Aspetti dell'ecclesiologia ortodossa
di W. Z. Y.
Vorrei soffermarmi brevemente su certi aspetti della ecclesiologia ortodossa, poiché la dottrina sulla chiesa è strettamente correlata ai dialoghi bilaterali e multilaterali, come pure all’evento che stiamo celebrando oggi - la restaurazione dell’unità ecclesiale nel concilio ecclesiastico di Leopoli nel 1946.
Un aspetto importante della dottrina sulla chiesa è la sua cattolicità. La cattolicità della chiesa poggia sul principio del suo carattere locale, il che significa che ogni chiesa locale incarna l’intera essenza della chiesa. Ogni chiesa locale è, in un determinato luogo, una rivelazione della pienezza essenziale della chiesa. La chiesa locale non è una parte della chiesa, ma un membro che vive la vita dell’intero organismo o, meglio ancora, la stessa chiesa cattolica che abita in quel luogo. “La chiesa cattolica che risiede a Smirne” - è questo il modo con cui i cristiani di Smirne definivano se stessi alla metà del II secolo.
L’unicità della chiesa in ogni luogo determinato è la prima concreta incarnazione dell’unità che racchiude la natura della chiesa, vale a dire una unità fra uomini rinati a nuova vita mediante Cristo, uomini che hanno un Signore, una fede, un battesimo (Ef, 4,5). Perciò non vi può essere altro principio dell’ordinamento ecclesiastico che non sia di carattere locale (territoriale).
Il carattere locale di una chiesa indica che ci può essere solo una chiesa in un singolo luogo, cioè su un solo territorio ci può essere una sola chiesa, guidata da un solo vescovo. Secondo le parole di S. Cipriano di Cartagine: “La chiesa è nel vescovo e il vescovo nella chiesa”. Perciò in una chiesa ci può essere solo un unico capo - il vescovo , il quale a sua volta guida l’intera chiesa su un luogo determinato. La cristianità primitiva conosceva soltanto chiese concrete, esistenti in determinati luoghi.
L’ecclesiologia ortodossa è basata sul concetto che una comunità cristiana locale, riunita nel nome di Cristo, guidata da un vescovo e celebrante l’eucaristia come punto focale del suo servizio, è la vera chiesa cattolica e il corpo di Cristo, e non parte della chiesa o parte del corpo di Cristo.
La chiesa locale è la vera chiesa cattolica
La chiesa è cattolica perché Cristo è presente in essa. Allo stesso modo in cui ogni particola dei santi doni è veramente il corpo di Cristo, essendo presente in essa tutto il Cristo e non soltanto una sua parte, così ogni chiesa locale è la vera chiesa cattolica. S. Ignazio d’Antiochia ha formulato tale dottrina in questo modo: “Là dove c’è Cristo, c’è la chiesa cattolica”.
L’episcopato è il fondamentale fattore creativo nel corpo della chiesa, stabilito nella persona degli apostoli e dei loro successori. L’eucaristia è il punto focale del servizio del vescovo, ma la genuinità. della stessa eucaristia è attestata dal fatto che è celebrata dal vescovo o insieme a lui. A questo riguardo S. Ignazio d’Antiochia fa notare questo: “Sarà. considerata autentica solo l’eucaristia che è celebrata dal vescovo o da chiunque egli designi a questo scopo”. Ciò si applica anche agli altri sacramenti e a tutta la vita ecclesiale in generale. Perciò il vescovo è il principale criterio del carattere locale di una chiesa e il costruttore dell’unità ecclesiale.
Essendo fedele alla tradizione della chiesa primitiva, l’ecclesiologia ortodossa non ha mai riconosciuto vescovi “in generale”, ma solo vescovi di specifiche comunità cristiane. La chiesa ortodossa insegna che i vescovi sono uguali fra loro. Tale dottrina si basa sul fatto che ogni vescovo guida la unica e identica chiesa cattolica in un determinato posto e che nessuna chiesa locale, compresa la chiesa romana, può essere più cattolica di un’altra. Perciò nessun vescovo (il vescovo di Roma è uno di essi) può essere più vescovo di qualsiasi altro vescovo che guida la stessa chiesa cattolica in un altro posto.
Col tempo le unità ecclesiastiche guidate da vescovi hanno accresciuto il loro territorio: da piccole comunità in una città sono diventate diocesi, da diocesi regioni metropolitane, da regioni metropolitane patriarcati, ma il principio in sé è rimasto immutabile: un vescovo guida una chiesa in un luogo. I canoni ecclesiastici concernenti l’autorità di un vescovo e la distribuzione dei poteri tra i vescovi salvaguardano proprio questa norma, esigendo che sia osservata in qualunque circostanza.
La pluralità delle chiese locali non viola l’unità e la pienezza della chiesa. Nei primi secoli della sua esistenza la chiesa è consistita in un numero di comunità, completamente isolate e indipendenti, senza alcun legame canonico fra loro nei termini che intendiamo oggi. Ciononostante, la coscienza della unicità della chiesa non è mai stata così forte fra i cristiani come fu in quel periodo, quando il concetto di un’unica chiesa non era solo un’idea, ma una realtà vivente.
Il modello della chiesa primitiva: unità nella pluralità
A quel tempo non c’era unità nel suo ordinamento esterno, non perché contraddicesse l’idea cristiana della chiesa, ma solo perché in realtà esisteva una unità più profonda. Questa unità era un fatto vissuto e non una pura asserzione dogmatica, che non trova riscontro nella vita. Nonostante il numero crescente di chiese locali, l’unicità. della chiesa è rimasta inviolabile, perché tutte le chiese celebravano l’unica e identica eucaristia. L’unità. e la pienezza delle chiese non erano date dalla somma delle singole chiese locali, né dalla loro confederazione, che non è mai esistita, bensì da ciascuna chiesa locale.
Ciascuna chiesa locale includeva in sé tutte le altre chiese locali. Ciò che avveniva in una chiesa locale, avveniva anche in tutte le altre, poiché ogni cosa avveniva nella chiesa di Dio in Cristo. In forza di questa cattolicità. qualsiasi forma di esclusività. era del tutto estranea alle chiese locali. Né una chiesa poteva separarsi dall’una o dall’altra, poiché non potevano separarsi da Cristo. Tutte erano unite fra di loro nel l’amore. Ogni chiesa era oggetto dell’amore di tutta quanta la chiesa e tutte le chiese erano oggetto di amore da parte di ciascuna di esse.
In tal modo l’unità. delle chiese locali si esprime nella unità. della loro fede e della loro vita. Essa è manifestata nell’unità. di dottrina, preghiera e rito e di conseguenza nella unità. della sua vita interna e della sua fede e anche nell’unità. del suo ordinamento, con tutti questi elementi armonicamente composti tra di loro.
Nei primi secoli l’unità della chiesa non era basata su una sola autorità, posta al di sopra di tutte le chiese locali, come osserviamo oggi nella chiesa cattolica romana. E’ vero che i teologi cattolici insegnano che quell’unica autorità nella chiesa si identifica con il servizio a un tutto unito. Nondimeno, anche se descrivono questo principio di unità. come “autorità.” o “servizio”, esso si basa su un’organizzazione esterna, che è estranea alla chiesa primitiva, e non sulla vita interna.
L’unità interna consiste nell’accordo e solidarietà interiori tra le chiese locali, che esistono indipendentemente, ma non isolate le une dalle altre. Questo modello di unità esistette nell’età apostolica, allorché le chiese fondate dagli apostoli in varie città erano collegate spiritualmente fra di loro. Questo modello di unità della chiesa nella pluralità, unità nel la diversità, è il solo che corrisponda alla natura della chiesa.
Le distorsioni giuridiche dell’essenza della chiesa
La chiesa esiste nella storia ed è perciò soggetta a fattori storici. Questi fattori storici influenzano la forma esterna di vita e non toccano l’essenza e la natura della chiesa. Tale influenza è legittima e naturale, ma diviene illecita e inammissibile, quando i fattori storici penetrano nella natura stessa della chiesa e la toccano dall’interno, coinvolgendo la sua essenza nel processo storico. In questo caso, principi di ordine storico prendono il posto di fondamentali principi ecclesiali, causando inevitabilmente modifiche più o meno grandi al suo interno. La storia della chiesa conosce molte distorsioni simili. Nei duemila anni dalla sua esistenza i fattori storici hanno causato divisioni nella vita ecclesiale, distruggendo l’autentica vita della chiesa. Il risultato di ciò è che la chiesa vien vista erroneamente come un’organizzazione esterna, che a sua volta vien presa da molti per la vera essenza della chiesa.
Uno di questi fattori storici che sono entrati nella vita della chiesa è la legge. Dal momento che è di natura empirica o sensoriale, la legge è estranea alla natura della chiesa. Essendosi stabilita nella chiesa, è diventata legge ecclesiastica basata sulla legislazione romana. La legge canonica fu posta sullo stesso piano della legge statale. In tal modo si ammise che i canoni e le leggi appartenevano ad un solo e identico ordine.
La legge, da una parte, consolidò e rafforzò l’ordinamento e il governo ecclesiastico, ma dall’altra provocò dei mutamenti all’interno della chiesa. Per quanto concerne la vita della chiesa, alcuni ritengono che la legge l’abbia consolidata. Tuttavia, a giudizio di alcuni teologi ortodossi, si tratta di una conclusione parziale, poiché non vi è modo di sapere cosa sarebbe stata la vita ecclesiale se la legge non avesse fatto il suo ingresso nella chiesa. Nello stesso tempo, l’opinione che la legge abbia consolidato la vita ecclesiale non tradisce forse alcuni dubbi riguardo all’efficacia del potere della grazia nella chiesa ed anche una segreta convinzione che la legge è il fondamentale principio organizzatore della vita? La storia è testimone del fatto che la chiesa primitiva non conobbe la legge, bensì si fondò solo sulla grazia.
L’influsso della legge sulla vita ecclesiale è, in certe condizioni storiche, inevitabile, ma non deve alterare la natura della chiesa, la sua essenza intima. Di conseguenza, benché il diritto canonico rappresenti un principio legale, il suo proposito non è di alterare la natura della chiesa, bensì di proteggerla dall’influenza di fattori terreni. Il diritto canonico contiene delle indicazioni sul modo in cui l’essenza eterna ed immutabile della chiesa dovrebbe essere incarnata e rivelata in situazioni storiche diverse. La vita ecclesiale non può assumere forme a caso, ma solo quelle che corrispondono all’essenza della chiesa e sono capaci di esprimerla in condizioni storiche mutate. La fedeltà ai canoni è fedeltà all’insieme della tradizione ecclesiale e non si tratta solo di fedeltà alla autorità esterna del passato, ma di un legame vivente con la pienezza dell’esperienza ecclesiale.
Un’erronea distinzione fra chiesa locale e chiesa universale
Come si è detto in precedenza, l’effetto negativo della legge sulla vita ecclesiale consiste nell’alterare l’intima natura della chiesa. Ciò include, ad esempio, l’insegnamento erroneo riguardo alla chiesa universale e alle chiese locali. Nell’opinione di alcuni teologi occidentali, per lo più cattolici, la chiesa universale è una specie di entità spirituale di dimensioni universali che esiste fianco a fianco e in maniera indipendente rispetto alle chiese locali. In rapporto alla chiesa universale le chiese locali sono viste come comunità separate o “frammenti”. Questa visione della chiesa universale, così assunta per indicare la chiesa di Roma, si basa sulla convinzione che accanto ai vescovi, ciascuno dei quali è nominato da una chiesa locale per i propri bisogni, vi siano anche delle persone speciali, il cui servizio non è confinato ad una chiesa locale e non è legato ad essa, bensì è riferito all’intera chiesa.
Questa visione della chiesa universale e della chiesa locale è emblematica dell’attuale pensiero teologico in occidente, ma non si è data nel periodo apostolico, né in generale nella chiesa primitiva. Come osserva S. Ignazio d’Antiochia, una chiesa locale è cattolica, quando esclude in se stessa qualsiasi divisione in parti. Un vescovo insediato in una chiesa locale non è insediato in essa, ma nella chiesa di Dio in Cristo, che esiste in quella chiesa per la quale è stato consacrato. Lo stretto legame fra il vescovo e la chiesa locale non diminuisce la natura cattolica del suo ministero, poiché - conformemente alla natura cattolica di una chiesa locale - tutto ciò che si compie in una chiesa locale, si compie nella chiesa di Dio.
Con l’ingresso della legge nella vita della chiesa è sorta in teologia la falsa nozione secondo cui il principio organizzatore della chiesa è il volere umano, mentre è, in realtà, lo Spirito. E’ lui il principio dell’organizzazione e dell’ordine nella chiesa. La chiesa ha avuto origine nello Spirito Santo e vive mediante lo Spirito Santo. I doni dello Spirito sono concessi per il servizio nella chiesa, per consolidare il corpo della chiesa. Uno di questi servizi è il governo della chiesa, che è molto importante e indispensabile per la vita ecclesiale e senza del quale la chiesa non può esistere empiricamente. Senza di esso, non può esservi servizio eucaristico e senza una assemblea eucaristica non vi può essere chiesa.
Ministero episcopale e popolo di Dio
Fin dal principio dell’esistenza storica della chiesa, il governo di essa è appartenuto ai vescovi, i quali hanno ricevuto i doni di grazia dello Spirito Santo mediante la consacrazione. S. Ignazio d’Antiochia insegna che dove è il vescovo, là vi è la chiesa e che dove è la chiesa, là vi è anche il vescovo. Non vi può essere chiesa senza vescovo, né vescovo senza chiesa. La chiesa include in se stessa il vescovo e questi appartiene ad essa. S. Ignazio d’Antiochia insegna anche che senza il vescovo nessuno può compiere qualcosa che si riferisca alla chiesa. Neanche un singolo rito può essere svolto senza di lui e non perché egli sia il solo a celebrare dei riti in forma indipendente, ma perché senza di lui non vi è chiesa. Nella chiesa il governo spetta al vescovo e non a tutto il popolo di Dio, il quale non ha ricevuto i doni ad esso attinenti, e senza i doni di grazia non ci può essere servizio nella chiesa.
Tuttavia, ciò non significa che un vescovo sia al di sopra del popolo di Dio e lo governi senza la sua partecipazione. Nella chiesa primitiva tutti gli atti ecclesiali - l’amministrazione dei sacramenti, l’ammissione dei catecumeni e dei penitenti, la scomunica, la nomina dei vescovi, ecc. - hanno sempre avuto luogo con la partecipazione del popolo. La testimonianza del popolo nella chiesa primitiva consisteva nell’esprimere consenso con quanto doveva svolgersi nella chiesa e nello accettare come volontà di Dio quanto si era compiuto in essa.
Il consenso e l’accettazione da parte del popolo non significava che il popolo esprimesse la propria opinione o il proprio desiderio in merito al compimento di un determinato atto ecclesiastico. Il governo della chiesa non era collegato con la volontà del popolo, né il popolo era vincolato dal volere del proprio vescovo. Né il volere del popolo, né quello del vescovo sono in sé condizione sufficiente per l’azione all’interno della chiesa. La chiesa vive e agisce non mediante la volontà. dell’uomo, bensì mediante il volere di Dio. Il consenso e l’accettazione significano la testimonianza della chiesa, attraverso la testimonianza del popolo, che i vescovi delle chiese locali agiscono e governano in conformità con il volere di Dio.
La storia della chiesa attesta il fatto che entrambi gli aspetti sono stati un fattore vivo ed efficace di vita ecclesiale, ma ci sono stati casi nella storia della chiesa in cui il popolo ha dato testimonianza del fatto che i vescovi non agivano conformemente al volere di Dio. Ad esempio, tutti i concili uniati - il concilio di Lione del 1274, il concilio di Firenze del 1438-1439 e il “sinodo” di Brest-Litovsk del 1596 - non sono stati accolti dal popolo di Dio, vale a dire non furono riconosciuti dalla chiesa. Come si è detto sopra, né il volere del vescovo, né il volere del popolo erano di per sé condizione sufficiente per l’azione all’interno della chiesa. La storia dei concili uniati mostra che una parte dell’episcopato era favorevole all’uniatismo, il quale, per sua essenza, non mirava a giungere all’autentica unità cristiana rotta nel 1054, ma serviva solo come strumento per soggiogare la chiesa orientale all’autorità del vescovo di Roma. Tuttavia, il popolo di Dio ha rifiutato di riconoscere l’unia. Ciò ha significato in linea di principio che ai concili uniati si è rivelato il volere dell’uomo e non il volere di Dio. Questa è la ragione per la quale la chiesa ha avuto ragione a rifiutare l’unia, in quanto contraddiceva la sua natura e la sua essenza.
I concili e il processo della recessione
Nella chiesa primitiva ogni forma di governo, proprio come ogni forma di vita, era aperta: tutto iniziava e finiva con un’assemblea ecclesiale. La chiesa primitiva ha dato una volta per tutte l’immagine dell’unico corpo della chiesa in cui tutti insieme e ciascuno separatamente vivono e agiscono non secondo il proprio volere, bensì secondo il volere di Dio. Il vescovo non governa a prescindere dal popolo sopra il quale è stato posto, ma insieme ad esso. Un’assemblea ecclesiastica di per sé non ha potere di rendere obbligatorio ed effettivo qualsiasi atto compiuto all’interno della chiesa. Il popolo di Dio non governa in modo arbitrario attraverso il proprio vescovo, né partecipa al governo del vescovo mediante i propri rappresentanti. Il popolo di Dio è governato da Dio stesso mediante il vescovo che egli ha posto per eseguire il suo volere. Perciò, sia nel rituale che nel governo della chiesa, un vescovo non può essere senza il popolo, né il popolo senza il vescovo.
Fin dagli inizi la chiesa è stata consapevole che un singolo apostolo, compreso lo stesso Pietro, per non dire di un vescovo, non ha l’autorità spirituale per risolvere da solo le questioni fondamentali della fede e della vita della chiesa che nascono nei corso della storia ecclesiastica. Tali questioni sono state discusse e risolte, con l’aiuto dello Spirito Santo, solo mediante la sapienza conciliare della chiesa cattolica. Se la questione riguardava la fede e la vita della chiesa nel suo complesso, veniva affrontata in un concilio ecumenico. Se non riguardava dogmi di fede, ma solo l’organizzazione ecclesiastica in una regione o una provincia, era risolta da un concilio locale.
Quando parliamo di sapienza conciliare o sobornost, abbiamo in mente non solo i vescovi, ma tutta la chiesa nella sua pienezza, vale a dire l’intero popolo di Dio. Un vescovo deve essere l’esponente della tradizione ecclesiale a vantaggio della sua chiesa locale, ma la storia ecclesiastica conosce casi di vescovi che non hanno espresso la vera tradizione ecclesiale nei concili.
Ciò che è importante non è in sé un concilio di vescovi ma un concilio che esprime una vera tradizione ecclesiale. La verità ecclesiale è conosciuta e testimoniata solo dalla chiesa. Solo essa pronuncia silenziosamente - e qualche volta in forma non silenziosa - i suoi “si” e “no” rispetto alla testimonianza di un concilio. Si pensi, ad esempio, al cosiddetto Brigantaggio di Efeso (449) al sinodo di Hiereia del 753, al concilio di Lione del 1274 e al concilio di Firenze del 1439 che non furono riconosciuti dalla chiesa. La chiesa ortodossa non ha riconosciuto il “sinodo” uniate di Brest-Litovsk del 1596.
Per quale ragione il “sinodo” di Brest-Litovsk del 1596 non è stato riconosciuto dalla chiesa ortodossa? Chiaramente, non perché ci fosse un’insufficiente numero di vescovi o i partecipanti fossero pochi - ad esso presenziò il metropolita Michal Rogoza, che sottoscrisse l’accordo di unione. Né ciò è avvenuto per il fatto che il “sinodo” uniate del 1596 fu dominato dalla gerarchia latina designata dal papa. La principale ragione di fondo per il non riconoscimento del concilio uniate di Brest-Litovsk consistette nel fatto che esso ruppe il legame con la tradizione ecclesiale della chiesa orientale e violò la natura e l’essenza della chiesa. Il concilio è stato respinto dal popolo di Dio, dalla cui accettazione esso dipendeva.
Non v’è concilio autentico senza approvazione della chiesa
La teologia ortodossa richiama l’attenzione sul fatto che un concilio - persino un concilio ecumenico - non è un organo esterno che proclama una verità infallibile, uno speciale organo ecclesiale creato a questo fine. Un simile presupposto può portare alla conclusione che prima dei concili e senza di essi la chiesa ha cessato di essere conciliare e infallibile. Del resto, la stessa idea di un organo esterno incaricato di proclamare la verità, lo pone al di sopra della chiesa. La verità ecclesiale è conosciuta e testimoniata solo dalla chiesa. Solo essa può testimoniare che una data assemblea di vescovi è un concilio che proclama la verità per conto della chiesa. Ma per rendere questa testimonianza la chiesa non ha e non può avere nessuna forma esterna. Nella chiesa cattolica romana, è il papa colui che è infallibile e la suprema autorità per quanto riguarda la verità. Ciò si applica anche al riconoscimento o non riconoscimento della validità di vari concili e delle loro decisioni. La chiesa primitiva non conobbe autorità esterne dotate di infallibilità. Un’assemblea ecclesiale, in quanto concilio che proclama la verità della chiesa, è riconosciuto o non è riconosciuto come tale. Ciò va accettato come un fatto storico. Essere riconosciuto dalla chiesa come concilio non basta perché un’assemblea ecclesiale si proclami concilio autentico. Tuttavia, ciò non significa che le decisioni di un concilio richiedano approvazione mediante un plebiscito generale e che senza di esso non siano valide. La chiesa non conosce tali plebisciti. E’ necessario, comunque, un po’ di tempo perché la voce di un concilio sia riconosciuta come la voce autentica della chiesa. E non ci sono, né possono esserci organi o strumenti esterni per testimoniare questa auto-attestazione interna della chiesa.
La questione dell’autorità dei concili è uno dei problemi più complicati. Comunque la risolviamo, una cosa resta indiscussa: le decisioni conciliari sono obbligatorie solo se esprimono la dottrina della chiesa. Tali decisioni non possono essere prese, senza la partecipazione della chiesa, vale a dire del popolo di Dio. Senza l’accettazione da parte della chiesa tali decisioni sono dei semplici theologoumena. Le decisioni conciliari possono essere riconosciute come la voce della chiesa solo dopo la loro accettazione da parte della chiesa. Questa dottrina è di per sé così indiscutibile che non ha bisogno di essere provata. Se la scartiamo, resteremo privi dell’unico criterio grazie al quale la coscienza ecclesiale distingue le vere decisioni conciliari da quelle false. La storia è piena di esempi di concili formalmente corretti che sono stati respinti dalla chiesa.