"Oggi" per un cattolico entusiasta, questo appello significa: "Una cosa sola e subito! Basta con le divisioni, Roma sia lo strumento dell'unità!" Per altri: "Siamo già una cosa sola, quando rispettiamo gli uni gli altri, le piccole differenze nelle tradizioni non hanno una grande importanza davanti all'unità essenziale nella fede in Cristo". Riconosciamo in questa posizione la voce protestante "D'accordo - replicherebbe un bravo ortodosso-, ma per essere una cosa sola dobbiamo avere una fede sola, quella giusta, quella apostolica del primo millennio, senza i vostri aggiornamenti, le innovazioni e i compromessi con il mondo dei laici e dei non credenti".
A questi tre punti di vista corrispondono altrettante ecclesiologie: la cattolica, la protestante e l'ortodossa. La prima dice che la Chiesa di Cristo è presente pienamente nella Chiesa di Roma, fondata su Pietro e sul collegio degli apostoli e tutte le altre chiese hanno la parte maggiore (il caso ortodosso) o minore (il caso protestante) o solo le vestigia (le altre comunità religiose) della pienezza dei suoi doni. L'ecclesiologia protestante (ce ne sono tante, ma io prendo in esame un modello ecclesiologico di stampo ecumenico) afferma che la Chiesa di Cristo, quella vera, è in sostanza invisibile, composta dalla comunità diverse che proclamano il Vangelo, perciò l'unità formale di questa Chiesa non è necessaria. Desiderabile è invece la comunione eucaristica come segno del riconoscimento reciproco.
Per l'ecclesiologia ortodossa, a dire la verità, l'ecumenismo è una cosa teologicamente molto più difficile. La Chiesa visibile per gli ortodossi è l'attualizzazione di quella invisibile, la rivelazione del "cielo sulla terra". E il compito della teologia del dialogo dovrebbe consistere nella testimonianza di questa rivelazione.
"Testimonianza" è una parola chiave. La partecipazione degli ortodossi nel Consiglio mondiale delle Chiese, ad esempio, e nelle riunioni ecumeniche può essere giustificata solo come conferma della verità della fede ortodossa davanti al mondo non-ortodosso.
Questa giustificazione, però, non funziona sempre al meglio. Gli ortodossi si chiedono spesso: perché dobbiamo discutere con tutte queste comunità problemi che non sono i nostri (sacerdozio femminile, lingua inclusiva, diritti delle minoranze sessuali)? Perché trattare questioni a noi estranee, partecipare a preghiere che non hanno niente in comune con la nostra tradizione? Insomma, perché siamo qui? "Siamo qui solo per testimoniare la verità della nostra fede", ripetono i partecipanti ortodossi (non confondiamo, però, gli ecumenisti "per servizio" con quelli "per cuore" che di solito non sono invitati alle riunioni ufficiali). "Quante eresie avete sconfitto con la vostra testimonianza, quante persone avete fatto tornare all'ortodossia con i vostri compromessi e preghiere con gli eretici (peraltro proibite da uno dei Consigli ecumenici)?", chiedono gli antiecumenisti con un po' di malizia e una punta di disprezzo. "La vostra "teoria della testimonianza" non è una dottrina, ma solo una scusa pudica per un'attività che non ha trovato finora nessuna giustificazione valida", Detto questo, sembra che l'ortodossia sia un po' fuori dal mondo contemporaneo che si fonda sul dialogo. In pratica, non è cosi. Ma anche tale posizione ha i suoi vantaggi e svantaggi. Divisa nelle Chiese locali, che si conoscono poco tra loro, lontana dal mondo moderno, sofferente delle vecchie malattie del cesaropapismo, del filetismo (il principio nazionale o etnico nell'organizzazione della Chiesa - ndr), del ritualismo, l'ortodossia si sente comunque forte e sicurissima della sua fede. La sua presenza cresce, prima di tutto in Occidente. La sua fede offre all'uomo contemporaneo la possibilità di una vita spirituale così profonda ed intensa, come non si può trovare quasi da nessuna parte.
L’ortodossia non ha mai conosciuto crisi liturgiche o dottrinali. E non può lamentarsi per mancanza di vocazioni (anche monastiche). Della "crisi d'identità" del sacerdozio, gli ortodossi non hanno nemmeno sentito parlare. L'ordinazione femminile non esiste né come problema, né come tentazione; la bioetica non ha bisogna di grossi manuali, perché le sue sfide sono già state respinte secoli fa. Con tutta la sua ricchezza spirituale ed artistica (dell'icona, del canto, della preghiera, della contemplazione, del pensiero) la Chiesa ortodossa non ha nessun motivo di aver paura del proselitismo straniero. Per questa ragione sono sicuro che il timore verso il proselitismo, specie quello cattolico, sia esagerato e tradisca piuttosto la mancanza di esperienza nel rapporto con il mondo moderno.
Un noto teologo italiano sostiene che la presenza cattolica in Russia potrebbe aiutare "i fratelli ortodossi ad affrontare le sfide della secolarizzazione". Il fatto è che la Chiesa cattolica viene vista da quella ortodossa come la Chiesa già "secolarizzata", non certo come un buon esempio.
In questi ultimi tempi di conflitto più o meno aperto (l'autore si riferisce al documento contro il proselitismo cattolico reso pubblico nel giugno 2002 dal patriarcato di Mosca - cfr Asia News giugno-luglio 2002 - ndr), gli ortodossi parlano con insistenza (e non senza esagerare) dei seminari chiusi, dei conventi abbandonati e delle chiese senza preti in Occidente, Da parte cattolica si potrebbe ribattere così: dai vostri 90 milioni di battezzati quanti frequentano la chiesa ogni domenica? E quanti vivono veramente secondo i precetti della vostra vita spirituale? E’ uno scambio di colpi inutile. Parliamo spesso dello "scambio dei doni" (io parlerei piuttosto della condivisione dei doni), ma per arrivare all'unità occorre affrontare il tema anche dello scambio delle ferite, delle mancanze, dei bisogni.
L'unità si costruisce nella condivisione totale: "Portate i pesi gli uni degli altri, così adempierete la legge di Cristo" (Gal, 6,2). Per aver bisogno di un altro, però, occorre rendersi conto che manca qualche cosa che invece possiede il mio prossimo; e che l'altro, se gliela chiedo, può condividerla con me.
Per ora, entrambe le Chiese, cattolica e ortodossa, si sentono ricche e potenti (almeno spiritualmente) e sono disponibili ad aiutare con il loro bagaglio, ma non avvertono alcuna necessità di ricevere l'aiuto di nessuno. Il dialogo non c'è perché tutte e due le Chiese scontano un complesso di superiorità: i cattolici vedono gli ortodossi come retrogradi che hanno perso il treno della modernità e sono assolutamente ininfluenti a livello sociale Gli ortodossi (quelli tradizionali) vedono il cattolicesimo come unità artificiale delle Chiese locali legate in modo meccanico a Roma. I cattolici - a loro modo di vedere - stanno perdendo per strada la maggior parte del bagaglio della Chiesa apostolica e patristica (le regole del digiuno, la venerazione delle reliquie, la preparazione ascetica e spirituale alla comunione), e la loro fede è dalla percezione troppo sentimentale della natura esclusivamente umana di Gesù. Inoltre, hanno ridotto al minimo la vita liturgica, sostituito le preghiere antiche dei santi Padri con le loro improvvisazioni, lasciando cadere il senso del mistero e del sacro della fede. E così via.
Paradossalmente - e in modo ipocrita - quando si presentano per il cosiddetto dialogo, le Chiese si vestono dei paramenti più solenni che nascondono tutte le piaghe e parlano fra di loro dalle ricchezze di ciascuno.
In fin dei conti, in che cosa consiste questo dialogo? Ecco la posizione che a volte si registra da parte cattolica: noi siamo qui per insegnarvi certe cose, perché la nostra fede e l'esperienza sono universali. Replicano gli ortodossi: noi abbiamo costruito la nostra civiltà storica e ciò che è buono per voi, per noi non lo è; insomma, lasciateci in pace. Se esiste, seppure in forma "simbolica" il dibattito puramente teologico, lo scambio delle due spiritualità in Cristo non è ancora sviluppato. Solo questo dialogo (insieme con quello dogmatico), però, può condurre alla comunione delle Chiese.
Per trovare almeno un sentiero all'unità piena, bisogna dire la verità, ma dirla con la carità che "non si vanta: non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse..." (1 Cor 13,5-6). Negli ultimi tempi anche Giovanni Paolo II ha cominciato a parlare del dialogo della verità ed alcuni di noi hanno percepito quest'espressione quasi come semiconfessione del fallimento del dialogo ecumenico. Secondo me, si tratta piuttosto di una correzione; nessuna Chiesa può partecipare al dialogo solo con abbracci e sorrisi, neanche con le preghiere e le dichiarazioni comuni, nascondendo la sua fede nella propria verità.
In questo caso la Dominus Iesus. che ha provocato tante delusioni e amarezze nel campo degli ecumenisti cattolici, può avere un ruolo positivo proprio per la sua chiarezza ed onestà. Affermare esplicitamente che solo Gesù Cristo è unico e universale mediatore della salvezza fa bene al dialogo perché la Chiesa ortodossa non ha mai detto il contrario. Proclamare che la Chiesa cattolica è la vera Chiesa di Cristo può anche servire, a modo suo, alla ricerca della comunione, perché la Chiesa ortodossa di se stessa non ha mai detto diversamente. Non mettiamo in ombra queste cose. Ciò che sembra il maggior ostacolo all'unità può diventare un giorno il suo inizio o, diciamo, il lievito della comunione. Se siamo sicuri che la verità sia nella nostra Chiesa, perché non cercare l'immagine della stessa verità in un'altra Chiesa? Perché non ci si può riconoscere l'un l'altro presso la sorgente stessa della fede cristiana, nel volto di Cristo, nella nostra vita in Cristo che è "lo stesso, ieri, oggi e sempre" (Eb 13,8)?
Ricominciamo, ma dalla carità. Oggi non si può riaprire il dialogo ecumenico solo a livello istituzionale, senza la sua radice reale ed esistenziale, senza la vera sete dell'unità. Solo se animati da questa sete che si abbevera anche dello scambio delle testimonianze di fede in Cristo, potremo arrivare un giorno alla vera comunione "bevendo dalla sorgente comune di quell'acqua che zampilla per la vita eterna" (Gv 4, 14).