Il midrash afferma che, quando il Creatore manifestò l'intenzione di creare il mondo, c'era stata una opposizione tra alcuni angeli favorevoli al progetto e altri angeli che erano contrari. Per i due favorevoli l'uomo andava creato perché la vita dell'uomo, l'esistenza futura, non sarebbe stata in contraddizione con le virtù della generosità e della giustizia. Invece per i due angeli contrari non valeva la pena creare l'uomo che avrebbe fatto soltanto danni: l'angelo della verità e l'angelo della pace sostenevano la necessità di non creare l'uomo perché l'uomo è tutto menzogna. Se Dio vuole creare un uomo libero, la sua vita non coinciderà necessariamente con la libertà e quindi la ricerca della verità sarà una ricerca suscettibile di non coincidere con la vita. Meglio dunque non creare l'uomo per la tranquillità della vita, come pure è meglio per la tranquillità di Dio non creare l'uomo! Questa è la ragione, dice ancora il midrash, per cui l'uomo è bellicoso: se non coincide con se stesso, sarà scontento di se stesso e degli altri, ovvero sarà sempre in guerra.
Indubbiamente il midrash guarda molto lontano: mostra bene che l'essere umano è una sorta di equazione che non ammette soluzioni. Giunge persino a concludere che l'uomo non doveva essere creato! L'origine dell'essere umano si trova davanti ad una contraddizione fondamentale: non lo si può creare ma anche non lo si può non creare: non può essere creato perché si scontentano la pace e la verità, ma dall'altra parte, non facendolo si scontentano la giustizia e la generosità.
Come si è risolta una situazione del genere? Il Creatore a questo punto, assai infastidito da questa discussione, prende la verità e la getta a terra, come dice un versetto della Bibbia «Tu hai gettato la verità a terra e la verità è andata in frantumi ». E poiché un altro versetto nei Salmi dice: «La verità germoglierà», la prospettiva diventa quella di una storia umana che è assimilata ad un processo di maturazione. E se è stato necessario frantumare la verità affinché l'essere umano esistesse, non c'è più una verità assoluta, ma c'è almeno promessa che, in seimila anni o seicento mila o sei milioni,la verità fInirà per sbocciare e per germogliare dalla terra, dal basso.
Questa è la prima parte di un midrash che mostra la necessità di un atto di forza di Dio contro i suoi stessi criteri. Certamente, la verità e la pace, la generosità e la giustizia ne sono semplici angeli, ma tutto questo, se così si può dire, passa all'interno di Dio stesso. Dio è obbligato a sacrificare qualcosa di sé affInché l'essere umano possa esistere: «Tu hai gettato la verità a terra».
Gli angeli contrari sono più realisti del Re in nome della verità assoluta: in nome della pace di Dio preferiscono che l’uomo non sia creato. Dio però accetta la scommessa, preferendo l'uomo menzognero, bellicoso, fallibile ed imperfetto agli angeli perfetti. Ecco perché il midrash conclude dicendo: mentre gli angeli sono intenti a discutere - alcuni dicono si; altri dicono no -, Dio nel frattempo stava creando l'uomo. Dio dice: mentre stavate discutendo tra di voi, la cosa è già stata fatta! Come se Dio prendesse in contropiede i propri assoluti.
L'essere umano è inserito in una dimensione impossibile: l'amore e la giustizia riguardano essenzialmente il modo di concepire e praticare le relazioni umane. Ma quali rapporti e quali contraddizioni tra le due! Poiché ha un senso parlare dell'amore della giustizia, ma non ha senso l'inverso: la giustizia dell'amore. L'amore è, per esperienza e per definizione, contro la giustizia, perché noi quando amiamo stabiliamo un privilegio: l'essere amato è qualcuno che per noi acquista una importanza senza pari rispetto ad ogni altro essere. Non solo, chi ama senza essere amato soffre di una ferita immeritata e di una punizione senza colpa.
Dunque, tra amore e giustizia c'è un rapporto tesissimo: noi rifiutiamo il razzismo per principio, ma l'amore a suo modo è razzista, perché per una qualche ragione includiamo qualcuno nella sfera della nostra intimità ed escludiamo tutti gli altri. Quindi c'è una esclusione che ammettiamo nell'ambito dell'amore e un'altra che rifiutiamo nell'ambito della giustizia. La quale, per la tradizione ebraica, non è solo qualcosa che serve a correggere l'ostilità, l'odio, il conflitto. La giustizia serve anche a correggere l'amore e chi proclama che l'amore è il superamento della giustizia vede in questa solo la correzione del male e non anche la correzione del bene.
Il Cantico dei cantici, in una formula straordinaria (cap. 8, versetto 6), dice che l'amore è forte come la morte e le sue scintille di fuoco sono di fiamma ardente perché l'amore è estremista, mentre la giustizia è mediatrice. L'amore è esclusivo, mentre la giustizia è inclusiva. L'amore è intemperante, mentre la qualità della giustizia è la temperanza. L'amore è concentrato, mentre la qualità della giustizia è la sua diffusione. L'amore è sbilanciato, mentre la giustizia ha sempre in mano una bilancia. L'amore è cieco perché arbitrario e singolare, mentre la giustizia, che pure è cieca, si caratterizza tuttavia per non essere arbitraria né singolare. Anche nella iconografia tradizionale amore e giustizia sono entrambi bendati, ma la loro benda ha significati esattamente opposti.
Detto questo a mo' di premessa, va ricordato dire che il movente principale della cosiddetta, famigerata, elezione di Israele è l'amore, perché il Deuteronomio al cap. 10, nei vv. 14 e 15, dice: «Al Signore tuo Dio appartengono i cieli dei cieli,la terra e tutto quanto vive in essa, ma il Signore predilesse soltanto i tuoi padri, li amò e dopo di loro ha scelto tra tutti la loro discendenza, cioè voi oggi». Occorre fare attenzione: perché, quando il testo usa la parola rak che nella tradizione rabbinica significa «ma», è come se questo «ma» dividesse due versetti, come se la prima affermazione universalistica onnicomprensiva fosse in contrasto con la seconda più particolaristica, che infatti sancisce una predilezione singolare Un'interpretazione ci dice proprio: “Poiché sono il Padrone del mondo, posso permettermi di scegliere a mia volontà” Ma sia l'una che l'altra interpretazione convergono nel sancire una predilezione libera ed arbitraria: l'«ingiustizia» dell’amore.
Questo amore però chiede immediatamente di essere corretto dalla giustizia. È come se l'arbitrio del privilegio chiedesse di essere sanato da un merito che giustifichi questa predilezione. Il testo del Deuteronomio infatti prosegue nei ,vv.16-17: «Circoncidete dunque il vostro cuore ostinato e non indurite più la vostra nuca; perché il Signore vostro Dio è il Dio degli dèi, il Signore dei Signori, il Dio grande, forte terribile, che non usa parzialità e non accetta regali, che rende giustizia all' orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito». È come se Dio ci dicesse: io vi amo, vi ho scelto in modo arbitrario, ma voi dovete sanare l’ingiustizia di questo privilegio giustificandolo con una contropartita: vostro merito. Circoncidete dunque il vostro cuore, perché dovete rispondere al mio amore arbitrario, alla mia giustizia non arbitraria. A voi tocca di colmare questa contraddizione.
È’ come se la giustizia dovesse risanare l'arbitrio dell'amore, mentre l'amore dovesse risanare l'obiettività livellatrice della giustizia. Bisogna rispondere alla giustizia con l'amore, cioè Dio dice: per amore accetterete i miei rigori e castighi e al mio amore risponderete con la vostra giustIzIa rendendo all'orfano, alla vedova, allo straniero quanto ad essi è dovuto.
A questo punto comprendiamo meglio la famosa questione del popolo eletto, una terminologia che non corrisponde esattamente alla parola usata dalla Torà: segullà significa piuttosto «popolo tesoro» e, come ogni tesoro, si depaupera se non è investito. Allora questo dono unilaterale, questa predilezione è subito trasformata in un valore di scambio ad opera della giustizia, come a dire: vi dono la mia predilezione, ma voi dovete ricompensarla con la vostra obbedienza. Ecco quindi il passaggio dal dono al contratto: nel dono c'è il movente, l'innesco che crea le condizioni dello scambio, cioè del patto, come succede per le nozze. È chiaro che ogni matrimonio presuppone l'amore tra le persone grazie al dono del fidanzamento, ma poi trasferisce l'amore stesso sul terreno del contratto delle nozze, a cui presiedono i criteri pubblici della giustizia, della realtà e della formalità giuridica. L'amore solleva il problema della giustizia e la giustizia quello dell'amore: l'uno fa insorgere l'altra, l'uno tende a far tacere l'altra: se io amo, non sarò giusto e se sarò giusto è perché devo mettere tra parentesi l'amore. La coincidenza tra amore e giustizia appartiene all'utopia messianica ed è la tentazione di ogni messianismo realizzato nel quale l'amore assume e sostituisce la giustizia, cioè l'amore che dispone al perdono al punto di essere connivente con il male.
Tuttavia, c'è anche una giustizia così innamorata di se stessa, così narcisista, da distruggere il mondo. In tutta la tradizione rabbinica esiste una correzione della giustizia da parte dell'amore e si chiama rachamim, la misericordia che deve sempre mitigare la durezza del diritto. Ed esiste anche una correzione dell'amore da parte della giustizia. Probabilmente questo passaggio, questo ponte tra la morale e la giustizia, è ciò che noi chiamiamo «etica», con una faccia rivolta verso l'amore e un'altra verso la giustizia. Prendiamo la storia a tutti molto nota, del giudizio del Re Salomone che troviamo nel Primo Libro dei Re) al cap. 3 vv. 16-28, ove si racconta di due prostitute che si addormentano con il loro neonato in braccio. Uno di questi due neonati muore durante la notte e una di queste due madri scambia il bambino vivo e mette nelle, mani dell'altra donna il bambino morto. Al risveglio la madre: del bambino rimasto vivo si accorge di questa sottrazione , così finiscono entrambe davanti al re Salomone per il giudizio. Il testo narra che davanti al re una donna dice: “E’ questo mio figlio quello vivo, mentre il tuo è quello morto”. L'altra dice: «No, tuo figlio è quello morto e quello vivo è mio». Allora il re chiese che gli fosse portata una spada e poi disse: «Dividete in due parti il bambino rimasto vivo e datene una metà all'una e l'altra metà all'altra». A questo punto il testo dice: «La donna madre del bambino vivo si sentì commuovere le viscere per il suo figliolo». Qui il testo biblico per indicare le viscere materne usa proprio quella parola che applichiamo alla misericordia di Dio: «nichmern rachamea», da cui viene appunto la parola rachamim. La donna disse: «Ti prego signore: sia dato a lei il bambino vivo ma non l'uccidete Invece l'altra diceva: «Non deve essere né mio né tuo, dividete il bambino a metà». Il re Salomone sentenziò dicendo «Sia dato il bambino vivo alla prima donna, perché è lei sua madre».
Il testo conclude: «Tutto Israele venne a conoscenza della sentenza pronunciata dal re ed ebbero timore del re, perchè,: videro che c'era in lui la sapienza, la saggezza di Dio per rendere giustizia». Questa storia ci dice che qui sta la verità, su cui si basa il giusto giudizio, la giustizia piena di saggezza: di Dio, che è uno dei requisiti attribuiti al Messia in Isaia 11: egli dovrà giudicare secondo la saggezza di Dio.
Questa verità è ricavata giocando sul contrasto tra l'amore e la giustizia, tra l'amore e una caricatura formale della giustizia. In primo luogo, c'è un gesto che mima la giustizia intesa come equità: si alza la spada per dividere un bambino, oggetto della contesa, in parti uguali. Ma è l'amore della vera madre·che si rivela proprio invocando l'ingiustizia. Infatti la vera madre rinuncia a un suo diritto: «Sia dato il bambino a chi non ne ha il diritto, purché viva». La vera madre dunque sta invocando l'ingiustizia, mentre è la falsa madre che invoca giustizia, diciamo, «tra virgolette»: sia diviso equamente il bambino. Sullo sfondo abbiamo il criterio egualitario tra la madre del bambino morto e quella del bambino ,.vivo: entrambe saranno alla pari l'una e l'altra senza più un figlio.
Attraverso una via tortuosa l'opposizione tra amore e giustizia viene superata, ma questo solo perché l'amore che invoca l'ingiustizia - «sia dato il bambino a colei che non è sua madre» - rivela la verità su cui si fonda il giusto giudizio, secondo Rabbi Shimon ben Gamaliel: «Su tre cose si regge il mondo: verità, giudizio / giustizia e pace». Le tre cose in realtà sono una sola, perché, se il giudizio si basa sulla verità, ne segue la pace.
* Rabbino della Comunità israelitica di Roma. irettore del Dipartimento Educazione e Cultura dell’Unione Comunità Ebraiche Italiane(UCEI).
Testo trascritto dalla registrazione magnetica, ma non rivisto dall’autore.