sua "soluzione finale". Nel 1946 a Lviv fu tenuto un concilio, in cui ex-sacedoti greco-cattolici (senza vescovi) proclamarono il loro desiderio di ritornare alla Chiesa Ortodossa russa. Possiamo ammetere che per alcuni di loro quel desiderio potesse essere sincero. Ma la maggioranza dei sacerdoti che parteciparono al "concilio" furono attori di quello "spettacolo" staliniano a cui il mondo si dovette abituare dopo i "processi" degli anni ‘30. Gli altri furono mandati in Siberia, fra di loro il card. Slipyi che ha trascorso 18 anni nel Gulag. Dopo il concilio Padre Gavriil Costelnik, uno dei suoi protagonisti, fu ucciso. "Traditore" per gli uni, "martire" per gli altri.
Ma c'è un problema molto più spinoso: quello della colpa della Chiesa ortodossa. Davvero essa volle partecipare al gioco sporco di Stalin o fu vittima dello stesso gioco? Vero è l'uno, come anche l'altro. Dal punto di vista della sua ecclesiologia, la Chiesa ortodossa non accetta l'esistenza stessa della Chiesa "unita" col rito bizantino, di teologia romana e sottomessa alla Chiesa latina. Ma la teologia è una cosa, i diritti umani è un'altra. Neppure nella sua recente dottrina sociale la Chiesa di Mosca ha riconosciuto la piena libertà di coscienza che può servire un legittimo pretesto per giustificare l’apostasia. Comunque essa, appena uscita dal suo grande martirio (ma non dalla pressione), accettò quel regalo avvelenato - l’annessione delle Chiese greco-cattoliche - dalle mani di colui che distrusse più di chiese cristiane di quanto non abbiano fatto tutti gli imperatori romani della storia. In qualsiasi caso il Patriarcato - come nessuno all'epoca - non ha potuto dire di no.
I decenni 1946-1986 è il periodo della vera persecuzione per la Chiesa greco-cattolica. "No, della sua libera adesione alla Chiesa russa" - secondo la posizione immutabile di questa ultima. I greco-cattolici, coloro che hanno sopravissuto la tromba staliniana, sono andati nei boschi, in nascondigli segreti per celebrare. Ufficialmente loro non esistevano più. Per sempre, come credevano, cioè fino al prossimo turno della storia, arrivato con la perestoyka. Le riforme, la libertà dilagante, la caduta dell'impero sovietico, la nascita dell'Ucraina independente.
Negli anni 1986-1989 la Chiesa greco-cattolica esce dalla sua clandestinità: dopo 40 anni della persecuzione, essa comincia a riprendere in mano la situazione. La Chiesa ortodossa in Ucraina all'inizio non si rende conto di ciò che sta accadendo. "Polizia, una rapina!" - gridò, ma tutto è già cambiato. La polizia è andata nelle mani del nuovo potere locale, nazionalista, accanimente antirusso. "Via il pope di Mosca" - urla la folla quando il patriarca Alessio visitava Kiev all'inizio degli anni 90. Centinaia di chiese vengono prese con la forza, ora sono gli ortodossi a sentirsi vittime dei greco-cattolici. "Legittima restituzione della nostra storica proprietà", per gli uni; "una crociata antiortodossa teleguidata da Roma", per gli altri. Il Patriarcato di Mosca parla del "pogrom" dell'ortodossia nell’Ucraina dell'ovest (la regione di Lviv, Ternopil, Ivano-Frankivsk), ciò che al suo avviso rende impossibile la visita a Mosca di Giovanni Paolo II. E’ certo che gli antimoscoviti che si identificano con i greco-cattolici non ricevono ordini da Roma, ma chi da parte ortodossa (ufficiale) vuole conoscere questi dettagli?
Con l'insediamento del Cardinal Husar è Kiev il vecchio conflitto dovrebbe diventare più amaro. Ma "noi da Kiev siamo stati cacciati, Kiev è il nostro centro" (Husar). "I greco-cattolici vivono perlopiù all'Ovest. Al riguardo non si capisce perché la dirigenza della Chiesa greco-cattolica intende spostarsi a Kiev… L'unica erede della sede storica di Kiev è il Patriarcato di Mosca" (metr.Kirill). Aggiungiamo che sul territorio ucraino si trovano anche altre due Chiese ortodosse non riconosciute né da Mosca, né dalla pienezza del mondo ortodosso: il Patriarcato di Kiev, il cui capo, l'ex-membro del santo Sinodo dal Patriarcato di Mosca, l'ex-metropolita Filaret, è scomunicato dallo stesso Sinodo, e la Chiesa autocefala ucraina, tornata dall'estero e considerata non canonica. Tutte le tre Chiese, per ora irreconciliabili fra di loro, vedono "l'uniatismo" come aggressione di Roma contro l'ortodossia, ciò certamente che non fa la situazione più facile.
Sulla nuova sede della Chiesa greco-cattolica a Kiev il Patriarca Alessio ha già espresso la sua preoccupazione (per non dire di più). Ma la protesta più forte è uscita dal Patriarca Ecumenico Bartolomeo; nella sua lettera al Papa (dal 29 novembre 2003) il "primus inter pares" nel mondo ortodosso dice che l'eventuale istituzione del patriarcato greco-cattolico a Kiev (che potrebbe diventare il prossimo passo dopo l'insediamento del cardinale) "farà saltare i tentativi per la continuazione del dialogo" e "farà tornare al clima d'ostilità che vigeva fino a pochi decenni fa". Gli anni passano, gli uomini, i regimi, i paesi, le circostanze cambiano, ma il nodo del conflitto è ancora molto stretto.
Due storie, due visioni, due ragioni, due logiche diverse, ma le sofferenze umane, i martiri, la fedeltà alla propria fede sono le stesse. Il problema è che ogni parte in causa ricorda unicamente il proprio martirio, anche se subìto secoli fa, senza guardare o "sentire" il martirio del suo vicino. Una soluzione di quel nodo diventerà possibile solo quando ognuno potrà riconoscere il proprio dolore sul volto del suo prossimo di una altra fede. Cominciando da quel dolore, riconoscere anche il Cristo riconoscere anche il Cristo dell’altro e nell'altro. Dal martirio condiviso si può arrivare anche alla comprensione reciproca, alla vittoria sull'inimicizia secolare. In più: su una parte della propria identità. Un miracolo che frantumi i pesanti muri della storia è sempre possibile. Come fu possibile la riconciliazione di Paolo VI col patriarca Atenagora, quando nel 1965 annullarono le scomuniche reciproche del 1054 fra Roma e Costantinopoli, e davanti a Dio chiesero insieme perdono.