Dio creò il mondo come opera d’arte. "Dio vide quanto aveva fatto, ed era cosa molto buona" (Gen.1, 31) – così finisce ogni giorno nella storia della creazione del cielo e della terra, della luce e delle acque, degli alberi e degli animali. La patria dell’uomo e della donna, creati all’ultimo giorno, fu il giardino d’Eden, con tutta la sua bontà e bellezza, di cui la famiglia umana non ha perso completamente la memoria anche quando, dopo la caduta, le porte del giardino furono chiuse per sempre dietro di loro. Perciò il primo principio dell’arte che non cerca solo il piacere dell’espressione individualistico del nostro "io", è il ritorno al mondo buono, ma buono nel senso biblico, vuol dire, bello, creato da Dio. L’arte ecclesiale è quella che non soltanto porta in sé la memoria nostalgica "dell’originale del mondo", ma anche ha la coscienza chiara della sua nostalgia.
Un altro principio della stessa arte è il mistero della Parola che si è fatta carne. Già nelle prime generazioni dei discepoli di Cristo nacque un’idea o un’intuizione, che per la prima volta troviamo nella forma esplicita da san Giustino, martire e filosofo (II sec.) Tutta la famiglia umana, secondo questa visione, partecipa all’Incarnazione perché ogni uomo ha una particella della Parola o il raggio del Logos dentro di sé. Troviamo quest’intuizione dopo il suo sviluppo nella teologia patristica, soprattutto nella "liturgia cosmica" di San Massimo il Confessore che parla dei logoi delle cose che celebrano tutte insieme il Logos divino che è diventato Uomo. Così si può definire il secondo principio dell’arte ecclesiale: la celebrazione del mondo in Cristo o piuttosto la riscoperta del Cristo nel mondo creato in e per Lui perché "tutto è stato creato per mezzo di Lui" (Gv.1,3).
Questa celebrazione, però, ha il suo scopo, la sua indicazione non verso il passato, come esso non sia glorioso e degno della memoria sempre viva, ma verso il futuro escatologico, verso questo incontro imminente e definitivo con Dio nel "mondo che verrà". In slavo ecclesiastico gli ultimi due articoli del Credo dicono così. "Spero la risurrezione dei morti e il secolo venturo". Anche più che "spero", molto di più che "attendo", metto tutto il mio cuore nella speranza. Sento con tutto il mio essere l’avvicinamento del Regno. "Convertivi, perché il Regno dei cieli è vicino", dice Gesù (Mt.4,17) e questo annuncio può suonare al nostro udito come il terzo principio dell’arte ecclesiale: la testimonianza della conversione, vale a dire, del profondo cambiamento del nostro essere al soglio del Regno di Dio, già presente fra di noi dal momento della Trasfigurazione sul monte Tabor, spalancato nella luce della Risurrezione.
Da questi tre principi (esposti qui in modo troppo generale e per forza schematico): la memoria sacra della creazione, la ricapitolazione del creato nella Parola e la trasfigurazione del creato nella luce escatologica del mondo che verrà, cominciamo la nostra riflessione sull’arte nella Chiesa ortodossa. Ma questi tre possono essere ridotti a un solo principio: alla visione e alla raffigurazione artistica della nascosta santità del mondo e della sua creazione prediletta: l’uomo.
II. L’arte e la santità.
Tutto ciò che è venuto dalle mani di Dio è santo e bello per origine e il cammino dell’uomo, se facciamo il bilancio dell’antropologia ortodossa in una riga, è il ritorno a questa santità e bellezza iniziale, persa dopo la caduta. Il ritorno alla natura umana si fa per Cristo, in Cristo e con Cristo che vive nella Sua Chiesa ed accompagna l’uomo alla comunione con Lui e alla trasfigurazione in Lui. Questo punto lo dobbiamo sottolineare; per l’Ortodossia, non è l’uomo com’è, nella sua condizione empirica, macchiata dal peccato, un vero uomo, ma solo colui che fu concepito e plasmato nell’amore di Dio. In altre parole, la vera natura umana è l’icona dell’uomo, la sua somiglianza con Dio che va ricercata, restituita e da manifestata.
La ricerca spirituale di questa icona prende anzitutto un carattere l i t u r g i c o, non solo in senso stretto e rituale, della celebrazione in tempio, ma celebrazione nella vita come culto permanente dell’uomo davanti al Dio Vivente. Un vero uomo è un santo che vive nella preghiera, talvolta di una preghiera insistente ed ininterrotta, secondo la tradizione degli eremiti e dei solitari; quasi un uomo come preghiera.
La sua preghiera è prima di tutto p e n i t e n z i a l e, essa si esprime nel pentimento, o nella metanoia, nel cambiamento della mente, il restauro dell’icona interiore, perché il vero uomo è "il tempio dello Spirito Santo", secondo le parole di San Paolo (1Cor.6,19). Dalla purificazione del tempio prende l’inizio quella "follia dell'ascetismo" propria a tutti i santi della tradizione orientale.
La penitenza, però, proviene dalla "k e n o s i s" – cioè, dalla diminuzione di se stesso, dal deprezzamento volontario, dall’imitazione di Cristo o, meglio, dalla vita in Cristo nella sua umiltà, nella sua rinuncia volontaria della gloria divina (vd. Fil.2,6). La kénosis è la volontà al sacrificio, il rifiuto di qualsiasi decorazione di questo mondo, anche dal piacere sottile di essere chiamato "un uomo spirituale", "un saggio", di rifiuto d’ogni bene terrestre; perfino alla vita stessa.
Nella prospettiva ecclesiale la santità ortodossa è e u c a r i s t i c a, essa è un sacramento della comunione, dell'unione, spirituale e corporale, con Cristo. Poiché la santità perfetta è il sacramento dell'unione, che trasfigura il nostro corpo, riempito dal fuoco nascosto dell'Eucarestia.
Questa santità ha anche un carattere a p o f a t i c o, il santo è come immerso nel mistero dell'inconoscibilità e dell'incommensurabilità dell'uomo e del suo Dio (sensazione che senza farsi accorgersi sparisce in Occidente). In qualsiasi tipo della santità umana c'è una parte invisibile ed incomprensibile.
La santità ha anche un’ ispirazione e s c a t o l o g i c a : l'uomo vive non per questa vita ma per un'altra, non per questo mondo, ma per il Regno che deve venire alla fine del mondo e la sua storia attuale ha poco valore per la salvezza.
Il suo valore è anzitutto t e s t i m o n i a l e; il santo è sempre un testimone di un altro Regno davanti agli uomini, è come un portinaio di questo Regno che può aiutarli ad aprire le sue porte. Ma i santi ricordavano sempre che loro non sono ancora entrati, ma sono riusciti soltanto ad avvicinarsi a questo barlume di luce che proviene di porte un po`aperte.
Finalmente, secondo le parole di San Serafim de Sarov, che ha riassunto l'esperienza di tutta la santità ortodossa, l'uomo vive per l'acquisizione dello Spirito Santo. Perciò la santità ha un carattere p n e u m a t i c o; il santo diventa pneumaforo, un portatore dello Spirito, della Sua presenza reale e vivente fra gli uomini. Qui noi entriamo alla soglia del mistero della Trinità stessa dove l'uomo trova la sua immagine, la sua origine.
Perché parliamo tanto di santità? Perché proprio essa si trova all’origine dell’arte ecclesiale come santità della visione "buona e giusta", come facoltà restituita propria all’uomo prima della caduta di riconoscere tutte le cose nel Paradiso, nel pensiero di Dio, "in principio" (dove) era il Verbo" (Gv.1,1). Da questa visione o riconoscenza nasce anche la santità dell’immagine, santità come esperienza personale, ma anche come storia oppure Tradizione che contiene tutta la memoria delle immagini messe nelle preghiere, celebrazioni, canoni delle icone, vite dei santi, forme architetturale. La Chiesa ortodossa in modo spontaneo e nello stesso tempo pienamente cosciente crea il suo mondo artistico come anticamera del Regno che si manifesta nella santità dell’uomo e della sua arte.
L’arte, come abbiamo visto, partecipa alla liturgia, porta la testimonianza, inscindibile dalla rappresentazione ascetica ed apofatica del creato, ma prima di tutto, l’arte è l’imitazione alla vita divina, il cammino escatologico verso il Regno dei cieli, aperto in Cristo, "che è immagine di Dio" (2 Cor.4,4).
III. L’arte come comunione.
Alle soglie del Regno dei cieli ci portano tre accompagnatori o tre testimoni principali di Dio: la Santa Scrittura, l’immagine e il sacramento che hanno una profonda affinità tra di loro. Credo che nella sua essenza ogni cosa sia convertibile ad un’altra, perché la Scrittura veramente accolta e vissuta dentro di noi diventa un sacramento della comprensione che si compie nella nostra anima, ma da questo sacramento nasce la contemplazione delle immagini come opera di Dio. L’arte ecclesiale è il frutto della contemplazione, ma la contemplazione cresce e si sviluppa dall’esperienza spirituale, dalla santità ch’è la manifestazione della presenza reale di Dio nel senso eucaristico, sacramentale. Lo scopo dell’arte ecclesiale è quello di esprimere il mistero della presenza con le immagini, o, in altre parole, con i sacramenti in colori, i messaggi dello spazio, le buone notizie delle cerimonie, dei movimenti e dei gesti. Dunque, l’arte nella Chiesa Ortodossa è l’arte sacerdotale o l’arte della celebrazione, ma non solo tra i muri del tempio, ma anche nella nostra vita, nel cosmo e nella storia.
Uno dei compiti del sacerdote è svelare "il mondo come sacramento", secondo l’espressione del P.Alexandr Schmemann, e poi, aggiungiamo, svelare il sacramento, la presenza reale della vita divina nell’immagine. Ma si tratta non soltanto dei ministri del culto, ma prima di tutto del "sacerdozio regale" (1 Pt.2,9) in cui è consacrato ogni battezzato. Svelare il mondo nella sua immagine iniziale è come un offerta che l’uomo porta a Dio alla risposta al dono della creazione. Ogni uomo nella sua vocazione alla santità è destinato "ad un servizio che è una copia e un’ombra delle realtà celesti, secondo quanto fu detto da Dio a Mosé quando stava per costruire la Tenda dell'alleanza: "Guarda, disse, di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte" (Ebr. 8,5).
Questo testo così denso parla della celebrazione della Chiesa Veterotestamentaria che aveva un modello in cielo e che i sacerdoti avevano un ricordo di questo modello e erano in grado di imitarlo, di riprodurlo. Tanto più lo stesso vale anche per l'alleanza nuova, "fondata sui migliori promessi" (Ebr.8,6), di cui il Cristo stesso è mediatore. La celebrazione dell'alleanza nuova ha un carattere ontologicamente diverso; essa non soltanto rivolta al modello celeste, di cui ha solo un ricordo, ma porta questo modello dentro la celebrazione stessa, lo sviluppa, lo chiarisce, lo comunica, lo manifesta davanti agli uomini. "In Dio – dice San Giovanni Damasceno nel "Primo Discorso contro coloro che rifiutano le immagini", - vi sono le raffigurazioni e modelli delle cose che provengono da Lui, cioè il consiglio eterno che rimane sempre immutabile" (PG. 94,X). La contemplazione e la riproduzione di questi modelli è un atto spirituale della comunione a Dio stesso. E' vero che nella Chiesa Ortodossa il sacramento della comunione si trova al centro della sua vita liturgica e spirituale, ma è tanto vero che tutti i suoi mezzi artistici servono ad evidenziare questo sacramento, ad accenderlo nel cuore umano, a svelare il suo mistero e la sua realtà ontologica. L'Ortodossia non solo è una fede di formule ben precise, ma prima di tutto la fede pregata e celebrata, e la radice, lo scopo, il "telos" (il culmine, o la piena realizzazione in greco) della sua celebrazione è il mistero della comunione, l'Eucarestia.
L'Eucarestia è un sacramento dell'Incarnazione, i santi doni, offerti dai sacerdoti e il popolo, diventano il Corpo e il Sangue di Cristo perché il Padre ha offerto il Suo Figlio per la redenzione dei peccati umani. L'Eucarestia, secondo i padri della Chiesa è il mezzo della nostra deificazione; "Dio è diventato uomo, affinché l'uomo potesse diventare dio per la grazia", disse sant'Atanasio d'Alessandria con gli altri padri. La luce della grazia dell'Incarnazione brilla su tutta la creazione, ogni creatura incarna in sé il pensiero di Dio e l'amore di Dio. La Chiesa è chiamata a far vedere questa luce dappertutto: nel cuore umano, nelle immagini, nei sacramenti, nel suo stesso essere ecclesiale, costruito dai riti, dai ritmi liturgici, dalle preghiere e dalle feste. "Tutto quello che si manifesta è luce", - dice san Paolo (Ef.5, 13), e la vocazione dell'uomo è di scoprirla e manifestarla nella sua vita, nella sua fede, come anche nella sua creatività artistica.
L'arte ecclesiale è il mezzo della comunione alla luce nascosta e rivelata nel nostro mondo creato, nella materia. Sotto l’influenza della filosofia neoplatonica anche nel cristianesimo dei primi secoli è venuto fuori un certo disprezzo per il mondo materiale che era all’origine dell’eresia degli iconoclasti (VII-VIIIss.). La fede cristiana, però, che confessa la sua speranza alla risurrezione dei morti e nella trasfigurazione del mondo attuale (che non sarà sostituito completamente con il "mondo che verrà", ma svellerà la sua bellezza nascosta) ricorda sempre della sacralità della materia che ha servito all’atto della creazione del mondo, ma anche all’Incarnazione del Figlio di Dio. Nella sua polemica con gli iconoclasti per la difesa del culto delle immagini San Giovanni Damasceno dice:
"Un tempo, Dio, che non ha né corpo né forma, non veniva mai rappresentato in immagini. Ma poiché Dio è divenuto visibile nella carne e ha frequentato gli uomini io posso rappresentare l’immagine visibile di Dio. Io non venero la materia, bensì venero il Creatore della materia che per amor divenne lui stesso materia e accettò di vivere nella materia che per mezzo della materia opera la mia salvezza… Il legno della croce felicissimo e beatissimo non è, forse, materia? L’onorabile Santo Monte, il Luogo del Cranio (Golgotha) non sono, forse, materia? La pietra che porta e dona la vita, il Santo Sepolcro, la fonte della mia risurrezione, non sono materia? L’oro e l’argento di cui sono fatte le croci, le catene e i calici non sono materia? E soprattutto non è materia il corpo e il sangue di nostro Signore? Abolisci dunque il culto e la venerazione di tutte queste cose, oppure affida alla tradizione della Chiesa anche la venerazione delle immagini che sono consacrate mediante i nomi di Dio e dei Suoi amici, in tal modo sono coperte dalla grazia dello Spirito santo" (cit. cit. da Christoph Schönborn, L’icona di Cristo, Edizioni paoline, 1988, p.172).
IV. L’arte come teofania
La materia, dunque, è venerata non per se stessa, ma come portatrice delle immagini, dei messaggi della salvezza. Nel miracolo dell’Incarnazione il Signore ha consacrato di nuovo tutto ciò che Egli creò. La Sua parola, la Sua morte e la Resurrezione hanno lasciato le immagini della Sua presenza e la Chiesa che confessa che il suo essere ecclesiale porti in sé il Mistico Corpo di Cristo, manifesta questa presenza attraverso le immagini o l’arte. L’arte primo di tutto è il nostro sapere di organizzare a modo nostro la materia che ci circonda o metterla nelle immagini, che scopriamo nei noi stessi. Nell’arte che chiamiamo laica siamo padroni della nostra ricchezza interiore e possiamo giocare con le immagini come vogliamo, ma all’unica condizione: le nostre opere devono trovare una certa "accoglienza" dal nostro prossimo, in altre parole, vanno capiti, accolti, espresse in segni percepibile da un altro. Anche di più: un'altra persona deve aver bisogno del nostro messaggio mandato tramite l’arte, perché questo messaggio, percepito in un certo modo, fa nascere un eco nella sua anima, nella sua esistenza.
In questo senso l’arte ecclesiale è diversa. Il suo messaggio è già conosciuto dall’inizio, i segni che essa utilizza sono contenuti nella nostra fede. L’uomo non deve scegliere fra le immagini accumulate e mescolate nel suo "io", ma deve manifestare ciò che esiste già, nella profondità o nel "principio" del suo essere. L’arte ecclesiale esprime ciò che è già dato, messo in noi. Di questo dono, della profondità umana che si svela solo nell’esperienza del santo parla San Giovanni nella sua prima lettera: "Ciò che era fin dal principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza…" (1 Gv.1, 1-2).
L’arte, se la guardiamo nella luce di queste parole, è la testimonianza con o tramite gli oggetti materiali di ciò noi, uomini, abbiamo veduto, toccato, contemplato, di ciò che portiamo dentro di noi stessi e di ciò che dobbiamo far vedere agli altri, il Verbo della vita. L’arte è la testimonianza del Verbo che continua a vivere nel Popolo di Dio e nel Suo Corpo che è Chiesa. Osiamo dire, che la Chiesa stessa è anche l’arte della testimonianza, del vedere ciò che è invisibile, di comprendere ciò che è incomprensibile, di vivere ciò che appartiene a Dio, ma anche all’uomo.
In questo senso lo spazio dell’arte comprende non soltanto gli oggetti visuali, ma tutta la vita umana nella sua integrità fisica e spirituale. L’arte è l’icona e il tempio, ma l’arte è anche la preghiera e la vita spirituale. E questi due tipi dell’arte sono legati fra di loro in modo strettissimo. L’arte è gioia e l’arte è il pentimento, l’arte è contemplazione, ma l’arte è la fede stessa. Si può dire che non ci sia nulla nella vita della Chiesa che non sarebbe l’arte e se il suo livello artistico e religioso è basso o volgare, la colpa è tutta nostra, perché la sua idea, il suo progetto iniziale è di tornarci alla bellezza del primo giorno della creazione. Tutte le manifestazioni dell’arte ecclesiale si trovano non soltanto in sintonia fra di loro, ma provengono dalla stessa sorgente, di ciò che "era fin dal principio", da quel principio quando "Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era una cosa molto buona" (Gen.1,31).
L’arte come azione della Chiesa è orientata a tre compiti: far vedere il creato come "una cosa molto buona" e far vivere il mistero della nostra Redenzione, nella parola, la vita, la morte e la Risurrezione di Gesù Cristo, rivelare il nostro proprio destino nella luce del Verbo incarnato. In altre parole, l’arte è la festa della teofania, celebrata nelle opere materiali e spirituali, o attraverso la materia intelligente e lo spirito illuminato. L’arte ecclesiale fa parte della liturgia o della celebrazione della nostra fede come festa, mistero, preghiera, memoria, azione, meraviglia davanti il miracolo del creato e del mistero della salvezza. Anche il nostro Credo nella sua espressione teologica e liturgica è un piccolo capolavoro dell’arte della parola che contiene tutta l’economia di Dio rivestita nella poesia delle formule della fede o nell’arte della sapienza. Il Credo ci introduce nella vita ecclesiale come teofania nel pensiero, nell’arte della contemplazione della storia di Dio fra gli uomini.
L’avvenimento di questa teofania nella preghiera è uno dei motivi intrecciati nella sinfonia della liturgia bizantina. Ogni gesto e fatto liturgico, oltre al suo senso concreto, possono averne un altro, allegorico o teofanico: la rivelazione di Dio all’uomo, ma anche la rivelazione della natura dell’uomo come vero teoforo.
V. L’arte della visione
L’uomo teoforo, come abbiamo accennato, conosce il segreto del vedere il mondo nella triplice luce della Creazione-Incarnazione-Risurrezione. Prendiamo, però, un esempio concreto: come la Chiesa Ortodossa vede il creato? Non si tratta della speculazione teologica; ascoltiamo una preghiera che c’introduce alla visione dell’opera di Dio e che ha una destinazione concreta: l’iniziazione alla Chiesa ortodossa, il sacramento del battesimo. Si entra nell’Ortodossia con l’icona orale. Questa preghiera inizia con la confessione che tutto ciò che è chiamato ad essere, viene dalle mani del Signore:
"... Tu, Signore, hai voluto trarre dal nulla
all'esistenza tutte le cose,
e con la Tua provvidenza costruisci il mondo.
Dinanzi a Te trepidano le potenze dei cieli,
a Te inneggia il sole,
Te glorifica la luna,
le stelle sono tornate a Te,
la luce Ti ascolta.
Al Tuo cospetto tremano gli abissi
e per Te le sorgenti lavorano.
Hai steso il cielo come una tenda
e reso stabile la terra sulle acque.
Tu infatti, Dio indescrivibile,
senza principio e inesprimibile,
sei venuto sulla terra,
hai assunto la forma di un servo
e sei diventato simile all'uomo.
Nella tua infinita misericordia, Signore,
non hai sopportato di vedere il genere umano
tormentato dal demonio,ma sei venuto e ci hai salvati."
Non è, forse, vero che questo vecchio inno bizantino somiglia agli inni francescani? La stessa visione dell’ammirabile e tremenda presenza di Dio, Creatore e Redentore che porta, fra l’altro una grande promessa dell’unità che inizia nell’esperienza comune o nella comunione dello spirito. Nella pratica ecclesiale questo inno ha un uso molto concreto : esso serve come preghiera che il sacerdote legge per la benedizione dell'acqua o, meglio, per svelare la grazia che è già presente nella materia del sacramento. Nella Chiesa ortodossa il rito della benedizione si svolge non soltanto nel tempio, ma anche all'aria aperta. L'acqua è sempre stata e rimane ancora un simbolo della vita, una prima sostanza del mondo : "Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque", dice il secondo versetto della Bibbia. E lo stesso spirito è riflesso sulle acque come spirito dell'esistenza fisica, di cui acqua è il segno.
L'uomo prende l'acqua come materia, e la fa simbolo nel senso primordiale, il legame tra il mondo visibile ed invisibile. Così l'uomo diventa sacerdote dell'acqua, dell'elemento cosmico, che ci porta agli elementi principali della rivelazione di Dio, commemorati durante il rito del battesimo. La nostra memoria diventa la "finestra aperta" della rivelazione che si apre alla creazione, al peccato originale, alla redenzione, alla morte e alla risurrezione nel Cristo e con Cristo. Ma dalla stessa apertura nasce anche la benedizione dell'acqua come "corpo materiale" della memoria come sacramento. Ogni sacramento, però, è la manifestazione di una realtà dello "Spirito di Dio", dell'epifania dell'invisibile e la preghiera che noi abbiamo citato è anche una preghiera della festa di Epifania nella Chiesa Ortodossa.
Questa festa, in modo invisibile ma anche visibile, è sempre in corso in questo mondo, dove Dio Vivente dà i segni della Sua presenza, della Sua grazia, delle Sue immagini. La prima risposta di colui che partecipa in questa festa è lo stupore, l'ammirazione, la glorificazione e poi la "simbolizzazione" del creato. Perché il compito dell'uomo è sacerdotale: sentire il Verbo che era "in principio" in ogni cosa ed esprimerlo nella sua preghiera, nel suo sacramento, ma anche in ogni cosa del mondo materiale. Perciò tutto può diventare il sacramento, il luogo della Sua gloria, della Sua epifania: la voce dell’acqua, il calore del sole, il volto delle stelle rivolto a noi, la gloria notturna della luna, il lavoro delle sorgenti, il tremare delle abissi... Poiché far rinascere una memoria sacra, servire un legame, un annunciatore del mistero della creazione è "naturale" per ogni opera creata. Ma questo mondo è tormentato dal demonio, colpito dal peccato che nell’uomo ha colpito anche il creato, e anche la materia soffre dalle forze nemiche che s'impadroniscono dall'uomo. Perciò all’uomo spetta di liberare se stesso e il creato nel Signore ricreando nella materia le immagini del "principio", i "prototipi" delle cose create e del volto umano visto nella luce di Dio.
VI. Lo spazio e l’immagine
Ciò che abbiamo detto dell’acqua può essere riferito a qualsiasi altra materia, qualsiasi creatura che può servire come simbolo o icona. La forma del tempio non è davvero icona dello spazio? Lo spazio della liturgia si costituisce in pietra, nell’architettura, nei "cieli sulla terra", secondo l’espressione dei mercanti russi del X-mo secolo che hanno assistito per la prima volta alla divina liturgia alla Santa Sofia.
"Il tempio è il cielo terrestre, nei suoi spazi celesti Dio abita e passeggia" – disse ancora San Germano, il patriarca di Costantinopoli. Dall’antichità, commenta Pavel Evdokimov, il modello per un tempio cristiano fu il Tempio di Gerusalemme celeste che ha, secondo l’Apocalisse la "forma di quadrato" (Ap.21,16) o piuttosto l’interazione del cerchio e del quadrato. Al centro si trova "nave escatologica, sormontata dalla forma sferica della cupola che sintetizza l’unione del cerchio e del quadrato, misura e cifra del cielo e del regno. "Il santuario, dice san Massimo il Confessore, - illumina e orienta la navata, e questa diventa la sua espressione visibile. Una tale relazione restaura l’ordine… ristabilisce ciò che era in Paradiso e sarà in Regno". Il quadrato e il cubo rappresenta l’immutabilità incrollabile, la stabilità del disegno realizzato, e al di dentro si opera il dinamismo circolare delle preghiere e dei riti". (Teologia della bellezza, San Paolo, 1990, p. 153)
Il tempio e la liturgia creano insieme il suo mondo dove la preghiera, il fumo dell’incenso, le mani alzate del sacerdote, elevazione dei santi doni prima dell’epiclesi che simboleggiano l’ascesa dell’uomo verso il Regno, ecc. si trovano in armonia della "casa di Dio". Ogni tempio ha il compito di riprodurre la struttura dell’universo, ma l’universo trasfigurato e illuminato in Dio che "sarà tutto in tutti". La chiesa è vista come contenitore della luce che esprime la pienezza reale di Dio. La sua architettura non si cambia, perché non si cambia la vita spirituale, o, diciamo, la "spiritualità" del cosmo e l’arte dello spazio. L’architettura sacra della Chiesa Cattolica, per esempio, ha avuto la lunga storia dei cambiamenti, la architettura della Chiesa Ortodossa dopo la costruzione della Santa Sofia a Costantinopoli (VI sec.) non ha subito praticamente grandi trasformazioni. Perché?
Non si tratta solo del conservatorismo tradizionale proprio all’Oriente, ma piuttosto dei due tipi dell’arte religiosa, quello antropocentrico che esprime l’anima umana con le sue ricerche ed emozioni, e quel teocentrico che cerca di manifestare la discesa il "soggiorno" di Dio nella Sua creazione. L’Ortodossia crede che la sostanza spirituale di questo "soggiorno" non si cambia, dunque anche le sue forme non subiscono i cambiamenti radicali. "E perfettamente legittimo, scrive Pavel Evdokimov, - cercare forme nuove, ma queste devono esprimere un contenuto simbolico che resta identiche attraverso tutte le epoche, perché la sua origine è celeste. I costruttori moderni devono ascoltare e capire i suggerimenti dell’architetto supremo "che è l’Angelo del tempio" (Vd. Teologia della bellezza, pp.153-160).
Se prendiamo, per esempio, la cattedrale gotica, continua Evdokimov, vediamo un’enorme massa di pietra in slancio verso Dio, verso il trascendente e questa massa porta dietro lo spirito dell’uomo. Dunque, si può parlare del nostro "io" come ricercatore del divino, mentre nella chiesa ortodossa "l’io" (ma si tratta non della persona, ma del popolo di Dio) si sente già trovato. Il cielo si trova dentro lo spazio, perché il suo Regno è già vicino al cuore umano e proprio nel cuore con i sforzi della preghiera bisogna cercarlo.
Tutta la struttura del tempio serve a questa ricerca del già trovato. Sopra, sulla cupola c’è sempre la croce che con le sue linee esprime la discesa dell’amore divino. Sotto al centro del tempio c’è santuario, l’altare dove è celebrato il sacramento centrale della Chiesa Ortodossa, l’Eucarestia. L’altare è separato dalla navata con l’iconostasi. Anche l’iconostasi esprime la presenza simbolica, ma reale del Cristo con i suoi santi che assistono al sacramento. Ingresso all’altare si fa attraverso le porte regali che si chiudono e si aprono durante la celebrazione. Le porte regali sono attorniate dall’icona del Cristo a destra e dall’icona della Madre di Dio a sinistra. Accanto a Lei c’e sempre l’immagine di Giovanni Battista, l’amico dello Sposo. Queste tre figure, messe insieme (ciò che si chiama in greco "Deisis") sono circondate dai testimoni: angeli, profeti, martiri, santi. Loro presenza visibile simboleggia loro preghiera invisibile e silenziosa in mezzo al popolo. Nel senso sacramentale la presenza del Cristo con tutti i suoi santi è un segno reale dell’unità della Chiesa sulla terra e nei cieli.
VII. L’icona e lo spazio liturgico.
La stessa unità è simbolicamente raffigurata ed invocata all’inizio della liturgia orientale, durante il rito delle protesi e della proscomidia, quando tutta la Chiesa, cominciando dal Cristo e della Sua Madre e fino ai tutti i suoi membri viventi e defunti, è misticamente radunata nella preghiera dell’invocazione e nei pezzi di pane che vanno consacrati durante la celebrazione eucaristica. Quest’unità mistica si esprime anche attraverso le icone; ogni chiesa ortodossa si presente come un piccolo museo delle immagini, ma saremo ciechi se prendiamole per i pezzi di museo. Quale sia il loro valore artistico, queste immagini presentato i loro prototipi. L’icona ha la vita propria solo all’interno del lavoro spirituale, nella vita della preghiera o della contemplazione; nel museo essa perde il suo senso ontologico e sacramentale. Il VII Concilio ecumenico dice: "Sia mediante la contemplazione della Scrittura, sia mediante la rappresentazione dell’icona… noi ci ricordiamo di tutti i prototipi e siamo introdotti presso di loro". Questo vuol dire che siamo proprio nel mistero della loro santità, in mezzi di loro. Un altro Concilio del 860 esprime lo stesso pensiero. "Ciò che il Vangelo ci dice con la parola l’icona ce annuncia con i colori e ce lo rende presente".
Le icone, in un certo senso, "raccontano" il suo prototipo, portano una buona notizia della sua presenza fra di noi e nel Regno dei cieli, fanno vedere l’indescrivibile fra di noi. L’idea principale dell’iconoclasmo del VI-VII secolo fu che l’indescrivibile e l’incomprensibile non può essere raffigurato, che il mistero divino non si lascia à svelare. Ma in verità l’icona non vuole portare "l’immagine dell’inesprimibile", come dice san Gregorio Palamas, ma solo il suo volto umano, penetrato dalla luce inesprimibile. Il Cristo "è l’immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura" dice San Paolo (Col.1,15), che vuol dire, che il Cristo rende presente l’invisibile volto del Padre, ma anche il visibile volto della creazione nella luce della Trinità. "Io sono la luce del mondo" dice Cristo (Gv.8,12) e la Chiesa canta: "La Tua luce risplende sui volti dei Tuoi santi". L’icona di Cristo fa risplendere il vero volto dell’uomo nella luce della Trinità così si può esprimere la saggezza antropologica dell’icona. "E proprio la ricchezza della relazione trinitaria, - dice il filosofo contemporaneo, - e quindi di una antropologia fondata su questa relazione, che spiega questo mistero dell'irradiarsi della luce da una fonte che si piega sulla creatura che in tutta la sua creaturalità ritorna a quella luce" (Massimo Cacciari).
L’idea principale che porta l’icona è l’idea della Trasfigurazione dell’essere umano o della sua deificazione (teosis). La deificazione significa il cambiamento sostanziale del nostro essere, ma lo svelare la presenza nascosta della luce divina nell’uomo fin dalla sua creazione all’immagine e somiglianza di Dio. Questa luce fa vedere ciò che è invisibile. "La luce dell’intelletto è scritto nel Tomo Aghioretico di San Gregorio Palamas, è diversa da quella che è percepita dai sensi. La luce fisica ci mostra gli oggetti percepibili mediante i sensi, mentre la luce intellettuale ci rende chiara la verità nel nostro pensare".
Così l’icona diventa la testimone della luce del pensare o del mondo interiore, la luce manifestata attraverso i colori e le immagini. Ma il segreto dell’icona non è soltanto nell’immagine del volto pieno della luce divina, ma nel risveglio della stessa luce nel suo spettatore che diventa un "complice della luce". Quando per esempio, guardiamo la famosa icona della Trinità di Andrei Rublev, non vediamo soltanto tre Angeli che ci ricordano le Tre Persone Divine, ma se le percepiamo "in spirito e verità", viviamo (o siamo chiamati a vivere) una vera e propria trasformazione interiore, diventiamo gli ospiti della Trinità o invece: come Abramo e Sara riceviamo la Trinità nella casa della nostra anima. In questo senso si può capire la formula di Pavel Florensky che scrisse: Se esiste la Trinità di Rublev, esiste anche Dio! La luce dell’icona e la luce che entra nella nostra anima sono della "stessa sostanza" divina, e così la Trinità diventa l’esperienza vivente del tutto nostro essere e noi non abbiamo bisogno delle altre prove dell’esistenza di Dio, perché la Sua presenza reale portiamo in sé. Pregare con le icone significa proprio questo: sentire e percepire la stessa grazia o la stessa luce che riempia il Santo Volto e che santifica anche noi. Dopo aver pregato con le icone, possiamo cantare come il coro canta dopo la comunione:
"Abbiamo visto la vera Luce, abbiamo ricevuto lo Spirito sovraceleste, abbiamo trovato la fede vera adorando l'inseparata Trinità: Essa infatti ci ha salvati".
VIII. Il canto, la preghiera, il gesto.
Lo stesso Florensky definì la celebrazione ortodossa come sintesi delle arte diverse. Un altro tipo dell’arte di cui bisogna almeno menzionare è quella musicale, l’arte della voce umana. "Il coro ecclesiale è un vero maestro della teologia" dice il teologo ortodosso P.Ciprian Kern, perché il canto (che rappresenta il popolo di Dio che confessa la sua fede) contiene tutte le verità dogmatiche e spirituali. L’arte del pensiero teologico si riveste nell’arte del canto, la teologia ortodossa è prima di tutto è la teologia cantata che si trova nella sintonia con l’architettura e l’immagine. Vi sono tanti tipi del canto e la cultura musicale in Ortodossia è un tema speciale di cui non possiamo parlare qui, ma vorrei rilevare un tratto comune proprio alla qualsiasi arte ecclesiale: il suo teocentrismo il quale abbiamo già accennato. Il suo principio troviamo nelle parole di Giovanni Battista: "Egli deve crescere e io invece diminuire" (Gv.3,30).
Tutto ciò che l’uomo fa in Chiesa: costruisce, dipinge, decora, canta, legge, si muove ecc. deve esprimere e manifestare non i suoi sentimenti e pensieri come siano profondi o importanti, ma il mistero di Cristo, del Dio diventato Uomo, o delle energie divine che agiscono nelle azioni dell’uomo. Ma egli deve diminuire affinché Dio cresca, diminuire nelle sue passioni, nelle sue emozioni troppo terrestri, "spogliare se stesso, assumendo le condizioni del servo", come dice la Lettera ai Filippesi (2,3), parlando di Cristo per diventare il servo di Dio, per lasciare agire Dio in sé. Qualsiasi arte ecclesiale deve manifestare quest’azione. "L’iconografia, dice Evdokimov, non è un libero gioco dell’immaginazione, ma la lettura degli archetipi e la contemplazione dei prototipi". (p.211). Ma "se si confrontano icone che hanno la stessa composizione e il loro tema, si rimane colpiti nel costare, che nonostante la loro somiglianza, non se trova una che sia una copia servile dell’altra. Non si trovano mai, nelle epoche floride di quest’arte, due icone assolutamente identiche. Ogni scuola ed ogni icona porta il suo sigillo". La stessa cosa possiamo dire anche sull’architettura, affreschi, canto e cosi via.
Ma c’è anche un’estetica del gesto, delle candele, del fumo ecc. C’è un’arte del fuoco, un’arte dell’odore, un’arte del fumo, un’arte del vestito, un’arte delle entrate e delle uscite dei clerici, delle cerimonie ecclesiale e anche un’arte del cuocere il pane che serve all’Eucarestia. "Chi ha gustato il fascino dell’antichità, continua Florensky, sa in quale misura tutto questo esiste come eredità e ramo diretto della sacra tragedia greca" - dice Florensky nell’articolo già menzionato ("La celebrazione come sintesi delle arte" cit. dall’edizione russa).
Ma con le sue radici più antiche l’arte ecclesiale vive il suo rinnovamento permanente nella storia della salvezza, in quel dramma piena di speranza che si svolge nella Chiesa.
IX. La Tradizione
L’arte ecclesiale esprime lo spirito dell’Ortodossia; perciò l’arte non può essere solo il mezzo dello spirito, l’arte è l’immagine dello spirito. Questo spirito rimane identico a se stesso durante la storia di tanti secoli, e il principio dell’identità della vita spirituale che è proprio all’Ortodossia definisce anche il carattere tradizionale della sua arte. Infatti, qualsiasi tipo dell’espressione artistica in Chiesa ubbidisce ai canoni della Chiesa, ad un certo rito di dipingere, di cantare, di costruire il tempio, di incensare le icone.
La Tradizione in Chiesa non è la schiavitù ai "padroni del passato", essa anche ha il suo proprio messaggio: quello della santità scoperta e manifestata dai nostri predecessori, dai padri della fede. Ogni rito ecclesiale porta in sé un invisibile bagaglio spirituale, una poesia del gesto e della forma che si sono apparse nell’esperienza dei santi. Così ciò che era santo vissuto nel passato diventa il sacro da vivere oggi – questo è il principio della Tradizione Vivente. Ricordiamo ancora: l’arte ecclesiale non è il modo di espressione del proprio "io" nella sua ricerca, nel suo slancio verso il cielo, ma la manifestazione ella natura paradisiaca dell’uomo che si apre e se manifesta solo nella santità della Chiesa. L’icona di un santo, per esempio, è un ricordo eterno del suo volto e della sua vita, ma il ricordo rivolto non al passato lontano, ma al futuro, al mondo che verrà, perché il santo è già cittadino di questo mondo. Il messaggio che porta l’icona può essere chiamato il ricordo escatologico. Il passato e il futuro s’incontrato nell’arte ecclesiale e il punto dell’incontro è proprio la Tradizione. La Tradizione, anche quella che riguarda la pittura o l’architettura, cresce dalla memoria ecclesiale e ci porta nel mondo trasfigurato. La Tradizione è un tempo consacrato dalla santità vissuta e la sua consacrazione si svolge anche nelle opere dell’arte ecclesiale.
Questo principio della Tradizione è a volte difficile da accettare all’uomo moderno. Ma l’Ortodossia, anche nella sua arte, vive ancora non secondo l’uomo moderno, ma piuttosto secondo la regola di Giovanni Battista: "Non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a Lui" (Gv.3,28).
L’artista che lavora in Chiesa e per la Chiesa è solo il messaggero e il testimone.