Ecumene

Mercoledì, 23 Marzo 2011 10:49

Rūmī mistico poeta (Fabio Salomoni)

Vota questo articolo
(10 Voti)

Il mondo del misticismo islamico celebra l’ottavo centenario del suo maestro più conosciuto: Jalâl âl-Dîn Rûmî. A Konya, dove oggi è venerato, si intrecciano ricerca spirituale, riscoperta artistica e interessi commerciali, intorno a un simbolo dell’Islam più aperto e dialogante. La tradizione sufi, diffusa soprattutto nel mondo sunnita, mette l’accento sull’esperienza religiosa come percorso di ricerca individuale.

Rūmī mistico poeta

di Fabio Salomoni

«Mostrati come sei o sii come ti mostri». La citazione, tradotta in otto lingue, è incisa sui marmi luccicanti del nuovo centro culturale che la città di Konya, in Turchia, ha dedicato agli 800 anni della nascita di Jalâl âl-Dîn, conosciuto in Occidente come Rûmî (l’anatolico) e nel mondo musulmano come Mevlana (il maestro). Autore di testi poetici e filosofici in lingua persiana, tra i quali il Mazthnawî, una grandiosa composizione in versi mistico-religiosa, ispiratore della confraternita dei dervisci danzanti, Rûmî rappresenta una delle figure più significative della tradizione del misticismo islamico: il sufismo o meglio, il tasavvuf in turco (tasawwuf, in arabo). In tempi di «scontri di civiltà», l’Unesco ha voluto celebrare l’anniversario della nascita del filosofo proclamando il 2007 «anno di Mevlana».

Maestro di incontro

Rûmî nacque nel 1207 a Balkh, nella regione del Khorasao, oggi Afghanistan. La città, importante tappa lungo la Via della seta, rappresentava il crocevia dove confluivano uomini e culture diverse, in una zona a cavallo tra il mondo persiano, quello turco, cinese e indiano. Il carattere cosmopolita della città, insieme alla figura del padre, un ortodosso dottore della legge islamica contribuirono a forgiare la personalità di Rûmî.

Durante l’invasione mongola, il padre decise di abbandonare la città con la famiglia e i discepoli. Al termine di un lungo viaggio giunse a Konya, in Anatolia, all’epoca capitale dell’impero selgiuchide, e qui Rûmî trascorse il resto della sua vita fino alla morte nel 1273. A Konya ritrovò lo stesso ambiente cosmopolita che aveva lasciato a Balkh. Al centro dell’impero dei seIgiuchidi, etnicamente turchi, ma fortemente influenzati dalla cultura persiana, erano ancora vive le tracce della tradizione cristiana, di quella ebraica e di quella sciamanica dei nomadi turcomanni.

Studioso di filosofia islamica, conoscitore dei classici della Filosofia greca che leggeva nella lingua originale, Rûmî a cinquant’anni visse un avvenimento che lo segnò profondamente: l’incontro con il mistico e poeta Shams di Tabriz. Come ricorda Hilmi Yavuz, uno dei più autorevoli studiosi turchi della tradizione tasavvuf, da allora Rûmî «si fa più attento alla realtà mondana, in qualche modo si secolarizza». La tradizione tasavvuf diffusa soprattutto nel mondo sunnita, mette l’accento sull’esperienza religiosa come percorso di ricerca individuale, caratterizzato da una grande disciplina spirituale e mentale e da grande intensità emotiva. Il sufismo prende le distanze dal formalismo e dal legalismo della legge religiosa. In Rûmî questi elementi si accentuano dopo l’incontro con Shams e la morte del padre: «Ehi, voi che andate alla Mecca, dove andate, dove? Tornate dai deserti, l’amato che cercate è qui».

L’esperienza religiosa come ricerca individuale diventa uno dei tratti caratteristici del pensiero di Rûmî. «Tu chi sei?» è la domanda che più frequentemente rivolgeva alle persone, a testimonianza, ricorda Yavuz, di come la conoscenza di sé fosse per lui elemento irrinunciabile della conoscenza religiosa. «Vieni, chiunque tu sia, vieni, il nostro non è il convento dei senza speranza». Questa frase che, non senza qualche dubbio, viene attribuita a Rûmî esprime efficacemente anche un’altra caratteristica della sua personalità: la familiarità con la diversità culturale, l’apertura verso l’altro, atteggiamenti che hanno fatto di Rûmî un simbolo di tolleranza e di convivenza. Eflaki, uno dei suoi discepoli più intimi, fu testimone di questa realtà: «Cristiani, ebrei, arabi, turchi, tutte le nazioni e i leader religiosi, così come i governanti dell’epoca, parteciparono al suo funerale».

Rûmî è un pensatore saldamente ancorato alla tradizione del sufismo islamico, ma caratterizzato, sottolinea Yavuz, da una peculiarità: «Per usare una metafora, avendo un piede dentro l’Islam e l’altro tra 72 popoli, Rûmî concilia la mondanità e la legge religiosa islamica». Forse, proprio in questa combinazione sta la spiegazione della popolarità di cui gode Rûmî anche al di fuori del mondo musulmano.

Danzatori mistici

La sua figura è anche associata in modo indissolubile all’immagine delle tuniche bianche dei dervisci che danzano ruotando al suono del ney, il flauto di canna della tradizione tasavvuf Le cronache dell’epoca ci raccontano di come gli slanci mistici portassero Rûmî alla danza estatica, sama, nelle situazioni più diverse. Mentre discuteva con i suoi studenti, nel convento, per la strada, magari ispirato dal suono ritmico del martello dell’orefice Selaheddin, un’altra delle figure importanti nella vita del filosofo.

Alla sua morte fu il figlio Sultan Veled a fondare la confraternita (tarikat in turco, tariqa in arabo) dei Mevlevi e a sistematizzare il rituale della danza. Attraverso la storia della confraternita è possibile rileggere anche la storia dell’Anatolia, dalla plurisecolare esperienza ottomana fino alla repubblica turca laica.

Dopo la sua fondazione, la confraternita si diffuse a macchia d’olio in tutto il territorio dell’impero ottomano, arrivando a contare quasi 140 case (mevlevihane). Come altre confraternite religiose, anche quella dei Mevlevi svolse un ruolo importante nella vita religiosa, culturale e politica dell’impero. Nel 1924 la repubblica laica decise l’abolizione di tutte le confraternite religiose e la chiusura dei loro conventi, ma Mevlevi nel 1957 ritornano con lo statuto di associazione culturale, nel decennio di governo del Partito democratico, che portò a un ammorbidimento delle restrizioni religiose del periodo kemalista. Da allora i dervisci di Konya fanno rivivere la danza estatica di Rûmî ai quattro angoli del pianeta.

Un’eredità multiforme

Che cosa è rimasto oggi della eredità di Rûmî? Da anni è crescente la sua popolarità al di fuori del mondo musulmano. Le sue opere principali, il Mathnawi e le poesie del canzoniere Divan, hanno avuto grande successo in Occidente. L’interesse che suscitano le danze dei dervisci e il sensibile aumento dei visitatori che ogni anno arrivano a Konya sono un altro segno di questa riscoperta. Per Hilmi Yavuz la popolarità di Rûmî  in Occidente «è legata anche ai problemi creati dal materialismo». Yavuz mette in guardia dal rischio che Rûmî venga trasformato in un guru «in grado di fornire risposte ai bisogni spirituali». Nuri Şimşekler, direttore del centro studi Mevalana dell’Università di Konya, concorda sostenendo che il rinnovato interesse per Rûmî “è parte dello stesso fenomeno di ricerca spirituale che porta gli occidentali ad avvicinarsi al buddhismo”.

Diverso il destino di Rûmî in Turchia. Per lungo tempo e per ragioni diverse lo si è guardato con sospetto, in alcuni ambienti religiosi con quel sospetto con cui a volte l’islam ufficiale ha guardato al mondo sufi, accusato di essere poco sensibile alle regole. Gli ambienti laici hanno temuto Rûmî e la popolarità dei Mevlevi, visti come potenziale minaccia per il laico della repubblica. Gli ambienti nazionalisti lo consideravano non abbastanza turco, poiché nato in Afghanistan e autore sommo della letteratura in lingua persiana, che era la lingua della classe intellettuale seIgiuchide.

Negli ultimi anni però le cose hanno cominciato a cambiare. La cultura di massa si è appropriata della sua figura per scopi molto terreni. A Konya, ma non solo, al nome di Mevlana vengono associate le più disparate attività commerciali e l’immagine dei dervisci rotanti è poi diventata una presenza immancabile nel materiale pubblicitario con cui la Turchia promuove nel mondo la sua immagine di meta turistica e di terra di pacifica convivenza.

Şimşekler però lamenta come Rûmî e Mevlevi «continuino a essere conosciuti poco e male dalla società turca». Molto occorre fare per salvaguardare il patrimonio culturale dei Mevlevi: «Delle 140 mevlevhane del periodo ottomano, 60 si trovano in territorio turco e, tranne quelle di Konya e Istanbul, sono ormai tutte in rovina. Credo che si dovrebbero restaurare al più presto e trasformarle in centri culturali».

Così, l’iniziativa dell’Unesco di dedicare il 2007 a Mevlana ha avuto il merito di riportare l’attenzione su questa figura così significativa dei mondo musulmano. A Konya, nel mausoleo dove è sepolto, tra il 10 e il 17 dicembre i festeggiamenti raggiungeranno il culmine nel tradizionale Festival di Mevlana. Un appuntamento che coincide con la data della morte di Rûmî, il 17 dicembre 1273. la «notte del matrimonio» in cui il maestro si è ricongiunto a Dio.

 

(da Popoli, dicembre, 2007)

 


IN ITALIA

Mandel, i sufi e San Francesco

di Ornella Rota

Musicista, pittore, incisore, psicanalista, già docente universitario di Storia dell’arte e di Psicologa clinica, autore di circa duecento volumi, Gabriele Mandel è khalyfa, cioè vicario generale della confraternita Jerrahi-Halveti, la più grande realtà sufi in Italia (1.800 aderenti). 83 anni, figlio di un’ebrea e di un musulmano, Mandel è un personaggio di eccezionale cultura. Sue le traduzioni in italiano del Corano (De Agostini, 2005 con l’alto patronato dell’Unesco) e dei sei volumi del poema di Rûmî, Mathnawî (Bompiani 2006). E anche direttore responsabile della rivista di cultura e spiritualità Sufismo (www.rivistasufismo.it).

La traduzione del Mathnawî è l’ultima sua grande realizzazione. «Nei Paesi musulmani questo testo - spiega Mandel - è detto anche il “Corano in versi”: fiabe, novelle e parabole si alternano a scritti sapienziali e saggi consigli, raggiungendo un elevato grado di insegnamento mistico. Essi, infatti, possiedono quelle caratteristiche che contraddistinguono i sufi: rispetto per tutte le religioni e ideologie, per l’essere umano e la natura, amore per Io studio e corretta educazione del sé».

La figura di Rûmî è spesso accostata a quella di Francesco d’Assisi. «Entrambi vissero nel XIII secolo - aggiunge il professore - e furono poeti mistici, fondarono una confraternita: Rûmî i sufi Mevlevi, san Francesco i frati francescani. Solo per pochi mesi mancarono l’occasione di incontrarsi alla corte del Gran Sultano a Damietta. Quando san Francesco vi si recò, adottò il saio con cappuccio dei sufi e, in particolare, il loro rosario, che i sufi avevano ripreso dal rosario buddhista, e che il santo di Assisi portò in Italia».

Una recente pubblicazione nel segno del dialogo interreligioso è il volume dello studioso marocchino Faouzi Skali, Gesù nella tradizione sufi (Paoline 2007), in cui si illustra il significato della figura di Gesù per eminenti maestri sufi, tra cui lo stesso Rûmî. L’Autore, mettendo a confronto Vangelo, Corano e testi mistici dell’islam, evidenzia il ruolo del Maestro-Gesù.

 

Letto 6319 volte
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search