I passi del Messia
Per una teologia cristiana
della «messianicità» di Gesù
di Carmine Di Sante *
Alcune premesse
La prima premessa riguarda il titolo del Colloquio 2007, che s'ispira alla celebre e straordinaria leggenda ebraica - alla quale spesso ci si riferisce, come pure in questi giorni lo si è fatto spesso - narrata dal filosofo e scrittore ebreo Martin Buber (1878-1965): «Quand' ero bambino lessi questa vecchia leggenda ebraica: "Dinanzi alle porte di Roma sta seduto un mendicante lebbroso e aspetta. È il messia!". Mi recai da un vecchio e gli chiesi: "Che cosa aspetta?". E il vecchio mi dette una risposta che capii solo molto più tardi: "Aspetta te''»1
La seconda premessa riguarda i temi trattati nel Colloquio, dedicati alla giustizia, alla responsabilità e alla memoria che personalmente collego in questo modo: se il messia è ciascuno di noi, ciò che il messia attende da ciascuno di noi è, da una parte, la giustizia e la responsabilità, e dall' altra la custodia della memoria, poiché un mondo diverso lo si può solo costruire non rimuovendo il passato ma ponendosi in ascolto del gemito delle vittime che sale dalle sue macerie dove, interrotto il meccanismo del capro espiatorio, non ci siano più vittime ma solo uomini e donne responsabili reciprocamente gli uni degli altri.
La terza premessa riguarda il titolo di questa sezione:I passi del Messia. Mi sono interrogato a lungo su questa formulazione e mi sono dato la seguente interpretazione: se ognuno di noi è messia, se ogni uomo e ogni donna è messia, quali sono «i passi», cioè le orme o tracce dalle quali riconoscerlo? Fuori metafora: quali sono i segni di distinzione e di riconoscimento per cui è possibile dire: qui egli è passato, qui è possibile riconoscerlo, qui il mondo è stato liberato e sanato, cioè «messianizzato»?
Questa interpretazione introduce ed esige però un'ultima premessa che riguarda la tradizione cristiana per la quale, se è vero che ognuno di noi è messia, lo è in quanto seguace o imitatore di Gesù di Nazaret - Jeshua' di Nazaret - che alcuni dei suoi discepoli, ebrei come lui, lo hanno ritenuto e proclamato messia. Per cui, per un cristiano, i passi del messia sono i passi di Gesù e i passi dei suoi seguaci in tanto possono essere messianici in quanto imitano e non tradiscono i passi del proprio maestro e signore. Come è noto, la storia dolorosa dell'antigiudaismo cristiano sta a testimoniare di questo tradimento e - cosa ancora più tragica - tradimento che si è voluto nel nome stesso di Gesù messia che, secondo il plurisecolare insegnamento del disprezzo, il popolo d'Israele avrebbe rifiutato e condannato a morte, meritando per questo la maledizione divina, la reiezione e la dispersione. Sappiamo che il VaticanoII ha interrotto questa lettura perversa di Israele da parte cristiana e il cammino percorso negli ultimi quarant'anni ha cambiato profondamente la mente, il cuore e il linguaggio delle Chiese. Parlando dei passi del messia, non si può però dimenticare questo passato di rifiuto, di odio e di disprezzo ed è alla luce di questa memoria, da non rimuovere ma da custodire, che si articolerà una proposta in tre momenti riflessivi:
i passi di Jeshua'
i passi di Jeshua' messia
i passi dei seguaci di Jeshua' messia
I passi di Jeshuà
In un suo piccolo ma straordinario libro, L’homme qui marche del 1995, Christian Bobin, uno scrittore francese nato in Borgogna nel 1951, presenta Gesù come «colui che cammina» (da cui il titolo del libro ):
«Cammina. Senza sosta cammina. Va qui e poi là. Trascorre la sua vita su circa sessanta chilometri di lunghezza. E cammina. Senza sosta.
Si direbbe che il lavoro gli è vietato […] È ebreo da parte di madre ebreo da parte di padre, eternamente ebreo per quel suo modo di andare ovunque senza trovare da nessuna parte un rifugio, meravigliosamente ebreo per quel suo amore infantile per gli indovinelli - come l'uccello che con il canto pone interrogativi e per tutta risposta riceve una pietra e canta ancora, anche morto canta, ancora, ancora, ancora anche molto tempo dopo che la pietra che l'ha ucciso è tornata friabile, polvere, meno che polvere, silenzio, meno che silenzio, nulla. sempre permane questa vibrazione del canto puro nel nulla manifesto del mondo»2
I vangeli, soprattutto quelli sinottici, sono concordi nel rispondere che il luogo verso il quale Jeshua' si volge e si rivolge sono i luoghi del patire umano. Il primo evangelista dopo aver raccontato la chiamata da parte di Jeshua' dei primi quattro discepoli, annota:
«Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo. La sua fama si sparse per tutta Siria e cosi condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie dolori, indemoniati, epilettici e paralitici; ed egli li guariva. E grandi folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla Decàpoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano» (Mt4,23-25).
Marco, dopo aver narrato la guarigione della suocera di Pietro, osserva:
«Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demòni;ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano» (Mc 1,32-34).
E, quasi con le stesse parole, osserva anche Luca
“Al calar del sole tutti quelli che avevano infermi colpiti da mali di ogni genere li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. Da molti uscivano demòni gridando: "Tu sei il Figlio di Dio!". Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era il Cristo» (Le 4,40-41).
I passi di Gesù si dirigono là dove l'uomo soffre e si dirigono verso quella sofferenza per compatirla e consolarla. Nel racconto esodico, il racconto fondatore di Israele, Dio si rivela come Dio sensibile al dolore umano che, intollerabile ai suoi occhi, lo sollecita a scendere dal cielo sulla terra:
«Nel lungo corso di quegli anni, il re d'Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero» (Es 2,23-25).
Il Dio d'Israele è il Dio la cui deitas è la misericordia, il suo farsi presente, per libera scelta, al gemito dell'uomo e prendersene cura per consolarlo ed eliminarlo. Il Dio d'Israele è un Dio il cui tratto dominante è, secondo il linguaggio di A.J. Heschel, il pathos: definito «come un ponte gettato sull'abisso che separa l'uomo da Dio»3 e da lui ritenuto come l'essenza stessa della rivelazione biblica, che non consiste nello svelamento di verità astratte, ma nell'agire divino come un agire di compassione:
«La rivelazione non significa che Dio si fa conoscere, ma che fa conoscere la sua volontà; non la rivelazione del proprio essere da parte di Dio, la sua manifestazione, ma la rivelazione della volontà e del pathos divini, dei modi con i quali egli si rapporta all'uomo. L'uomo conosce la parola della rivelazione ma non l'autorivelazione divina»4.
Per i vangeli nell'ebreo Gesù di Nazaret si riflette il pathos divino, la compassione del Dio dell'esodo, il Dio liberatore i suoi passi si muovono verso l'umano oppresso, affrante dolorante per sanarlo. I cosiddetti miracoli operati da Gesù (e che più propriamente andrebbero chiamati attività terapeutiche o interventi di sanazione) sono l'espressione di questo suo pathos divino in cui si riflette lo stesso pathos del Dio liberatore, da lui invocato, con una inflessione di particolare e originale tenerezza, Abbà papà. Gesù muove i suoi passi verso la sofferenza e ogni forma di sofferenza perché non ci sia più la sofferenza. Verso ogni forma di sofferenza. Stando alla tipologia dei miracoli operati da Gesù, sette sono le forme di sofferenza contro le quali Gesù ha lottato:
- la sofferenza fisica (i miracoli che riguardano le guarigioni del corpo);
- la sofferenza psichica (i miracoli che riguardano le guarigioni dell'anima le cui lacerazioni e dissidi venivano attribuite a spiriti e demoni invisibili);
- la sofferenza frutto dell'emarginazione e dell'esclusione (i miracoli che riguardano le guarigioni dei lebbrosi e l'accoglienza delle prostitute);
- la sofferenza frutto della povertà e dell'ingiustizia sociale· (il miracolo della moltiplicazione dei pani, o più correttamente della «divisione» dei pani, riferito per ben sei volte);
- la sofferenza frutto della violenza della natura ( i miracoli riguardanti il dominio sul disordine naturale);
- la sofferenza frutto dell'angoscia della morte (il miracoli dei morti risuscitati, il figlio della vedova di Nain e Lazzaro):
- la sofferenza soprattutto frutto del peccato, proveniente dal convincimento solidificato e legittimato socialmente di essere abbandonati da Dio, come si ritenevano ed erano ritenuti appunto i peccatori.
Offrendo ad essi la sua amicizia, accettando di sedere alla loro mensa, non giudicandoli e condividendo i loro pasti l'ebreo Gesù annunzia che, per Dio, non ci sono abbandonati, perché egli non abbandona neppure chi lo abbandona. A proposito dei peccatori al tempo di Gesù l'esegeta J. Jeremias osserva:
«Tenersi a debita distanza dai peccatori era un preciso e primario dovere religioso per il giudaismo del tempo. Alla mensa comune di Qumran potevano assidersi solo i puri, i membri di pieno diritto della comunità. Per il fariseo il "commercio con i peccatori" metteva in gioco la sua purezza di giusto, la sua appartenenza alla stirpe dei santi [ ... ] Il giudaismo ammette certamente che Dio è misericordioso e può perdonare. Ma questo beneficio è riservato ai giusti; ai peccatori è riservato il giudizio. Certo, vi è salvezza anche per il peccatore, ma a una condizione: che dimostri la sincerità del suo pentimento attraverso una degna riparazione e una condotta irreprensibile. Allora, ma allora soltanto, egli può ancora essere oggetto dell'amore di Dio, secondo la mentalità farisaica. Deve insomma, prima di tutto, diventare un giusto»5.
Concludo il paragrafo citando due brevi testi delle scritture ebraiche. Il primo è tratto dal libro della Genesi dove si legge che «Dio passeggiava nel giardino alla brezza del giorno» e che Adamo, dopo la colpa, alla voce del Signore che gli chiedeva: <<Dove sei?», risponde: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (Gn 3,8-10).
Il secondo testo si trova nel libro dell'Esodo al cap. 12 dove, nella notte di pasqua, la notte della liberazione, Dio promette di «passare per il paese d'Egitto» (cfr. Es 12,12ss e 12,27) per sottrarre il suo popolo all'oppressione e stringere con lui l'alleanza per poi farlo entrare nella terra promessa. Nei passi di Gesù le scritture cristiane rileggono e vedono riflettersi, da una parte, i passi del Dio creatore nel giardino dell'eden, prima della colpa e, dall'altra, i passi del Dio rivelatore e redento re che, nella notte di pasqua, per gli ebrei e per l'umanità segnò l'inizio della liberazione. Nel cap. 52 Isaia parla dei «piedi» di un «messaggero di lieti annunci, che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza» e «che dice a Sion: "Regna il tuo Dio"» (v. 7). I piedi di questo messaggero per le scritture cristiane sono i piedi di Gesù di Nazaret che, come vuole Bobin (l'autore sopra citato), non si sono mai stancati di camminare e ha lasciato le sue impronte su una piccola fetta di terra di circa sessanta chilometri circa di lunghezza che non cessa di interrogare, ieri come oggi, milioni di uomini e di donne.
I passi di Jeshua' messia
I passi dell'ebreo Gesù di Nazaret, per alcuni ebrei Suoi contemporanei, sono stati però più che i passi di un profeta.I suoi sono stati i passi del messia, i passi di quel personaggio straordinario ed unico che, secondo la celebre profezia di Isaia risalente al 700 a. c., Dio avrebbe suscitato dalla famiglia di Davide e, consacrato con l’unzione-mashiah vuole dire: infatti unto e l'italiano messia è l'adattamento fonetico del termine ebraico -, sarebbe stato destinato a salvare il suo popolo, al posto dei re che, infedeli, invece di agire in nome di Dio con giustizia, nella quasi totalità agivano contro la sua volontà, curando i propri interessi invece che quelli dei poveri, degli orfani, delle vedove e degli ultimi. Riportiamo per esteso il celebre testo isaiano.
Un germoglio spunterà dal tronco di Jesse,
un virgulto germoglierà dalle sue radici.
Su di lui si poserà lo spirito del Signore,
spirito di sapienza e di intelligenza,
spirito di consiglio e di fortezza,
spirito di conoscenza e di timore del Signore.
Si compierà del timore del Signore.
Non giudicherà secondo le apparenze
e non prenderà decisioni per sentito dire;
ma giudicherà con giustizia i miseri
e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese.
La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento;
con il soffio delle sue labbra ucciderà l'empio.
Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia,
cintura dei suoi fianchi la fedeltà.
Il lupo dimorerà insieme con l'agnello,
la pantera si sdraierà accanto al capretto;
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme
e un fanciullo li guiderà.
La vacca e l'orsa pascoleranno insieme;
si sdraieranno insieme i loro piccoli.
Il leone si ciberà di paglia, come il bue.
Il lattante si trastullerà sulla buca dell'aspide;
il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi.
Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno
in tutto il mio santo monte,
perché la saggezza del Signore riempirà il paese
come le acque ricoprono il mare (ls 11,1-9).
Il profeta prevede e annuncia la nascita di un discendente davidico, un «germoglio» che «spunterà dal tronco di lesse, un virgulto» che «germoglierà dalle sue radici», che, pieno dello spirito del Signore, cioè del Dio liberatore, «non «giudicherà secondo le apparenze» e «non prenderà decisioni per sentito dire», ma «giudicherà con giustizia i miseri», «prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese» e farà scomparire la violenza, instaurando un regno di giustizia - «fascia dei suoi lombi sarà la giustizia» - dove trionferà la logica dell'alleanza - «cintura dei suoi fianchi la fedeltà» - e la pace si estenderà non solo al rapporto tra gli umani ma allo stesso regno animale.
Per alcuni ebrei contemporanei di Gesù di Nazaret questo discendente davidico, pieno di spirito e capace di instaurare quel regno di giustizia e di pace annunciato dai profeti e da sempre al cuore del racconto fondatore di Israele, si sarebbe inverato in lui e per questo lo proclamarono mashiah,kristos in greco, che vuoI dire unto, da cui cristo, impropriamente divenuto un nome proprio. Se è messia, i passi di Gesù sono, per questo, i passi del messia e ai passi del messia ha dato voce soprattutto Paolo di Tarso, le cui lettere, secondo il filosofo Giorgio Agamben, sono da considerare il «testo messianico fondamentale dell'Occidente»6. Professore di filosofia all'università di Verona (e autore tra l'altro del saggio:Quel che resta di Auschwitz)7, Agamben ha dedicato un commento alla lettera di Paolo ai Romani,concentrandosi sulle sole prime dieci parole(Paulos doulos Christou Iesou,kletos apostolos aphorismenos eis euaggelion theou)in cui,per l’autore,è ricapitolato tutto il testo paolino e l'intero suo pensiero messianico. Com mentando le due parole Christos Jesous l'autore scrive:
«Ogni lettura e ogni nuova traduzione del testo paolino deve esordire dall'avvertenza che christos non è un nome proprio, ma è, già nella Settanta, la traduzione greca del termine ebraico masiah, che significa "l'unto", cioè il messia. Paolo non conosce Gesù Cristo, ma Gesù messia o il messia Gesù, come scrive indifferentemente. Allo stesso modo egli non usa mai il termine christianos, ma, se l'avesse conosciuto (come sembra implicare At. 11,26), esso non avrebbe potuto significare per lui altro che "messianico", innanzitutto nel senso di seguace del messia. Questa avvertenza è ovvia, perché non può essere seriamente contestata da nessuno, ma non è, tuttavia, triviale, perchè un'abitudine millenaria, lasciando non tradotta la parola christos, ha finito per far sparire il termine messia dal testo paolino. Lo euaggélion tou Christoù di Rm. 15,19 è la buona novella della venuta del messia e la formula Iesoùs estin ho christos, che in Gv 20,31 e in Act. 9,22 esprime la fede messianica delle comunità cui Paolo si rivolgeva, non avrebbe semplicemente senso se christos fosse un nome proprio. È’ assurdo parlare, come fanno i teologi moderni, di una "coscienza messianica” di Gesù e degli apostoli, se poi si ipotizza che questi intendessero,christos come un nome proprio. La cristologia in Paolo - ammesso che si possa parlare di una cristologia in Paolo - coincide integralmente con la dottrina del messia»8.
L'affermazione unanime e insistita, da parte del Nuovo Testamento, dell'ebreo Gesù come messia esige, per essere compresa adeguatamente, tre chiarificazioni importanti.
La prima riguarda l'attesa messianica che al tempo di Gesù era diffusa più che mai. Come osservano gli storici, al tempo di Pilato la Palestina era attraversata da diversi moti di rivolta. Molti che desideravano di essere liberati dalla sovranità romana aspettavano questa liberazione da un intervento diretto di Dio stesso, che avrebbe provveduto attraverso un suo inviato. Ma se comune era l'attesa di un intervento divino, diversificato e non riconducibile ad unità era il modo di intendere tale intervento, come annota lo studioso E.P. Sanders:
«C'erano molte differenze nel modo di intendere la natura e la portata dell'auspicato cambiamento in rapporto alle modalità con cui Dio lo avrebbe realizzato. Relativamente pochi aspettavano un .Messia davidico che avrebbe liberato i giudei sconfiggendo l'esercito romano. Alcuni si aspettavano un segno straordinario che avrebbe annunciato che il tempo della liberazione era arrivato (come il crollo delle mura di Gerusalemme), mentre altri si aspettavano probabilmente solo che Dio rafforzasse la mano dei giusti e insinuasse il terrore nel cuore dei soldati romani»9.
La seconda riguarda coloro che, nell'ebreo Gesù di Nazaret, hanno visto realizzata l'attesa messianica, riconoscendo in lui quel personaggio straordinario di cui parlava Isaia e proclamandolo per questo mashiah, l'unto inviato da Dio, il christos e perciò il messia. A proclamare l'ebreo Gesù come messia non sono stati i cristiani (se per cristiani si intendono dei non ebrei, cioè dei pagani), ma degli ebrei, quegli ebrei suoi discepoli e seguaci che, dopo la sua morte e a causa della sua morte, hanno avuto come una illuminazione o una rivelazione convincendosi che il loro fratello e maestro finito su una croce al pari di un malfattore, lungi dall'essere un malfattore era un giusto, anzi il giusto per eccellenza e l'unico giusto grazie al quale il mondo da maledizione poteva tornare ad essere benedizione. E se è vero che solo alcuni ebrei hanno riconosciuto Gesù come loro messia, mentre altri non lo hanno ritenuto tale o lo hanno osteggiato, ciò, lungi dall'essere interpretato come antigiudaismo, va considerato semplicemente un problema interno al giudaismo che, com'è noto, si caratterizzava proprio per il suo pluralismo, la sua dialettica e la critica interna da parte soprattutto dei profeti. In un recente saggio l'esegeta tedesco Rudolf Pesch, dimostrando l'insostenibilità della tesi di chi vuole che l'origine dell'antigiudaismo cristiano sia nel Nuovo Testamento (che in realtà andrebbe ricercato altrove, negli scritti post-neotestamentari, quando, con la scomparsa dei giudeo-cristiani, la Chiesa giunse a comporsi solo di cristiani provenienti dal mondo pagano), scrive:
«Non possiamo prendere posizione sulle polemiche neotestamentarie senza considerare il punto di partenza: il fatto che gli autori [dei testi neotestamentari sono] giudeo-cristiani e [se questo è ,vero essi pertanto] ci consegnano una "lite in famiglia". Possiamo considerare come misura di paragone la polemica sull'Antico Testamento interna all'ebraismo, come anche le scritture del primo giudaismo-per esempio gli scritti di Qumran), e specialmente la critica dei profeti al popolo di Dio e ai suoi capi. In una disputa all'interno di una famiglia si parla spesso in modo violento, più violento di coloro che discutono da posizioni distanti; si discute per l'unità della famiglia, si discute a partire dall'amore per le radici comuni e per il bene della famiglia. In realtà si desidera rimanere uniti nel popolo di Dio, ovvero nella disputa si desidera che l'interlocutore torni a vedere. Solo se ci immergiamo nuovamente, insieme, nei fondamenti di questa critica all'interno del popolo di Dio, allora è possibile un nuovo ecumenismo, fecondo, che guardi avanti, un ecumenismo parte integrante della fede nelle promesse»10.
La terza chiarificazione riguarda il motivo messianico, cioè la ragione per la quale degli ebrei videro realizzarsi in Gesù di Nazaret l'attesa messianica. Questa ragione, per gli scritti neotestamentari, va ricercata nel modo con cui egli assunse e visse la sua morte ingiusta e violenta: non con il rifiuto, non con l'odio, non con la rivalsa, non con la ribellione, non con il contraccambio, non con la crudeltà, ma con l'atteggiamento e la disponibilità dello straordinario personaggio del Deutero-Isaia, denominato il servo sofferente, il quale di fronte alla violenza, non risponde alla violenza con la violenza ma, per interromperla, l'assorbe come una spugna:
«Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;
chi si affligge per la sua sorte?
Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
per l'iniquità del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tumulo,
sebbene non avesse commesso violenza
né vi fosse inganno nella sua bocca.
Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolore» (Is 53,7-10a).
Alcuni ebrei hanno visto nella morte del loro maestro Gesù di Nazaret il messia atteso e sperato, perché, in quella morte assunta per amore come un agnello, in quella sua nonviolenza come risposta alla violenza, hanno colto - come per rivelazione o illuminazione - non un gesto di remissività, passività o debolezza ma la potenza estrema dell'amore che non si arresta di fronte a chi lo nega e continua a donarsi instancabilmente, confidando sempre nella bontà dell'altro e nel suo possibile risveglio. E in questa potenza di amore esploso nel cuore di quel crocifisso essi hanno intravisto il principio di rigenerazione della storia, capace di convertirla da storia di violenza in storia di nuova possibile fraternità e amicizia. La potenza inaudita della nonviolenza (che il Nuovo Testamento chiama perdono, termine sul quale si sono però stratificati significati pietistici e ambigui che ne esigono un radicale ripensamento, come ho tentato di dire nel mio libro La Passione di Gesù.Rivelazione della non violenza11”)come potenza reinstaurativa dell’umano è stata raramente sottolineata nella tradizione cristiana e la si deve soprattutto a un Erasmo di Rotterdam, per il quale era inconciliabile la sequela di Gesù con la guerra ai turchi, e, oggi, da uomini, spesso non cristiani, come Gandhi, Aldo Capitini, Albert Einstein e Albert Schweitzer, per i quali l'unica possibile salvezza dell'umano e di riconciliazione tra i popoli e le culture passa e può solo passare attraverso la nonviolenza intesa non come mera tecnica, tattica, strategia o codice morale, ma come inveramento dell'umano e, in un mondo disumanizzato da sorprusi, ingiustizie e violenze, come sua reinstaurazione.
A proposito dell'ebreo Gesù proclamato messia per la sua nonviolenza, ancora Bobin osserva:
«La sua parola è vera solo in quanto disarmata. La sua potenza è di essere privo di potenza, nudo, debole, povero: messo a nudo dal suo amore, fatto povero dal suo amore. Questa è la figura del più grande re d'umanità, dell'unico sovrano che abbia chiamato i propri sudditi a uno a uno, con la voce sommessa della nutrice. Il mondo non poteva sentirlo. Il mondo sente solo quando c'è un po' di rumore o di potenza. L'amore è un re privo di potenza».12
Per alcuni ebrei del primo secolo dell' era cristiana nell'ebreo Gesù si è realizzata l'era messianica, perché nell'impotenza del suo amore - suprema potenza - si è riaperta per ognuno, nella storia, la possibilità di rigenerarla: a partire dall'unicità e responsabilità del proprio io, condizione di possibilità per ogni altro cambiamento sociale e istituzionale.
I passi dei seguaci di Jeshua' messia
Cristiano è il seguace dell' ebreo Gesù messia e il seguace dell'ebreo Gesù messia è chi imita la sua nonviolenza e mitezza. Ma se questo è vero, la storia cristiana ne è la smentita più radicale, perché i cristiani - i seguaci di Gesù di Nazaret - non solo hanno continuato a credere nella potenza della forza e della violenza contrariamente al loro messia, ma, con l'antigiudaismo sorto alloro interno, l'hanno rivolta particolarmente nei confronti di quel popolo dal quale il messia era sorto, ricambiandolo non con la gratitudine ma con l'odio e il disprezzo. Se per sommi capi questa è stata la storia cristiana (senza dimenticare le eccezioni mai mancate), i passi dei cristiani, più che passi dietro il loro messia, sono passi che se ne sono allontanati e lo hanno tradito. Di fronte a questo allontanamento e tradimento i seguaci del messia Gesù di Nazaret sono chiamati ad un triplice nuovo passo.
Il primo passo è quello della presa di coscienza e riconoscimento che l'antigiudaismo, che ha segnato e spesso ancora segna le Chiese, costituisce il più radicale tradimento della sequela all'ebreo Gesù di Nazaret che esse proclamano come messia loro e delle genti. Sempre Pesch scrive:
«Appartiene alle assurdità dell'antigiudaismo del nostro secolo il fatto che, per servire gli scopi del nazismo, si volesse fare di Gesù un ariano; che oggi, in Russia, all'interno del movimento ultranazionalistico russo Pamjat, si ,vorrebbe fare di Gesù un assiro; che nella teologia della liberazione palestinese Gesù venga presentato come palestinese. Durante il cosiddetto Terzo Reich importanti studiosi dell'Antico e del Nuovo Testamento si prestarono a tirare il carro della propaganda antiebraica dei nazisti, e questa è una pesante ipoteca che pesa sulla ricerca esegetica delle confessioni cristiane in Germania. Il tentativo di mettere una pietra sopra a questo fatto e di mettere tutto a tacere non fa altro che rendere più pesante questa ipoteca. Per quanto sia difficile immaginarselo, risponde a verità il fatto che cinquant'anni fa affermare che "Gesù era un ebreo, non un cristiano" suonava alle orecchie di molti cristiani come rivoluzionario. E questo anche se il primo gennaio veniva sempre festeggiata la circoncisione di Gesù, e per questo era chiaro che Gesù era ebreo, e anche se i libri sulla "vita di Gesù nella vita e nel popolo di Israele" raggiungevano alte tirature e, forse, venivano persino letti» 13.
«Assurdità» come queste (così le chiama Pesch) hanno segnato non solo il secolo scorso ma, con linguaggi diversi, buona parte della storia passata cristiana e minacciano di segnarla ancora oggi, ed esse sono la negazione stessa della propria fede nel messia ebreo Gesù di Nazaret. Riconoscere queste «assurdità» è, per il cristiano, dopo la Shoà, il primo passo necessario per chi vuole continuare a seguirlo ed essere suo discepolo.
Il secondo passo è quello di passare dal riconoscimento del tradimento al pentimento per le sofferenze inaudite che la storia dell'antigiudaismo cristiano ha causato al popolo ebraico. Un pentimento di cui non c'è traccia nella Nostra aetate n. 4 e che non ha trovato un' espressione adeguata neppure nel documento “Noi ricordiamo”. Una riflessione sulla Shoà, dominato soprattutto da una preoccupazione apologetica. Il mea culpa più esplicito per le colpe della Chiesa nei confronti del popolo ebraico è nella preghiera semplice e toccante lasciata da Giovanni Paolo II nel marzo 2000 tra le fessure del muro del pianto di Gerusalemme, mentre la richiesta di perdono più esplicita è costituita dalla Dichiarazione di pentimento della Chiesa francese del 1997, che così si conclude:
«Il tentativo di sterminio del popolo ebraico, invece di apparire come una questione centrale sul piano umano e sul piano spirituale, è rimasto a livello di una posta in gioco secondaria. Oggi confessiamo che quel silenzio fu un errore. Riconosciamo anche che la Chiesa in Francia ha mancato allora alla sua missione di educatrice delle coscienze e ha portato così, insieme al popolo cristiano, la responsabilità di non aver offerto soccorso fin dai primi istanti, quando la protesta e la protezione erano possibili e necessarie, anche se, in seguito, ci sono stati innumerevoli atti coraggiosi. Questo è un fatto che riconosciamo oggi. Poiché questo errore della Chiesa francese e la sua responsabilità verso il popolo ebraico fanno parte di lei, confessiamo questa colpa. Imploriamo il perdono di Dio e chiediamo al popolo ebraico di sentire questa parola di pentimento»14.
Il terzo passo è quello della teshuvà o conversione, perché quello che è accaduto mai più accada. Per debellare radicalmente l'antigiudaismo cristiano, che minaccia sempre di riaffacciarsi, i seguaci dell'ebreo Gesù di Nazaret devono impegnarsi soprattutto su due fronti. Il primo è la rilettura radicale dei testi canonici neotestamentari che, fraintesi e non interpretati correttamente, si prestano, come si sono prestati, ad essere fondazione e legittimazione di atteggiamenti antigiudaici. Daniel Goldhagen ha scritto che
«la bibbia cristiana conduce in modo incessante un attacco teso allo sterminio degli ebrei, li presenta in centinaia di passi come nemici ontologici di Dio, come covi di serpenti, come coloro che non hanno obbedito a Dio, come figli del diavolo, come coloro che hanno congiurato per uccidere il figlio di Dio e i suoi discepoli»15.
Questo problema - il problema dell'antigiudaismo delle fonti neotestamentarie - è stato affrontato in un documento della Pontifìcia Commissione Biblica il 24 maggio 200116 e, dal punto di vista rigorosamente esegetico, per quanto riguarda il vangelo di Giovanni, da Pesch nel libro più volte già citato. Ora, se è vero che le fonti neotestamentarie in quanto tali non sono né possono essere antigiudaiche, è però indubbio che l'uso che di esse - soprattutto di alcuni brani -è stato fatto nel corso dei secoli è stato quasi sempre in chiave antigiudaica. Resta pertanto importante ed urgente per tutte le Chiese una rilettura critica di queste fonti, soprattutto nell'ambito liturgico, perché si smascherino le pseudo-interpretazioni e il testo neo testamentario non venga strumentalizzato per fomentare odio e disprezzo nei confronti degli ebrei.
Il secondo fronte su cui impegnarsi è che il conflitto arabo-israeliano, ipersemplificato e destoricizzato nella complessità drammatica delle sue cause e interpretazioni, si presti a fomentare una nuova forma di antigiudaismo e antisemitismo. Parlando dell'ostilità nei confronti di Israele riesplosa dopo l'11 settembre, «come se lo Stato ebraico rappresentasse la causa unica, semplice e quasi esclusiva dei recenti attacchi terroristici all'Occidente», uno scrittore non sospetto quale David Grossman ha detto con preoccupazione e angoscia:
«Sono molto spesso critico nei confronti del mio paese, ma nelle ultime settimane sento che l'ostilità verso Israele, così come trapela dai mezzi di comunicazione, non viene alimentata solo dalla condotta del governo Sharon. Come ogni essere umano percepisco questa sensazione in profondità, sottopelle. La sento come una sorta di fremito che si insinua in me giungendo a toccare le cellule della memoria, evocando i tempi in cui gli ebrei non erano considerati esseri umani, fatti di carne e sangue, ma simboli del "diverso". Ecco un esempio, una metafora agghiacciante: "In conclusione lei afferma", esclama il giornalista della Bbc al termine di un'intervista ad una personalità araba, "che Israele è la causa del problema che sta avvelenando oggi il mondo"»17.
Se nelle «cellule della memoria» degli ebrei, come vuole Grossman, s'iscrive il timore mai sopito definitivamente di «non essere considerati esseri umani, fatti di carne e sangue, ma simboli del "diverso"», la conversione alla quale come Chiese si è chiamati è di fare sentire la propria prossimità e solidarietà agli ebrei così profondamente da modificare quelle «cellule della loro memoria» per incidere in esse: al posto del timore di «non essere considerati esseri umani, fatti di carne e sangue, ma simboli del "diverso"», la sorpresa e la gioia di una fraternità e di un amore di cui mai più dubitare.
Conclusione
Concludendo questa riflessione sui <<passi del messia», c'è da chiedersi su quali passi, nel futuro immediato, devono orientarsi quanti si proclamano seguaci del messia ebreo Gesù di Nazaret e quanti, pur non proclamandolo messia, lo ritengono una delle figure più alte dell'ebraismo o della storia spirituale dell'umanità. Questi passi sono i passi di coloro che, in un mondo minacciato dalla distruzione del pianeta, le cui proporzioni superano perfino quelle della bomba atomica, si impegnano per un nuovo ordine mondiale, politico ed economico, dove al centro dell'interesse ci sia il rispetto della vita.
In una celebre pagina A. Schweitzer, premio Nobel per la pace nel 1953 per il suo impegno nella lotta contro le armi atomiche insieme ad Einstein (oltre che pastore protestante, filosofo, teologo e fondatore dell'ospedale di Lambarené, nell'Africa equatoriale, narra di una sua «rivelazione» che, un giorno, in Africa, gli ha cambiato la vita:
«La sera del terzo giorno, al tramonto, ci trovavamo nei pressi del villaggio di Igendja, e dovevamo costeggiare un isolotto, in quel tratto di fiume largo oltre un kilometro. Sopra un banco di sabbia, alla nostra sinistra.quattro ippopotami con i loro piccoli si muovevano nella nostra stessa, direzione. In quel momento, nonostante la nostra grande stanchezza, e ,lo scoraggiamento, mi venne in mente improvvisamente l’espressione ”rispetto per la vita", che, per quanto io sappia, non avevo mai sentito né letto.Mi venne in mente che un'etica che prenda in considerazione soltanto il nostro rapporto con altri esseri umani è un’etica incompiuta e parziale e perciò non può possedere una piena energia. Soltanto l'etica del rispetto per la vita ha questa possibilità essa non ci mette in contatto solo con i nostri simili ma con tutte le creature che si affacciano al nostro orizzonte, e ci dà il compito di occuparsi del loro destino, per evitare di recare loro danno, anzi, di essere loro d'aiuto, per quanto ci sia possibile. Compresi subito con chiarezza che quest'etica, elementare e completa, possedeva una profondità totalmente diversa dall'etica che si occupa soltanto del rapporto fra esseri umani, ed anche una vivacità completamente diversa ed un'energia totalmente nuova» 17.
Se il messia aspetta ognuno di noi, ciò che egli aspetta è che ogni uomo e ogni donna si elevi, per dirla con Emmanuele Lévinas, ad un'etica della responsabilità assoluta e illimitata, l'unica capace di instaurare il rispetto per ogni forma di vita, come ·vuole Schweitzer, l'unica capace di salvare il nostro pianeta minacciato dalla ingiustizia e dalla violenza dell'uomo sull'uomo e sullo stesso habitat naturale, ed è pure l'unica capace di inaugurare e realizzare quel frammento di utopia o mondo buono dove, come sogna il salmista, finalmente «misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (S aI85,11).
Note
- M. BUBER, Sette discorsi sulI'ebraismo, Carucci, Assisi-Roma 1976, p. 16.
- CH. BOBlN, L’uomo che cammina, Qiqajon, Magnano (BI) 1998, p. 9 e 14.
- A.J.HESCHEL, Il messaggio dei profeti, Borla, Roma 1981, p.16
- Ivi, p.192
- J. JEREMIAS, Teologia del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1976, p. 141.
- G. AGAMBEN, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, Bollati Boringhieri Torino 2000, p. 9.
- ID., Quel che resta di Auschwitz; L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino, 1998.
- ID., Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, cit., p. 22.
- E.P. SANDERS, Gesù. La verità storica, Mondadori, Milano 1995, p. 35.
- R. PESCH, Antisemitismo nella bibbia. Indagine sul vangelo di Giovanni, Queriniana, Brescia 2007, p. 117.
- C. DI SANTE, La Passione di Gesù. Rive!azione della nonviolenza, Città Aperta, Troina (EN) 2007.
- CH. BOBIN, L'uomo che cammina, cit., p. 21.
- R. PESCH, op. cit., pp. 41-42.
- CONFERENZA EPISCOPALE FRANCESE, Dichiarazione di pentimento, in "Adista”, 11 ottobre 1997, p. 4.
- D. GOLDHAGEN; citato da R. PESCH, op. cit., p..
- PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001; EV 20, 506ss.
- D. GROSSMANN Intervista «La Repubblica», 21.10.2001, 38-39. A.SCHWElTZER, Lettera a Sorella Maria, in SORELLA MARIA - A. SCHWEITZER, Senza varcare la soglia. Lettere, Romena, Pratovecchio (AR) 2007, p. 148.