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Domenica, 20 Febbraio 2011 10:41

Ecumenismo protestante. I presupposti del dialogo (Renzo Bertalot)

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L'ecumenismo è stato per tutti, e quindi anche per Roma, una domanda di precisazione sul nostro essere, sulla nostra funzione storica, sul nostro ministero particolare nei confronti dell'altro che si affaccia al nostro orizzonte dogmatico e dottrinale.

Ecumenismo protestante
Capitolo decimo

I presupposti del dialogo

di Renzo Bertalot

 

Dal punto di vista delle strutture si può dire che il dialogo abbia conosciuto tre fasi di sviluppo. La prima fase, detta confessionale, rivela generalmente una concentrazione di interessi sulle posizioni dottrinali tradizionali, concentrazione che intende mettere in risalto la testimonianza di coloro che ci hanno preceduti nella fede. Si potrebbero riconoscere i segni di questa prima fase nell'esigenza di rinnovamento e di aggiornamento dell'attuale cattolicesimo romano. Il pericolo che accompagna questa prima fase è il confessionalismo, cioè la tentazione di arroccarsi sulle proprie posizioni senza possibilità di apertura e di superamento.

La seconda fase di lavoro sarebbe invece quella disposta all'incontro con l'altro riconosciuto come un testimone di Cristo.

V'è infine una terza fase, quella dell'incontro vero e proprio delle diverse confessioni cristiane.

Se questo schema, che si ritrova all'interno dell'esperienza del Movimento Ecumenico delle Chiese, è destinato ad esser valido, e quindi a ripetersi, anche nei confronti del cattolicesimo romano, dobbiamo per ora pensare di trovarci al momento decisivo del trapasso dalla prima alla seconda fase.

Il cattolicesimo ha cercato negli ultimi anni, da papa Giovanni in poi, di essere maggiormente se stesso. Dal punto di vista dello schema indicato, possiamo dire che l'ecumenismo romano è passato attraverso la sua fase confessionale, mettendo in ordine la propria casa, aggiornando il suo linguaggio, evidenziando le linee del suo sviluppo e dimostrando una volontà di ricorrere ai testi biblici molto più marcata di quanto non lo  fosse nello scorcio di tempo che ci separa dal XVI secolo.

L'ecumenismo è stato per tutti, e quindi anche per Roma, una domanda di precisazione sul nostro essere, sulla nostra funzione storica, sul nostro ministero particolare nei confronti dell'altro che si affaccia al nostro orizzonte dogmatico e dottrinale.

Se la prospettiva accennata si mantiene, possiamo attenderci che, alla fine di questo momento confessionale, il cattolicesimo si troverà ad un bivio delicato, cioè di fronte alla tentazione di concludere la sua fase confessionale in un mero confessionalismo e di fronte all'esigenza di un superamento che lo porti alla ricerca e all'incontro. In tale senso oggi è facile notare i segni di questo lavorio e le caratteristiche delle due possibilità.

Il protestantesimo, che ha già vissuto quest'esperienza nel suo ambito, si trova oggi a riviverla un'altra volta nei confronti del cattolicesimo. L'ecumenismo è un po' come la scuola: ogni generazione ripete gli stessi esercizi per arrivare a leggere e a far di conto. Così anche la nostra generazione protestante, che si trova di fronte al cattolicesimo del Vaticano II, registra a sua volta una fase confessionale che ci pone, da un lato, davanti al rischio di cadere nel confessionalismo, e dall'altro davanti all'esigenza di superare le posizioni tradizionali.

Il rischio del confessionalismo costituisce un problema che non ci proponiamo di affrontare in questa sede, nella convinzione che esso non favorisce una comprensione ecumenica dei rapporti interecclesiastici, ma porta ad una chiusura che potrebbe essere anche più aspra di quella che abbiamo conosciuto nei secoli precedenti. Non ci nascondiamo tuttavia il peso che questi orientamenti potranno avere nei discorsi del nostro futuro immediato, e rileviamo la preoccupazione che il lavoro venga bloccato da presupposti ecclesiologici, da strutture di pensiero a carattere monolitico e da punti di riferimento unilaterali. (1)

La questione del metodo

Venendo ora alla seconda possibilità, che considera il superamento delle posizioni tradizionali in vista di una più chiara e rinnovata fedeltà al Signore, sorgono spontaneamente alcuni interrogativi: è tutta una questione di metodo? quali sono i presupposti dogmatici del lavoro ecumenico? (2) La questione di metodo comporta principalmente un'attenzione oculata agli strumenti di lavoro, affinché questi non si confondano inavvertitamente con il contenuto e si trasformino in fini da raggiungere. È pure evidente che, su questo piano, occorre essere filosofi con i filosofi ed educatori con gli educatori. Le comuni strutture di pensiero e le esigenze pedagogiche del nostro tempo fanno assomigliare tra di loro gli uomini impegnati ora in un campo ora nell'altro, ma non per questo il cristianesimo può essere ridotto a filosofia o a pedagogia. V'è quindi una questione di fede e di dottrina che dev'essere risolta in precedenza, affinché le fatiche ecumeniche non si trasformino pelagianamente in praeambula fidei. L'ecumenismo non è una vittoria delle nostre teologie, ma è e rimane una vittoria di Dio. Si tratta di Dio e non di noi. Non è con il mettere insieme i cristiani provenienti dai vari settori della fede in Cristo, che possiamo superare la solitudine del cristianesimo del nostro tempo. Non siamo soli soltanto il giorno in cui il Signore è con noi, il giorno in cui il suo Spirito guida i nostri pensieri e ci precede nella sua vittoria sulla divisione sul peccato e sulla morte. Ora, se il Signore ci visita, è giusto e doveroso che ci consultiamo, che mettiamo insieme il meglio delle nostre energie e che, come buoni amministratori di Colui che deve tornare a chieder dei conti, ci impegniamo a far fruttare i nostri talenti. In seguito a questo incontro dobbiamo pensare alla questione del metodo, sapendo che abbiamo davanti a noi varie possibilità e vari rischi nel costruire sul fondamento posto dal Signore. Un giorno i nostri metodi riveleranno dinanzi al giudice supremo la loro validità o meno, e ci saranno sicuramente delle sorprese, (3) ma il fondamento ritrovato oggi insieme per virtù dello Spirito Santo non sarà smosso.

La decisione ecumenica è innanzi tutto una decisione di fede, e per intelligere il nostro tempo ecumenico dobbiamo appunto credere che si tratti di Dio. La formula di S. Anselmo: credo ut intelligam, dev'essere assunta come guida per ogni discorso inteso a risolvere la questione di metodo e a dare il giusto posto alle nostre fatiche. L'ecumenismo non può essere una via aperta ad un risorgente neopelagianesimo, fatto di nostra buona volontà, anzi, esso si presenta come una liberazione da simili tentazioni all'interno della Chiesa. Non è dunque possibile addentrarsi in un lavoro preliminare per decidere in seguito, in fase conclusiva, se vi dev'essere o meno un dialogo tra cattolici e protestanti. Non è neppure pensabile di farsi in primo luogo un concetto chiaro di quello che l'altro è, con l'intento di stabilire se sia consigliabile o meno l'avvio di relazioni ecumeniche, perché questo significherebbe, fra l'altro, forzare l'interlocutore entro i suoi schemi tradizionali proprio nel momento in cui egli si accinge a rinnovarsi e a guardare non più verso il passato, ma verso il futuro che Dio sta per dargli.

Non è lecito lasciarsi determinare dalla condotta passata e dal peso delle reciproche intolleranze. In tutte queste preoccupazioni, e in quelle per contenuto consimili, v'è un'usurpazione del posto di Colui che vuole creare ogni cosa nuova, una contestazione del perdono di Dio e un rifiutarsi all'azione dello Spirito. Non è soltanto Pelagio che si ripresenta dinanzi alla Chiesa del XX secolo, per chiedere quell'udienza che gli fu negata in precedenza e per cercare ancora di condizionare l'agire di Dio alla nostra verifica, ma v'è anche una grave tentazione di carattere farisaico. Non possiamo trascinare ai piedi di Cristo la Chiesa altrui dicendo: «Signore, essa è colpevole di adulterio, come dimostrano ampiamente la documentazione che abbiamo raccolta e le formule che abbiamo accuratamente appurate, le quali rivelano un travisamento inaccettabile della tua Parola». Questo è stato fatto e si rischia di farlo oggi ancora in fase di confessionalismo, ma l'ecumenismo vero inizia nel momento in cui il Signore ci rimanda con le parole: «Va' e non peccar più» (Giov. 8, 11). Siamo allora chiamati ad organizzare la nostra vita nel perdono, senza cedere alla tentazione di rivolgerci ai nostri debitori affinché paghino presto e completamente il loro debito verso di noi, sotto l'incubo delle nostre minacce o del nostro paternalismo bonario.

In questo contesto si decide la questione del metodo e la nostra funzione di amministratori. Il nostro lavoro ecumenico ha senso come uomini che si guardano in faccia dopo aver ricevuto il perdono e l'ordine di marcia del Signore. Il dialogo è un peccato se non procede da questa convinzione.

La questione dogmatica

Cerchiamo ora di chiarire con alcuni esempi il problema dottrinale di fondo.

È chiaro per la dogmatica protestante del XX secolo che Dio non può essere dimostrato né definito. L'Iddio della Scrittura è un Dio vivente e presente che ci giudica e non sta sotto il giudizio della nostra ragione. (4) Non possiamo pertanto incapsularlo nel limite delle nostre filosofie e delle nostre considerazioni umane. Dinanzi a Colui che è presente siamo, come Giobbe, senza argomenti e senza parole. Ciò non è stato sempre chiaro da noi; infatti le così dette prove dell'esistenza di Dio hanno trovato ampia udienza anche sul terreno riformato. Lentamente tuttavia la filosofia, che nel suo travaglio secolare ha demolito le istanze metafisiche fino ad escluderle dal campo delle sue riflessioni, ha cessato di essere considerata come uno strumento empio, capace di scalzare la fede, ma si è rivelata piuttosto come un potente rinvio alla testimonianza biblica dell'Iddio vivente, che sfugge alla manomissione dell'uomo. Ad occhi protestanti il crollo dell'interesse per la metafisica ha ripetuto in termini secolari il giudizio di Dio sui costruttori delle moderne torri di Babele, e possiamo ben dire che i nostri linguaggi in materia sono stati veramente confusi. Il discorso su Dio come discorso oggettivante sembra aver fatto definitivamente il suo tempo. Dio si può solo confessare, ma se questa confessione non è preceduta, assunta ed instillata nell'essere altrui da Dio stesso, diventa «un rame risonante e uno squillante cembalo» (1Cor. 13, 1). Chi nasce alla fede sa che ciò è dovuto all'intervento di Dio. L'oggettività di Dio e della sua Parola non sono consegnate alla nostra ragione, rimangono un dono valido nella dimensione della fede, per cui chi guarda dall'esterno non avrà difficoltà ad accusare chi crede di essersi fabbricato un idolo o di essere caduto nel più incontrollabile dei soggettivismi: in fondo, due modi di dire la stessa cosa e di squalificare, sul piano filosofico, ogni discorso sulla fede cristiana. Non v'è infatti spazio per l'Iddio che si rivela.

Un secondo esempio ci è proposto dalla discussione teologica sul Cristo storico e sul Cristo della fede, discussione che ha animato il pensiero della Chiesa a cavallo del XX secolo.

Il Cristo storico doveva offrire, attraverso l'accurata indagine storica, il fatto oggettivo o il modello esemplare capace di porsi come unità di misura per le dogmatiche cristiane divise e contrastanti nell'interpretazione del centro della fede. Trovato il dato oggettivo sarebbe stato più facile ridurre al silenzio le interminabili polemiche su ciò che è vero e su ciò che è falso in sede dottrinale. La genuinità del cristianesimo si sarebbe rivelata in tutta la sua chiarezza, richiamando le chiese dalle loro tradizioni contorte e discordanti. L'impresa proposta ha avuto i suoi vantaggi per l'annesso appello alla coerenza e alla purificazione delle forme di pensiero.

Il Cristo della fede invece veniva facilmente svalutato, quale costruzione della pietà cristiana, e gli si riconosceva, nel migliore dei casi, un valore sul piano della conoscenza come portata ed esplicitazione del fatto ontologico, del dato. Ma nell'epoca decisamente influenzata dalle tesi di Feuerbach sull'essenza del cristianesimo, anche questa posizione cedeva il passo al dubbio di dover constatarvi una millenaria oggettivazione delle nostre umane ispirazioni. Fu Albert Schweitzer a rendere attento il protestantesimo circa l'impossibilità di operare una simile distinzione senza perdere l'essenza della predicazione apostolica. (5)

È un fatto che la storiografia del XX secolo era essenzialmente preoccupata di stabilire dei dati oggettivi e verificabili, (6) e perciò si limitava a porre il problema del vero e del falso senza interrogarsi sul significato, si riteneva soddisfatta nel copiare un documento senza soffermarsi sulle sue motivazioni, sulla sua problematica, e senza giungere a delle conclusioni proprie. (7) Si era cercato il dato ed il dato era sfuggito. Si voleva una parola attuale, liberatrice da tante sovrastrutture, e questa parola nuova ed attuale non si era trovata. Il Signore non era a disposizione dell'uomo. Non aveva abdicato, ma continuava a rimanere al governo della Chiesa e della storia. La Chiesa del tempo ha così rischiato di essere simile a quelle folle che si precipitavano intorno a Gesù per chiedergli dei segni visibili, mentre Egli si eclissava, isolandosi dal mondo, per pregare. (8)

La storiografia del XX secolo apriva un nuovo discorso. Da un lato Benedetto Croce, sulla traccia di Vico e di Hegel, faceva della storia la scienza dei giudizi, riducendo ogni attimo storico a sintesi di un processo circolare di dati e significati, di fatti e di interpretazioni. R. G. Collingwood riprendeva queste indicazioni in un contesto anglosassone, facendo della conoscenza storica «la riattuazione delle esperienze del passato nella mente del pensatore del presente». (9) L'interpretazione non veniva più relegata in un secondo piano, come nelle indicazioni del secolo precedente, ma veniva a trovarsi in sintesi attuale con la documentazione offertaci da situazioni passate.

L'esistenzialismo dal canto suo riesaminava il valore storico del rapporto oggetto-soggetto mantenendo tra i due uno stretto ed indispensabile legame. Sulla linea di Heidegger, J. M. Robinson parla di un'interpretazione dell'analisi oggettiva in termini esistenziali. (10)

Altre correnti recenti, non lontane forse dalla filosofia dei valori di Guglielmo Dilthey e del relativo concetto di «Erlebnis», ripropongono un ritorno alla storia senza limitarne le potenzialità. (11)

Questi ripensamenti del XX secolo ci proibiscono di scindere il dato dalla sua interpretazione. Vi è un'interpenetrazione tra forma e sostanza - nota Paul Tillich - che non possiamo trascurare e che dobbiamo necessariamente tenere presente, quando sul piano teologico parliamo di verità e di interpretazione della verità.

Ancora sul piano teologico è R. Bultmann a ricordare ai protestanti, eredi della Riforma e della giustificazione per fede, che rischiamo di rinnegare la nostra eredità quando esigiamo delle prove e dei dati storici per credere. (12)

Ora questi discorsi sembrano essere più congeniali alla sensibilità riformata perché, sul piano della fede, sappiamo che bisogna far posto innanzi tutto al miracolo di Dio di cui abbiamo parlato prima. Ad occhi protestanti la crisi del rapporto oggetto-soggetto nella storiografia del XX secolo ci richiamerebbe, inconsapevolmente, a questa condizione essenziale della trasmissione della fede. Insomma, è Dio che ci impedisce di oggettivare e di soggettivare. Bisogna rifiutare l'una e l'altra tentazione, perché il Cristo rimane il Signore dell'oggetto e del soggetto della fede. (13) L'impossibilità di dimostrare Dio e di definirlo fa riscontro con l'impossibilità di ridurre il Cristo ad un dato o ad un mero significato. Si ha l'impressione che, non rendendosi conto di queste impossibilità, si contesti il miracolo della rivelazione e della testimonianza. È nel miracolo che l'uomo si scopre conosciuto da Dio e lo conosce. Dio diventa, per sua propria iniziativa, l'oggetto e il dato della fede per le creature. Così ancora chi attraverso la predicazione cristiana si trova confrontato da Dio, sa che non è a motivo di una comunicazione da uomo a uomo, ma che Dio si è interposto tra l'oratore e l'uditore con il miracolo del suo Spirito.

Un terzo esempio ci permette di confermare, una volta ancora, queste osservazioni. È noto che il principio scritturale della Riforma, il sola scriptura, ha avuto delle ripercussioni impensate nel biblicismo e nel fondamentalismo che hanno travagliato la teologia protestante dei secoli scorsi e che ancora animano buona parte del mondo settario.

Nella convinzione che la dogmatica, la storia e la filologia introducessero degli elementi estranei nella lettura biblica, si era ricorso al suggerimento di scavalcare decisamente i secoli che ci separano dalla testimonianza biblica, nel desiderio di eliminare così gli ostacoli derivanti dai pregiudizi e dalle tradizioni ecclesiastiche. Anche in questo caso quello che si voleva riscoprire era il dato, il dato da contrapporre alle sovrastrutture del cristianesimo. In realtà i risultati conseguiti hanno generato nuovi assolutismi altrettanto rigidi quanto quelli confessionali. Il vizio di base consisteva nella ingenua pretesa di poter affrontare la Bibbia con strumenti sterilizzati, esenti da condizionamenti ecclesiastici. (14) La reazione liberale cadeva facilmente nell'altro eccesso e dava l'impressione di facili ed affrettate identificazioni della coscienza con la voce di Dio. Siamo in pieno soggettivismo. Il dilemma oggettivismo-soggettivismo non poteva essere risolto perché l'uomo si riteneva autorizzato a disporre delle cose di Dio, eliminando, di volta in volta, il miracolo che crea la fede e che ne governa la trasmissione.

Nel presente discorso ecumenico questi esempi rivelano l'attualità della discordia sul dato e ci fanno assistere a degli scontri di assolutismi i quali lasciano il lavoro degli esperti in vicoli ciechi e scandalizzano i deboli nella fede. Si squalifica inoltre il problema interpretativo come problema di sovrastrutture e di particolarismi che invitano alla superficialità e al compromesso. In fondo la formula liberatrice di papa Giovanni, che distingue tra deposito della fede e modo di enunciarla, tra verità e formulazione della verità, formula così ricca di assonanze con le esigenze della teologia riformata e con la distinzione paolina tra l'Evangelo, potenza di Dio, e il vaso di terra che lo  contiene, rischia fortemente di contaminarsi dei fermenti della discussione sui rapporti tra oggetto e soggetto, tra dato e significato. Essa non intende e deve farci dimenticare la questione dogmatica che stiamo esaminando: il miracolo di Dio che fa progredire la sua Parola da fede a fede. V'è da un lato la tentazione di cedere ad inclinazioni oggettivanti, fondamentalistiche e verbalistiche, e dall'altro la tentazione di lasciare briglia sciolta ai suggerimenti soggettivistici, spiritualistici ed immanentistici. In un caso come nell'altro potremmo rivelarci molto religiosi agli occhi della nostra generazione, ma l'assenza del miracolo di Dio finirebbe per scandalizzarla. La nostra fatica apparirebbe come un intelligere in vista di un credere, come un lavoro preliminare della fede, come un'indagine in vista di una scelta. Non ci è lecito di offrire il diritto di cittadinanza e di ascolto alle nuove insinuazioni del pelagianesimo. Oggi, dal punto di vista della fede, sembra proprio che sia la storiografia della nostra epoca a ricordarci la precarietà del rapporto oggetto-soggetto, del dato e del significato, a ricordarci indirettamente che vi è una sola via, quella indicata da S. Anselmo con la sua formula: credo ut intelligam.

Non dobbiamo pensare che le fatiche del dialogo ecumenico ci portino domani ad un credere ecumenico, all'unità della Chiesa. Il dialogo in questo caso, anziché un raccogliere per il Signore, sarebbe un disperdere ed anche un perdere tempo. Noi ci troviamo insieme, confessando la nostra fede nel Signore Gesù Cristo che ha voluto l'unità della sua Chiesa e che oggi ci muove gli uni verso gli altri secondo la sua volontà e la sua unità. Il credere è di oggi e l'intelligere forse del domani. La nostra fede non è innanzi tutto fiducia degli uni verso gli altri, ma fiducia di tutti in Dio. Il Signore compie oggi ancora il miracolo della trasmissione della fede, permettendoci di passare dalla nostra fedeltà precedente ad una fedeltà più ampia che non ci separi più dal fratello. Perciò sentiamo l'esigenza di intelligere quanto accade nella nostra epoca e di partecipare con tutte le nostre forze a questa vittoria di Dio sulle nostre separazioni. Ci scopriamo in contraddizione con il volere del Signore, per quanto è accaduto e accade con le nostre divisioni. La divisione che in altri tempi era dovuta a ragioni di fedeltà diventa ora ragione di peccato, non nei confronti del nostro passato, delle nostre decisioni di ieri, motivate sempre dalla fedeltà, ma nei confronti della volontà di Dio per la nostra epoca, volontà che confessiamo insieme e all'attuazione della quale vogliamo dedicarci.

La questione dogmatica del dialogo ecumenico si chiude quindi come un appello alla conversione di tutto l'essere nostro come individui e come chiese.

La conversione della Chiesa

Consideriamo una delle definizioni classiche di conversione dei nostri vocabolari biblici: «Convertirsi significa, dopo aver riconosciuto i propri errori, impegnarsi mediante l'azione di tutto l’essere in una nuova situazione giusta». (15) E la definizione non intende esaurire la dottrina, ma solo indicarla. Occorrerebbe infatti subito rilevare che ci interessa andare oltre la portata individuale di questo vocabolo. Certo si tratta dell’individuo, ma non possiamo dimenticare che gli appelli di Dio sono rivolti ugualmente a tutto il popolo. Se dobbiamo oggi riconoscere nell'ecumenismo un appello di Dio a tutti i cristiani, esso giunge a noi come un appello al ravvedimento. È tutto il popolo di Dio che deve convertirsi ed impegnarsi in una situazione nuova. Anche nel decreto De oecumenismo leggiamo una simile indicazione: «Non c'è ecumenismo autentico senza conversione interiore». (16) Dobbiamo pensare anche alla portata collettiva di quest'affermazione, senza la quale la riforma, il rinnovamento della Chiesa ed anche il suo aggiornamento finirebbero con il perdere interesse e con il lasciare in sospeso il dubbio di un mancato approfondimento dei problemi sostanziali.

Ma se la Chiesa può parlare della necessità della conversione in rapporto all'ecumenismo, non è perché essa sia stata mossa a compiere questo passo dalla considerazione del suo passato e delle sue mancanze. Ciò non ha la possibilità di spingerci a compiere un passo nella direzione giusta. In altre parole, non è guardando al nostro passato e alle nostre divisioni che troviamo la forza di avventurarci in un cammino nuovo. Dio rimane sempre all'inizio dell'esigenza di conversione. Non siamo noi a decidere lanciandoci appelli attraverso i confini dei nostri settori ecclesiastici, ma è Dio che esige il ravvedimento di tutti i settori. Il passo è richiesto a tutti e ad ognuno dalla misericordia unificante di Dio. La ragione profonda dell'ecumenismo è la grazia. Essa è la ragione per cui stiamo scoprendo il nostro peccato come ciò che contraddice la volontà del Signore per il nostro tempo. Crediamo, perciò comprendiamo.

Non sarebbe errato parlare di una rivoluzione copernicana in atto. Se infatti siamo stati abituati a considerare il nostro mondo ecclesiastico come unità di misura e di giudizio della fede cristiana dell'altro, se abbiamo considerato gli altri più o meno lontani dal nostro centro gravitazionale, oggi è giunto il momento di accorgerci che costituiamo invece un sistema planetario gravitante intorno al Cristo, Signore di tutti noi. Questa rivoluzione de la misura e il senso dell'ordine dell'attuale discorso ecumenico. La teologia passa dal confessionalismo a marcate componenti ecclesiologiche, all'ecumenismo con chiare impostazioni cristologiche. Fuori da questo centro gravitazionale che è il Cristo, la nostra personalità ecclesiastica si sfalda e diventa inconsistente in relazione alla grazia che ci è rivolta qui ed ora. Cristo è il nostro principio integratore, senza il quale non possiamo che coltivare un triste senso di disordine e di disperazione. La nostra riconoscenza a Dio, che ci con cede il privilegio di partecipare alla novità del suo agire, ci vuole impegnati nel dare un ordine alla nostra vita ecclesiastica intorno al centro di gravitazione del mondo creato: il Cristo.

Il sincretismo invece non ha un centro gravitazionale, quindi non comporta conversione ma coesistenza. Esso è animato da preoccupazioni ireniche, non ecumeniche. Ciononostante, per ragioni di linguaggio, si rischia oggi, come al sorgere del cristianesimo, di essere ridotti dai critici al livello sincretistico. Questo rischio bisogna correrlo con fiducia, se non addirittura con senso di sfida. Si fa presto a ridurre un movimento entro schemi prefissati e si fa altrettanto presto ad etichettare gli uomini, ma le motivazioni profonde non si prestano, ora più che nel passato, a simili riduzioni. Fare del sincretismo significa - per adoperare un'immagine biblica ripresa da Visser't Hooft - porre l'Evangelo in otri vecchi, e quindi perdere l'uno e gli altri. Ma evidentemente non si tratta di questo. Si tratta invece di porre il lievito nella pasta affinché esso la faccia fermentare. (17) Un esempio classico, probabilmente il più discusso, è il vocabolo integrazione.

Vi è una portata di questo termine che non rientra nella prospettiva tracciata fin qui. Quando per esempio esso diventa sinonimo di fagocitazione, di assorbimento, ci riporta con il suo significato ad una prospettiva prerivoluzione copernicana non bisognosa di conversione. Non siamo lontani da un nuovo tatticismo missionario e proselitistico che viene a proporsi dopo il fallimento della fase polemica e della fase apologetica. Giovanni Miegge aveva lamentato, dal seno del protestantesimo italiano, orientamenti simili, particolarmente accentuati nel cattolicesimo preconciliare. (18) Il protestantesimo stesso ne è affetto, come hanno rilevato Oscar Cullmann e Karl Barth. Questa malattia del cristianesimo è nota sotto il nome di integrismo. Essa non è originale, o comunque caratteristica degli ambienti cristiani, ma la si ritrova ampiamente nel mondo politico di destra e di sinistra. (19) Si può azzardare l’affermazione che l'integrismo è la malattia mortale della nostra epoca e che esso costituisce il pericolo più grave di tutte le forze vive del nostro tempo. È l’integrismo che rivela, nelle forze rivoluzionarie stesse, una pesante componente conservatrice, una forma cancerosa della loro salute intellettuale. Non si può continuare ad offrire se stessi come unità di misura della storia e del pensiero, senza alimentare lo  sfruttamento dell’altro e, con lo  sfruttamento, la dittatura, il colonialismo e l'imperialismo. Per adoperare termini cari alle correnti di sinistra, si potrebbe ancora dire che l'epoca «tolemaica» e «monolitica» è esaurita e bisogna ora prendere atto dell’era «galileiana» e «pluralistica». (20) L'integrismo minaccia nel nostro tempo il cristianesimo come il sincretismo lo minacciava nei primi secoli della sua esistenza. Un Evangelo che si lascia integrare è un Evangelo che si lascia conservare in otri vecchi. L’ecumenismo non ha nulla a che vedere con queste prospettive e non può nemmeno considerarle come una sua caricatura.

V'è un'integrazione che rende invece giustizia alla problematica evangelica. (21) Bisogna rifarsi all'immagine dell'unico corpo e delle molte membra (1Cor. 12). Nella recente storia del Movimento Ecumenico è valso l'uso di ampliare la portata di quest'immagine biblica dal suo evidente significato comunitario locale al tema stesso delle nostre divisioni e della nostra unità. Cristo è il Capo della Chiesa e i singoli settori del cristianesimo ne rappresentano le membra sparse. Non è più contraddittorio quindi parlare di unità e di diversità, poiché nello stesso ed unico corpo vi sono delle funzioni diverse, nel nostro caso delle vocazioni e dei ministeri diversi svolti dalle varie chiese. Se è valido far nostro in questo modo il messaggio dell'apostolo Paolo, sorgono allora due indicazioni preziose per il presente rinnovamento ecumenico: 1 - l'esigenza di chiarire e valutare la propria vocazione confessionale; 2  l'esigenza di compiere il nostro ministero confessionale e particolare in funzione di tutto il corpo di Cristo. Non vi può essere integrismo perché «se tutto il corpo fosse occhio dove sarebbe l'udito?» (1Cor. 12, 17). Non v'è posto per la divisione, perché «se il piede dicesse: Siccome io non son mano non sono del corpo, non per questo non sarebbe del corpo» (1Cor. 12, 14). Naturalmente queste indicazioni bibliche diventano per noi un compito ed una missione, se non le accogliamo come una formula da applicare alla nostra situazione, formula che ci dispenserebbe dalla conversione e ci impegnerebbe veramente sul piano del filosofare religioso. Allora, senza accorgercene, potremmo cedere alla tentazione di dare precedenza all'intelligere sul credere.

Affinché ogni discorso sia chiaro ecumenicamente è doveroso - lo ripetiamo con insistenza - confessare insieme la propria fede, dire cioè se il Signore vuole o meno che noi riceviamo, come rivolte ai nostri settori confessionali, le parole dell'apostolo Paolo: «Or voi siete il corpo di Cristo e membra d'esso, ciascuno per parte sua» (1Cor. 12, 27). Sul fondamento di una simile confessione di fede, possiamo avviarci nel processo dell'intelligere e valutare in tutta la loro portata quelle formule o immagini bibliche, che ci permettono di sviscerare le implicazioni del rinnovamento della nostra mente in Cristo.

Un tempo ci si chiedeva se gli altri - i cattolici erano da considerare come gli ateniesi o i galati del Nuovo Testamento. Da Amsterdam si parla più correttamente di corinzi. Fu infatti la comunità di Corinto a conoscere delle serie divisioni all'interno della predicazione cristiana. La nostra divisione è all'interno della fede cristiana e non in un'arca sincretistica in cui si venerano vari dei. Paolo parla di integrazione nell'unico corpo dei quattro gruppi che si erano formati nella comunità di Corinto. Le scelte dei gruppi erano integriste, escludevano l'altro, cioè il fratello. L'apostolo ricorda loro che ciascuno è membro del corpo di Cristo per parte sua.

È un discorso attualissimo. In altre parole potremmo dire che fino ad oggi non abbiamo tenuto conto dell'altro nella nostra fede e nella nostra teologia. Oggi Dio ci chiede conto del fratello: «Dov'è tuo fratello?». L'epoca integrista si chiude con queste antiche parole sulla nostra bocca: «Non lo so; sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gen. 4, 9).

Una prospettiva di questo genere ci permetterà non solo di affrontare i problemi all'interno delle nostre mura ecclesiastiche, ma ancora di comprendere in modo radicalmente nuovo il travaglio economico e politico della nostra epoca e di avventurarci nelle grandi decisioni da prendere con senso vivo di responsabilità cristiana. Fino al nostro secolo le esigenze di rinnovamento e di unità si sono escluse a vicenda e contrapposte. Rinnovarsi significava tagliarsi fuori dal resto. Mantenere l'unità significava mantenere le cose come sono. L'ecumenismo ha rovesciato questa prospettiva perché l'unità è nel rinnovamento e il rinnovamento è espressione di unità. Sino a ieri essere fedeli significava dividersi, oggi siamo giunti ad una comprensione più ampia della fedeltà, che non ci priva più del fratello ma ce lo restituisce. È una fedeltà che fa posto all'altro, al suo essere in Cristo, al suo poter essere e al suo divenire. Oggi come sempre ci troviamo davanti a delle scelte, ma mentre nella fase pre-ecumenica la scelta toglieva lo spazio all'altro ed era quindi di natura polemica, apologetica, dittatoriale, colonialista ed imperialista, oggi, nella fase ecumenica, è giunta la fine degli sbriciolamenti e si deve contestare ogni scelta incapace di apertura e di far spazio a chi dissente da noi. È finito il manicheismo - l'eterno conflitto tra il bene da un lato e il male dall'altro. Non v 'è più aut aut perché l'uomo è simul peccator ac justus.

Il peccato non è degli altri se non è il mio, come la giustizia non è degli altri se non è mia, e ciò nonostante tutte le apparenze. È la fine dell'integrismo e l'era dell'integrazione.

L'esigenza della libertà, mal rappresentata dall'occidente, e l'esigenza della giustizia. mal rappresentata dall'oriente, sono profondamente malate della malattia integrista che abbiamo rilevato. Affinché la libertà non sia una libertà di nuocere o di morir di fame, bisogna che essa sia intesa in funzione della giustizia, con tutto ciò che tal integrazione comporta. Così la giustizia, se non vuol diventare occasione di oppressione per l'uomo, dev'essere intesa in funzione della libertà. Giustizia e libertà non sono divise in Dio. Noi dobbiamo contestare la loro attuale separazione come l'opera deleteria di colui che divide: il Diavolo. In questo senso gli spiriti più aperti dei diversi schieramenti politici lottano per una visione pluralistica della realtà sociale che rifiuti le impostazioni «tolemaiche» del passato. In ogni caso cade l'istintivo suggerimento di proporre se stessi come unità di misura, e ci si pone seriamente ai lavoro preoccupati di svolgere bene il proprio compito in funzione dell'uomo. Una visione ecumenica di questo genere si riflette sul piano sociale in una prospettiva di pace nella giustizia per tutta l'umanità. (22)

Gli strumenti di lavoro

È necessario conoscere attentamente gli strumenti di lavoro per evitare di lasciarsi prendere la guida e di venire così a trovarsi sotto padrone. Non è pensabile che ci si debba orientare per un unico strumento. Anzi è auspicabile che il lavoro proceda da direzioni diverse per ridurre le eventuali deformazioni dell'unilateralità. È tuttavia evidente che, parlando di strumenti di lavoro, ci troviamo ora a discutere sul piano dell’intelligere, della ragione e della filosofia. Siamo coscienti cioè di essere investiti dell’incarico di amministratori delle cose di Dio, e sorge quindi imperiosa la necessità di costruire, nel miglior modo possibile, secondo le nostre capacità, sul fondamento che il Signore ha dato alla nostra azione. Un giorno dovremo render conto del lavoro svolto, del tempo perso, delle scelte sbagliate e dei risultati mancati. Nello svolgersi del giudizio di Dio ci sarà dato di constatare l'incongruenza di molte nostre azioni, ma fin d'ora sappiamo che il fondamento posto da Dio stesso, dal quale solo dipende la nostra salvezza, non sarà smosso (1Cor. 3). È in gioco la nostra riconoscenza al Signore, la consapevolezza di quanto ci è stato dato in Cristo.

In questa prospettiva bisogna cercare gli strumenti validi del lavoro ecumenico. Occorre imparare la tecnica che ci permetterà di progredire. L'umanità ha perfezionato degli strumenti che si rivelano utili anche nel nostro campo. In molti casi bisognerà fare un po’ di apprendistato prima di avviarci nelle nostre imprese. Ad esempio, nel corso della storia del cristianesimo non si è esitato a ricorrere alla filosofia, e buona parte del nostro linguaggio teologico si è lasciata plasmare dalle correnti di pensiero ritenute più idonee. Non bisogna dimenticarlo nella necessaria revisione del linguaggio teologico. Infatti la stessa parola, adoperata in settori confessionali diversi, assume dei significati contraddittori che vanno ricontrollati ed appurati. Il linguaggio adoperato in tema di sacramenti, in modo particolare in rapporto all'eucaristia, è così offuscato da correnti filosofiche da rendere difficile ogni tentativo di districare le questioni fondamentali. (23)

Non si tratta soltanto di linguaggio filosofico. Se è vero che l'ecumenismo comporta un problema educativo che dobbiamo imparare a studiare insieme, potremo felicemente servirci degli strumenti della pedagogia contemporanea per affrontare in prospettive nuove e con linguaggio fresco tutta la problematica dell'incontro dei cristiani fra di loro. La pedagogia è una voce nuova. Essa ci pone di fronte a temi ricorrenti anche nelle nostre riflessioni teologiche.

Ho letto ultimamente con molto interesse «L'educazione alla Socialità» di Giovanni G. M. Bertin, ordinario di Pedagogia all'Università di Bologna. Le pagine che egli dedica alla comprensione dell'altro, alla disponibilità e all'impegno, sono di un'ampiezza tale da offrire preziosi suggerimenti alla tematica ecumenica. (24)

Cooperare non è sufficiente per vincere la solitudine dell'uomo moderno. (25) Occorre invece essere disponibili, cioè: evitare di annullare la personalità dell'altro e di annullare la propria per l'altro; mantenere un certo distacco, purché esso sia sempre accompagnato dalla simpatia, dalla benevolenza e dall'interesse, (23) e infine impegnarsi, al di là dell'indifferenza, nell'ottimismo, nella cortesia e nella gioia della diversità. (27) La simpatia infatti ci trasferisce nel mondo altrui. (28) La benevolenza esige che si faccia credito alle possibilità dell'altro e che se ne facciano valere gli aspetti positivi. (29) La malevolenza, al contrario, non permette di considerare l'uomo per quello che potrebbe essere, ma si limita al piacere di metterne in rilievo i lati peggiori. (30) La disponibilità così intesa ci libera dall'egocentrismo dittatore o rinunciatario, dall'amore oblativo o captativo, mettendoci in condizione di ascolto e di apertura. (31) Per evitare poi di cadere nella contemplazione dell'altro bisogna sapersi impegnare, perché non v'è comprensione vera senza impegno. (32) La conoscenza e l'azione proseguono di pari passo, correggendosi a vicenda e liberando l'interesse che noi possiamo avere per l'altro dal piacevole, dal bisogno e dal vizio, richiedendoci così uno sforzo continuo ed una continua scelta tra interessi veri e pseudointeressi. (33) Il vero interesse per l'altro ci libera dall'egocentrismo, dall'unilateralità, dalle polemiche e dal proselitismo.

Ora tutte queste osservazioni, che ci giungono da un settore non preoccupato, innanzi tutto, di relazioni ecumeniche, ci portano a rivalutare quegli atteggiamenti etici necessari al dialogo i quali, nel contesto delle tendenze integriste, potevano facilmente essere qualificati come diplomazia e tatticismo. Non bisogna temere di servirsi di un certo vocabolario nel quale ricorrono frequentemente i termini di ottimismo, benevolenza, cordialità e simpatia. Non bisogna aver paura quando la motivazione è chiara. La pedagogia di G. M. Bertin è un contributo notevole a questa chiarificazione. Dal punto di vista del nostro lavoro non possiamo che essergliene riconoscenti.

Oggi siamo chiamati a confessare l'unità della Chiesa come miracolo che Dio sta compiendo nel XX secolo. Questa confessione è il fondamento di ogni lavoro ecumenico. Se invece si persiste nel voler rovesciare i termini, dando precedenza all'intelligere dell'uomo in vista della fede, finiremo per contrapporre gli assolutismi degli uni a quelli degli altri senza possibilità di soluzione valida. Nell'affermare che la fede precede l'intelletto: credo ut intelligam, confessiamo altresì di essere posti da Dio di fronte all'esigenza della conversione non solo degli individui, ma anche delle chiese. È così che il Cristo si integra nel suo Corpo. Nella riconoscenza e nella gioia per questo atto di Dio nel nostro tempo, ci dobbiamo mettere al lavoro per vivere completamente la nostra fede e il nostro impegno sapendo che «tutto quello che non viene da convinzione è peccato» (Rom. 14, 23).

Note

* Questo studio appare sulla rivista «Humanitas», n. 1-2/1968.

1) R. BERTALOT, La necessità..., cit., pp. 21ss.

2) R. BERTALOT, L'etica del dialogo, «Protestantesimo», 1/'66.

3) Mat., 23, 37 s.

4) K. BARTH, Esquisse d'une Dogmatique, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel, 1950, p. 34.

5) J. M. ROBINSON, A New Quest of the Historical Jesus, S.C.M., Londra 1959.

6) Ibidem, p. 90.

7) R. G. COLLINGWOOD, The Idea of History, A Galaxy Book, New York 1956, p. 260.

8) Mc., 1, 35.

9) R. G. COLLINGWOOG, op. cit,, p. 326.

10) J. M. ROBINSON, op. cit., p. 96.

11) D. P. FULLER, A New German Theological Movement, «Scottish Journal of Theology», 2/'66, pp. 160 ss.

12) R. BULTMANN, L'interprétation du Nouveau Testament, Aubier, Parigi, s. d., pp. 217 s.

13) R. PRENTER, Connaître..., cit., p. 82, ci ricorda che l'origine della fede è nella vita storica del Cristo, nel Wass non nel Dass come vorrebbe R. Bultmann (P. 130); ma «il realmente reale non può essere raggiunto con garanzie logiche e metodologiche», P. TILLICH, The Protestant Era, cit., p. 275.

14) K. BARTH, Dogmatique J, 2, + + +, pp. 35 ss.

15) Vocabulaire Biblique, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel 1954, voce: Repentance.

16) Decreto «De Oecumenismo», par. 7.

17) W. A. VISEER'T HOOFT, No other Name, cit., p. 68.

18) G. MIEGGE, Tre anni di Storia Valdese, «Protestantesimo », 1/'60, p. 28.

19) Cfr. «Il Gallo», Genova, giugno 1965, pp. 6 ss.; «Rinascita», maggio 1965.

20) A. V., Il dialogo alla prova, Vallecchi, Firenze 1964.

21) Cfr. Ugo Janni: cap. II.

22) Vedi cap. prec.

23) R. BERTALOT, Accordo con la dottrina evangelica della Santa Cena, art. cit., p. 77.

24) G. M. BERTIN, Educazione alla Socialità, cit., p. 263.

25) Ibidem, p. 261.

26) Ibidem, p. 262.

27) Ibidem, pp. 97 ss.

28) Ibidem, p. 85.

29) Ibidem, pp. 84 e 112.

30) Ibidem, p. 262.

31) Ibidem, p. 73 ss.

32) Ibidem, p. 262.

33) Ibidem, p. 36 ss.

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Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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