Ecumene

Mercoledì, 17 Novembre 2010 18:20

Il monachesimo ortodosso (Vladimir Zelinskij)

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Se la preghiera si trova al centro della fede ortodossa, il monachesimo costituisce il nucleo della vita spirituale della Chiesa. La parola stessa “ortodossia” significa glorificazione (di Dio) “buona e giusta”. Perciò il monachesimo è visto prima di tutto come un modo diretto, più chiaro e ovvio  di dedicare la propria vita a Dio, di trovare un porto sicuro per la propria anima e di riempirla con la celebrazione ininterrotta, con la supplica e la lode.

Il monachesimo ortodosso

di Vladimir Zelinskij

Se la preghiera si trova al centro della fede ortodossa, il monachesimo costituisce il nucleo della vita spirituale della Chiesa. La parola stessa “ortodossia” significa glorificazione (di Dio) “buona e giusta”. Perciò il monachesimo è visto prima di tutto come un modo diretto, più chiaro e ovvio  di dedicare la propria vita a Dio, di trovare un porto sicuro per la propria anima e di riempirla con la celebrazione ininterrotta, con la supplica e la lode. In Oriente non esistono le diverse e ramificate stradine del cammino monastico, non ci sono gli ordini contemplativi ed attivi, come in Occidente. Sarebbe addirittura difficile escogitare parole diverse per esprimere nella lingua della cultura ortodossa (come in russo, ricchissimo nelle sue sfumature) i concetti distinti per il monastero ed il convento, per il monaco ed il religioso. In pratica abbiamo una sola parola: “monaco”. Nell’Ortodossia abbiamo una sola vocazione monastica, quella della preghiera.

Questo non significa che gli uomini e le donne che scelgono questa strada non facciano altro che pregare nel tempio. Come in qualsiasi vita sociale, nel monastero esistono tante differenti forme d’attività, tranne le celebrazioni. Ma la preghiera interiore, in teoria, dovrebbe essere permanente. Il candidato alla tonsura che entra nel monastero deve dare i tre voti; castità, povertà e obbedienza. Il voto della castità riguarda non solo il rifiuto del rapporto carnale, il celibato come norma, ma prima di tutto la salvaguardia della purezza del cuore, la difesa contro i cattivi “pensieri”. La povertà in Oriente si traduce come “non acquisizione dei beni terrestri” o, nel contesto spirituale, come distacco dalle ricchezze e dalle attrazioni del mondo. Anche l’obbedienza è interpretata non soltanto come sottomissione ai superiori (l’igumeno in monastero, il vescovo nella diocesi, il direttore spirituale nella vita interiore), ma anche come vincita sulla passione dell’orgoglio, sul proprio “io” accecato dall’egoismo e dalla volontà peccaminosa. In nome della santa obbedienza un monaco, o prima ancora un novizio, deve eseguire i lavori più umili che, a volte, gli lasciano poche opportunità per assistere a tutte le feste ecclesiali, comprese quelle più importanti.

Lo scopo della scelta monastica è il “combattimento invisibile” per la propria salvezza, per avvicinarsi al Regno dei cieli – ch’è già “vicino”. Perciò la vocazione monastica è percepita in Oriente come la via universale, aperta a tutti. In linea di principio anche i laici, che vivono nel mondo con le loro famiglie, sono chiamati a seguire la strada dell’adempimento dei comandamenti e, soprattutto, delle beatitudini del capitolo 5 di San Matteo. "Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli. Beati quelli che piangono... Beati i miti... Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia... Beati i misericordiosi... Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il Regno dei cieli".

Lo scopo della vita cristiana, della quale il monachesimo è destinato ad esserne l’espressione più concreta, pura ed alta, è quello di raggiungere la beatitudine, come pegno della vita con Dio. "Beato" vuol dire essere accolto nella beatitudine o nella bellezza mistica del Regno che è "accanto a noi” o dentro di noi", come dice Gesù. È in questa "vicinanza" – o intima  prossimità che arde l'anima umana – che consiste tutto il segreto della santità ortodossa. "È giunto per voi il Regno di Dio" (Mt. 12,28), ma "non tutti quelli che dicono: ‘Signore, Signore!’ entreranno nel regno di Dio" (Mt. 7,21). I santi sapevano - e certamente, non con la ragione, ma con  la sapienza del cuore - che quanti dicono: "Signore, Signore!" per tutta la vita – perfino in ogni ora della vita – "non entreranno" così, "in massa", per il semplice fatto di essere dei "buoni credenti". Uno dei santi più recenti, Silvano, un monaco del Monte Athos, ha ricevuto questa rivelazione dal Signore: "Tieni la tua mente nell'inferno e non perdere la speranza!". E lo stesso santo raccontò della propria esperienza (senza parlare di se stesso): "Il Signore ha dato il Santo Spirito alla terra, e colui nel quale Egli vive, sente il paradiso in sé".

La terra ed il Cielo, l'inferno ed il paradiso sono realtà quotidiane nella vita di coloro che sono vicini al Regno, che lo portano in sé, ma  che vi entrano solo con la forza, con la violenza su se stessi. Perché "il regno di Dio soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono" (Mt. 11,12). Si tratta della violenza della separazione, del distacco dal mondo decaduto e questa esperienza può essere paragonata alla morte vissuta. "Perché voi siete già come morti. La vostra vita  è nascosta con Cristo in Dio", dice San Paolo e da questa frase, da questa visione della vita cristiana s’apre la strada verso la mortificazione della carne dei futuri monaci ed eremiti. In verità la santità ortodossa è una vittoria della forza interiore, una vittoria che noi non vediamo. Insomma questa santità è più nascosta che manifestata attraverso le cosiddette “virtù eroiche”; la maggior parte dei santi erano sconosciuti (come era quasi sempre sconosciuta la loro vita in Cristo)  o cercavano di essere sconosciuti e spesso soltanto la loro morte sollevava il velo della loro "beatitudine" o addirittura manifestava "il Cristo", vissuto segretamente nella loro vita. "E quando il Cristo, che è la vostra vita, sarà visibile a tutti, allora si vedrà anche la vostra gloria, insieme con la sua" (Col. 3,3).

Dal punto di vista evangelico tutto il popolo di Dio è chiamato alla santità e alla perfezione. Perciò, come abbiamo detto, non c’è un distacco fondamentale fra la vita monastica e quella laica: la prima è vista come la più completa e radicale. Ma anche nella vita meno radicale esistono le stesse regole di digiuno e di preghiera, che tutti devono rispettare. C’è una differenza, però, che non sempre è quantitativa. Per esempio, i monaci, soprattutto nei paesi slavi, non mangiano la carne e la partecipazione alle celebrazioni, a volte, occupa tutto il loro tempo. All’interno del mondo monastico la scala della perfezione ha una struttura molto precisa. (Il libro “La scala” di San Giovanni Climaco, monaco del VI secolo nel monastero del Sinai, insieme alla “Filocalia”, un’antologia di testi patristici ed ascetici, sono le letture preferite nei monasteri). Come dappertutto, qualsiasi candidato, prima di diventare monaco, deve passare qualche anno nel noviziato. Ma ancor prima del noviziato un aspirante al monachesimo passa un certo tempo nel monastero per provare la sua scelta e decisione. Il periodo di noviziato non ha un tempo prestabilito: si tratta di qualche anno, ma può essere ridotto anche a qualche giorno, a seconda della decisione del superiore del monastero o del vescovo locale. Il passaggio del novizio allo stato monacale è un atto solenne che si chiama tonsura e che fa riferimento sia alla simbolica dell’Antico testamento (l’offerta dell’uomo a Dio), sia al taglio dei capelli, come segno della schiavitù, (proprio del mondo greco-romano). D’allora in poi il nuovo monaco non deve tagliare i capelli né la barba, seguendo nella tradizione il Nazareno. Insieme con la tonsura il monaco riceve anche la cosiddetta “vestizione”: un largo e lungo vestito monacale ed uno speciale copricapo. Al momento della celebrazione il superiore da al monaco anche un nuovo nome, secondo le parole dell’Apocalisse: “Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto il nome nuovo che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve” (Ap. 2.17).

“Vincitore” è colui che conduce la “lotta interiore” contro il peccato ed i pensieri peccaminosi e che riceve “la manna nascosta” della preghiera ed un nome che è segno di metanoia, di cambiamento radicale dell’identità, di rinuncia a questo mondo decaduto. Sul piano spirituale, il nuovo monaco riceve anche la regola della preghiera individuale (vuol dire quella  eseguita nella solitudine della sua cella, oltre alle celebrazioni) e la regola dell’obbedienza (cioè, il servizio che lui deve svolgere nel monastero).

La tonsura è solo un primo grado del monachesimo e per la maggior parte dei monaci rimane permanente. Esistono, però, altri due gradi dell’ascesi monastica a cui pochi salgono: il grado dello schima minore e quello dello schima superiore. Un monaco che viene ammesso a questi gradi pronuncia voti più impegnativi ed inizia una più dura strada. Se le celebrazioni in comunità rimangono le stesse, la preghiera nella cella deve diventare più intensa e più lunga, il cibo più scarso e le limitazioni del sonno più severe. Alcuni monaci non dormono mai sdraiati nel letto, ma solo in posizione seduta. Ad ogni grado il monaco ottiene un nuovo nome (che può coincidere, a volte, con il nome ricevuto nella prima tonsura). Con il grado superiore allo schi-eromonaco viene consegnato un cappuccio. Si tratta di uno speciale copricapo che ricade sulla braccia, dalle spalle al petto, con raffigurate alcune croci e ancora l’analav, una fascia portata nella forma della croce, che significa che il monaco porta la sua croce e segue Cristo.

La vocazione monacale è come iscritta nella struttura stessa della Chiesa, il cui clero si divide tra quello bianco e quello nero. Il clero bianco è composto da diaconi e sacerdoti sposati (una tradizione che risale al IV secolo) mentre il clero nero è quello dei monaci. Un monaco semplice, quando prende il primo grado nella scala ecclesiale, viene chiamato ierodiacono mentre il sacerdote viene chiamato ieromonaco. Segue, poi, il grado di igumeno (storicamente corrisponde al posto del superiore nel monastero, ma nel XX secolo è diventato un titolo piuttosto onorifico). Un gradino più alto è il titolo di archimandrita; seguono quelli di vescovo, di arcivescovo, di metropolita ed infine, di patriarca. Questo vuol dire che la Chiesa è guidata dai monaci (di solito quelli della tonsura, il primo grado del monachesimo) ed un sacerdote che non è stato tonsurato non può mai diventare vescovo.

Esistono due tipi principali di vita monastica: la “cenobitica” (comune) e l’eremitica (solitaria). La parte preponderante dei monaci abita nei monasteri, sotto la guida dell’igumeno (archimandrita, vescovo) e sottomessa al ritmo delle celebrazioni della comunità. Gli eremiti invece seguono un proprio ritmo, di solito più difficile e una pratica personale della preghiera. A volte questi eremitaggi (o skite) sono immersi nella vita del mondo e nascosti agli occhi estranei. Una forma simile di monachesimo era molto diffusa al tempo del comunismo, quando tutti monasteri sul territorio russo (in parte anche quelli negli altri paesi dell’Est) erano praticamente chiusi o l’accesso ai monasteri era molto difficile. Così è nata una pratica specifica dell’eremitaggio che si chiama “il monastero nel mondo”, diffuso anche fra persone che non hanno fatto nessun voto speciale. “Il monastero nel mondo” è un tipo di vita spirituale che si protegge contro le tante tentazioni della vita quotidiana, immergendosi nella preghiera, nel pentimento e nel digiuno.

Il fondamento spirituale del monachesimo ortodosso nasce dalle parole di Cristo: “Alla risurrezione, infatti, non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo” (Mt 22,30). Per questo motivo nell’Ortodossia lo stato monacale si chiama “immagine angelica”, poiché un uomo e una donna che rifiutano la vita nel mondo e prendono i voti monastici cercano l’assimilazione agli angeli. Esiste anche un grado specifico dei monaci santi simili agli angeli (in russo prepodobnye) e, dopo i martiri, il maggior numero dei santi ortodossi appartiene a questa categoria. Chi sono gli “assomiglianti agli angeli”? Tra i più famosi, nell’ambito russo, troviamo Sergio di Radonez e Serafim di Sarov. Il segreto della loro vita spirituale s’esprime in poche parole: umiltà, purezza di cuore, totale fiducia in Dio (anche nelle circostanze più difficili), coraggio e vittoria su tutte le passioni dentro di sé. Ed ancora: la gioia nel Signore che vince contro le forze del male, la pace interiore ed irradiante che addomestica gli animali selvaggi. Ma, prima di tutto, un’interminabile preghiera penitenziale che dura la vita intera. Questi due santi sono i più venerati nella Chiesa Russa, ma anche aldilà delle sue frontiere e dei confini dell’Ortodossia. Oltre a queste vette della santità, ci sono tantissimi monaci conosciuti ed innumerevoli che restano sconosciuti e dimenticati sulla terra poiché hanno scelto e battuto quella strada che fino ai nostri giorni rimane la più attraente per gli ortodossi più zelanti.

Letto 7436 volte Ultima modifica il Martedì, 14 Dicembre 2010 17:14
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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