di Giuseppe Caffulli
Una Chiesa antica, orante e povera, inserita in un Paese a stragrande maggioranza musulmana. Una realtà spirituale tuttora vitale che si fonda sulla straordinaria esperienza del monachesimo del deserto.
La Chiesa di Marco Le origini della Chiesa copta (il termine copto significa egiziano antico e distingue oggi i cristiani egiziani) sono fatte risalire alla predicazione dell'evangelista Marco, che morì martire ad Alessandria nel 63 d.c. Nei primi quattro secoli la Chiesa di Alessandria fu importante centrodi diffusione del cristianesimo e di elaborazione teologica, insieme ai monasteri del deserto. Va ricordata la grande scuola catechetica alessandrina, una specie di "università" sviluppatasi sotto la guida di grandi maestri come Origene, Clemente, Atanasio, Cirillo e Dionisio. Il ruolo-guida di Alessandria d'Egitto termina con l'invasione musulmana, favorita dalla divisione presente tra i cristiani copti e bizantini a causa della questione monofisita scoppiata dopo il Concilio di Calcedonia (451). Nel 641 il patriarca di Alessandria accolse gli arabi musulmani pensando che potessero costituire la salvezza dell'Egitto e la liberazione da Bisanzio. Si aprì in realtà una lunga stagione di persecuzioni. Oggi la Chiesa copta conta, secondo stime attendibili, almeno 15 milioni di fedeli su 68 milioni di egiziani. Guida spirituale, dal 1971, è Shenouda III, che risiede presso la cattedrale di San Marco, dove si trova anche il più importante seminario teologico. Resta fortissima l'impronta del monachesimo, sia maschile che femminile. Si contano una ventina di monasteri maschili con circa 600 monaci e sei conventi femminili, con 300 monache. La più importante concentrazione di monasteri si trova nel Wadi Natrun, un centinaio di chilometri a nord-ovest del Cairo. A causa della diaspora cristiana, esistono oggi diocesi copte anche in Europa, Australia e Americhe (sei solamente negli Stati Uniti). Shenouda III e Giovanni Paolo II si sono incontrati in terra d'Egitto il 25 febbraio 2000, anno giubilare. Una visita che ha avuto momenti di grande intensità e ha sottolineato il buono stato delle relazioni ecumeniche tra le due Chiese sorelle e la volontà di camminare insieme sul sentiero dell'unità. Già nel 1973 il Papa copto Shenouda III aveva firmato con l'allora pontefice Paolo VI una dichiarazione cristologica comune. |
Chiuso come in uno scrigno, tra le mura dell'antica fortezza di Babilonia sul Nilo, la più antica costruzione della città, si trova il Cairo copto (o Cairo Vecchio), la roccaforte e il baluardo, anche ideale, della cristianità egiziana. Nel dedalo di stradine che s'intrecciano e quasi si rincorrono in questa vera e propria città nella città, sorgono il convento di San Sergio, la chiesa di Santa Barbara; la chiesa di San Michele e la chiesa di Al - Moallaqa, la "sospesa", costruita sopra le mura della fortezza e dedicata alla Vergine Maria. Tutti monumenti antichissimi edificati tra il III e il V secolo dopo Cristo. Qui nel Cairo Vecchio, come nella cattedrale di San Marco (la sede di Shenouda III, il papa della Chiesa copta), o nei monasteri sparsi nel deserto, pulsa anche oggi una fede antica, che ha saputo conservarsi nei secoli superando prove e persecuzioni. Una Chiesa che conserva un forte legame spirituale con i suoi padri fondatori, Antonio e Pacomio, che proprio vivendo il deserto hanno saputo insegnare la contemplazione e la preghiera a generazioni di cristiani: Fino ad oggi. E allora, quale contesto migliore per capire cosa significhi stare da cristiani nel deserto, inteso come luogo fisico, ma anche come dimensione esistenziale e spirituale.
"Non vorrei sembrare subito politicamente scorretto… Ma noi oggi, come Chiesa occidentale, siamo nel deserto, non certo i copti. Ed è bene che ci si rimanga". Padre Giovanni Paolo Tasini, monaco della Piccola famiglia dell'Annunziata, la comunità fondata sui colli bolognesi da don Giuseppe Dossetti (presente oggi anche in Terrasanta e attiva nel campo del dialogo ecumenico e interreligioso), non è certo un uomo-contro, uno di quelli che si piccano di mettere in luce solo gli aspetti negativi. Eppure se gli si chiede di ragionare sulla Chiesa copta, che ha avuto modo di conoscere e di apprezzare durante gli studi di arabo al Cairo e di frequentare con visite periodiche non si esime dall'usare il paradosso. "Prima di cercare di capire cosa ci può dire la tradizione copta, dobbiamo considerare la nostra situazione in Occidente. Siamo noi a dover entrare nel deserto. Viviamo la fine di un'epoca, la fine - si dice - della cristianità. Intendendo con questo la dissoluzione della coincidenza tra società e Chiesa. Anche se normalmente la Chiesa, più che interrogarsi su questa nuova dimensione storica, cerca di recuperare le posizioni precedenti. Ecco allora che si parla di nuova evangelizzazione e si moltiplicano gli sforzi per introdurre anche nelle carte politiche i riferimenti alla cultura cristiana. Tutto bene: ma da rievangelizzare sono seminai gli europei, non l'Europa. Ci dobbiamo rendere conto che la società cristiana appartiene ad un periodo passato, irrecuperabile. Oggi i credenti in Gesù sono e saranno sempre più una minoranza. Il nostro deserto è questo. Se avremo la capacità e il coraggio di tentare una diagnosi della nostra situazione, allora l'esperienza della Chiesa copta ci potrà dire molte cose".
Provi a spiegare meglio…
La nostra Chiesa ha bisogno di ripensare al suo modo di essere presente nel mondo, e il suo modo di pensare questa presenza. Il nostro linguaggio, per esempio, è ancora da regime di cristianità. La nostra Chiesa ha bisogno di riscoprire la sua natura profonda che è legata all'essere comunità attorno al Messia crocifisso. Una realtà tutto sommato marginale. L'idea della Chiesa legata all'impero va finalmente rivista e mandata in soffitta. E poi c'è un altro fattore: la vera natura della Chiesa è anti-identitaria. Gesù non ha pensato affatto di fondare un'istituzione storico-religiosa accanto o tantomeno in sostituzione ad Israele come nuovo popolo di Dio: L'esistenza della Chiesa si dà solo sulla base della novità escatologica portata da Gesù che consiste nel rinnovare l'uomo e che si manifesta anche come unione dei diversi: giudei e gentili, schiavi e liberi, greci e sciti. Non la sostituzione delle identità, ma l'unità nella persona del Cristo. Per questo la Chiesa non può coincidere con nessuno popolo e con nessuna cultura.
Ma cosa ha a che fare questa necessaria diagnosi con il cristianesimo copto?
Anzitutto la Chiesa copta non è mai stata al potere. Anche quando il mondo era un mondo cristiano ed essa era la Chiesa guida, il potere era esercitato dai greco bizantini. E non è un caso che l'Egitto abbia aperto le porte agli invasori musulmani in chiave anti-bizantina. La Chiesa copia è ancora oggi una Chiesa monastica. Il monachesimo è stato un fatto enorme per l'Egitto; anche dal punto di vista sociale e culturale. Nei primi secoli del cristianesimo ci si recava in Egitto per conoscere e cercare di trasferire questo modello spirituale anche altrove. Anche per questioni storiche, il monachesimo ha contribuito a conservare nei secoli un modello di Chiesa non inserita nell'impero. Una caratteristica che si è mantenuta anche oggi. I giovani che desiderano fare una scelta di vita cristiana, hanno come via privilegiata quella del monastero. Il rapporto tra monachesimo e popolo è strettissimo tanto che possiamo parlare di una Chiesa dalla spiritualità monastica. Si tratta di un rapporto strutturale, perché i sacerdoti delle parrocchie sono tutti sposati: I vescovi, invece, sono scelti nei monasteri. Quindi i responsabili della pastorale vengono tutti da una profonda esperienza di vita contemplativa e di preghiera. Non dico che questo eviti problemi e metta al riparo da crisi interne, ma costituisce indubbiamente un segno forte di non inserimento nel mondo. Non voglio tratteggiare un quadro solo idilliaco, ma la mia esperienza è questa: una spiritualità ancora nella linea della grande tradizione dei padri del deserto. Anche la gente comune vive in maniera straordinaria questo legame con la dimensione monastica. Nei monasteri si trascorrono giornate di ascolto e di spiritualità. E tuttora i conventi del deserto sono pieni di giovani che chiedono d'intraprendere la vita religiosa. Insomma, si tratta di una Chiesa che ha caratteristiche differenti dalla nostra. È una realtà molto forte teologicamente e spiritualmente.
E cosa possiamo ricavare da questo confronto?
Vedo in tutto questo tesoro di tradizione delle interessanti indicazioni anche per la nostra esperienza occidentale. La necessità di un monachesimo che alimenti intensamente l'esperienza ecclesiale, la questione della scelta dei pastori, il carisma e il ruolo dei laici. Ma soprattutto il recupero di una dimensione di Chiesa orante. Vivere la Settimana santa al Cairo vale più di mille discorsi. In quell'occasione, come in molte altre, si può toccare con mano come tutta la vita delle comunità ruoti attorno all'adorazione del Mistero e alla preghiera liturgica. Il Venerdì santo tutto si ferma e il popolo cristiano si raduna nella memoria della passione per tutto il giorno e per tutta la lotte. Questo mi stimola sempre a fare un paragone con la nostra liturgia, diventata forse troppo secca e quasi frettolosa.
Il contesto nel quale vive la Chiesa copta, cioè il suo inserimento in un Paese a stragrande maggioranza musulmana, non è però dei più favorevoli.
Proprio questa essenzialità, questo suo richiamarsi alle origini, le permette di tenere testa all'islam anche dal punto di vista spirituale. Nell'islam si digiuna. Anche nella Chiesa copta il digiuno e la penitenza non sono uno scherzo. E poi la dimensione della preghiera… C'è una sorta di competizione sul piano ascetico. Attorno all'Eucarestia e alla liturgia questa Chiesa trova la sua verità, per quanto sia vivace anche da un punto di vista sociale e caritativo. Un cristiano copto sa bene in cosa consiste la sua fede, anche perché il confronto costante con l'islam non ammette deroghe: Gesù è vero uomo e vero Dio. Il Mistero cioè dell'unico Dio che in Gesù si è comunicato al mondo è l'essenza della sua fede. È un aspetto che mi ha sempre colpito e che ho toccato con mano incontrando i fedeli copti e visitando i monasteri: i cristiani, come i viandanti che percorrono il deserto, conoscono bene le risorse spirituali alle quali richiamarsi: la conoscenza della persona di Cristo e la dimensione della preghiera. Ed è per questo, credo, che la cristianità copta ha saputo sfidare i secoli resistendo validamente all'impatto dell'islam.
(da Mondo e Missione, giugno/luglio 2003)