La "spiritualità" come impegno dello spirito umano nei confronti del Dio Vivente nasce dall’incontro di due persone, un incontro che abbraccia e coinvolge tutto il nostro essere umano e lo cambia. Ma la trasformazione interiore più nascosta si realizza sempre in comunione con gli altri. Nonostante il suo tratto profondamente personalistico, la vita spirituale nella Chiesa d’Oriente ha un carattere comunitario, anzi conciliare, perché alla sua origine il più intimo e l’ecclesiale coincidono e si fondono nella divina-umanità del Figlio dell’uomo.
Così, parlare della spiritualità vuol dire parlare di Cristo e di tutto ciò che lui opera nell’animo umano. Quando abbiamo le prove nel nostro spirito che Dio sta vicino a noi, Egli abita dappertutto. Quando la nostra vita riflette il volto di Gesù e porta le impronte dello Spirito, essa diventa un frutto maturo della "spiritualità", perché "dai loro frutti li riconoscerete" (Mt. 7, 20). Il frutto della fede è l’uomo stesso che si avvicina a Dio per incontrarlo, conoscerlo, vederlo. Eppure "Dio nessuno lo ha mai visto..." (Gv 1,18).
La conoscenza di Dio proviene dalla Sua rivelazione che è un’altra manifestazione della Sua stessa esistenza. Ma all’inizio della conoscenza, come abbiamo accennato, si trova sempre l’esperienza dell’incontro, del Volto rivelato. Non si tratta qui dell’esperienza psicologica o sentimentale, ma spirituale nel senso ontologico; quando nell’"anima mia" (Salmo 102,1) lo Spirito Santo dipinge l’immagine del Figlio che rivela il Padre che è "nei cieli". Prima di essere un concetto, un dogma, Dio Uno e Trino si manifesta in noi come mistero ineffabile. Il mistero (che non è per niente un enigma intellettuale) è avvolto sempre dalla luce, i cui raggi sono l’energia di Dio che esprime, ma non rivela la sua "essenza". L’incomprensibile e la "luce da luce" coincidono nella persona stessa di Cristo. La rivelazione porta in sé la presenza reale e vivificante del Figlio di Dio, "ricordato" e manifestato dallo Spirito Santo; rivelano il Padre come unica sorgente del mistero trinitario. Si tratta del mistero che vive in noi, che si apre a noi, di cui noi siamo eredi partecipanti e la Chiesa non soltanto confessa, ma vive questa fede nella sua conoscenza, nelle sue celebrazioni, le sue icone, la sua santità, il suo martirio.
La teologia ortodossa insiste molto sull’apofatismo dell’atto del conoscere (in altre parole sulla sua inesprimibilità) perché la vera conoscenza proviene della rivelazione del mistero, ma la rivelazione è già una relazione con Dio che si apre e si offre a noi. Perciò la rivelazione non deve essere accettata e creduta solo come una dottrina stabilita. La conoscenza inizia il suo cammino con la "tenebra divina" (Dionigi Areopagita) e si muove non verso la filosofia o la sapienza in sé, ma si sviluppa come difesa contro l’errore spirituale che nella storia si manifestava sempre come eresia. Sotto la dottrina rimane il "primato" del mistero vissuto non soltanto nelle anime dei pochi "mistici", ma nell'unità del Corpo mistico di Cristo che è la Chiesa.
"Dio, nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, Lui lo ha rivelato". Con queste parole entriamo subito nel centro del paradosso: Dio è vicinissimo come Persona che ci ama e ci rivela, e Dio è lontano come mistero e sconosciuto. Questa dialettica della lontananza-vicinanza si riflette anche nella vita dello spirito. Dio bussa alle porte dell’anima umana, ma più spesso le porte sono chiuse. La vita spirituale consiste nello sforzo di aprirsi a Dio, nel "preparare la via del Signore" (Mt.3,3); nel guadagnare lo spazio interiore per lasciarlo vivere e respirare "nell’uomo nascosto nel cuore" (1 Pt. 3,4).
Questo spazio dentro di noi - il centro dell’essere umano dove Dio entra, respira, si fa segno della Sua presenza – è chiamato dalla Bibbia "cuore". Tutto il dramma fra lui e noi si svolge qui. Il cuore umano è il Suo santuario segreto, il tempio consacrato o profanato, il luogo dell’adorazione o della ribellione. Nel cuore, Dio apre il suo volto ed entra in relazione con l’uomo, lo attira a sé e si offre a lui. "Perché Dio è amore", dice san Giovanni (1 Gv. 4, 8), rivelando che il nostro rapporto con Dio può esprimere, anzi, può portare in sé l'energia di Dio stesso, la "natura divina" (2 Piet. 1,4) in cui per l’amore l’uomo può partecipare. Ma la sua partecipazione è sempre il dono del cuore o la liberazione "dell’interno del cuore" (cfr 1 Pt. 3,4), affinché Dio lì possa entrare e "prendere dimora presso di lui" (Gv 14, 23).
Questa esperienza di incontro, di donazione e scambio spirituale è riassunta nella sentenza del santo russo Serafino di Sarov : "Il Signore cerca il cuore, pieno di amore verso Dio e verso il nostro prossimo, il cuore è il trono della Sua gloria. Figlio mio, dammi il tuo cuore e tutto il resto Io ti darò in più, perché nel cuore umano è tutto il Regno di Dio".
L’uomo che entra e abita in questo Regno è l’uomo diverso da colui che abita nel mondo, immerso nelle sue passioni e preoccupazioni. Alla soglia del Regno, che "è in mezzo a voi" (Lc 17, 21), l’uomo deve poter cambiare, trasformarsi nella persona capace di dare e ricevere amore di Dio, vivere presso "il trono della sua gloria". La traduzione russa della Prima lettera di San Pietro del versetto 4, capitolo 3 parla "dell’uomo nascosto nel cuore". Vuol dire, che ogni uomo è chiamato a far nascere se stesso dentro di sé. Questo parto spirituale non è la "seconda nascita" della conversione improvvisa, ma lo sforzo e lo slancio della conversione che impiega tutta la vita del cristiano. A questo lavoro si riferisce anche San Paolo quando parla del suo servizio apostolico: "Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore… finché non sia formato il Cristo in voi" (Gal 4, 19).
Il frutto di questo parto è la conformazione a Cristo, l’impronta della sua immagine su di noi che si raggiunge grazie alla vittoria sul peccato. Le porte del cuore sono piuttosto pesanti, per aprirle ci vuole la maestria spirituale dell’artista interiore, ma anzitutto la fatica dell’artigiano che fa il suo mestiere con costanza, assiduità e "nel dolore". Si tratta del dolore del pentimento, dell’ascetismo, del combattimento interiore.
Il pentimento.
Kyrie eleison! Signore, pietà! Gospodi pomiluj! Queste parole accordano e predispongono tutte le celebrazioni ortodosse. Un osservatore estraneo presente alla divina liturgia oppure che si trovi ad ascoltare la preghiera del mattino e della sera che il fedele è chiamato a recitare ogni giorno, potrebbe pensare che la pratica liturgica della fede consista per la maggior parte nella penitenza davanti al Dio-Giudice, e il timor di Dio sia il sentimento più diffuso nella devozione ortodossa. Questa impressione è corretta solo se assunta nella consapevolezza che il giudizio più severo ed esigente è quello dell’amore divino. "I peccatori sono tormentati dal fuoco dell’amore", disse Dostoevsky.
Ma davvero i santi che hanno vissuto la vita più pura e si sono pentiti molto più degli altri, sono i primi peccatori? Siamo al centro del paradosso dell’"uomo nascosto": le lacrime del vecchio Adamo fanno nascere l’uomo nuovo in Cristo. La purificazione interiore fa il miracolo; essa fonde la corazza di pietra in cui è incarcerata la nostra vera natura: creata a immagine e somiglianza di Dio, la natura, che irradia la bellezza interiore, è riempita dalla presenza divina. Ad esempio, all’inizio della Quaresima in tutte le chiese ortodosse si legge il grande canone di Andrea di Creta, un poema della penitenza, "il canto delle lacrime" (Olivier Clément). Ma ogni volta (la lettura occupa quattro serate) la Chiesa si rivolge con la preghiera al santo stesso, il quale si presentava nel suo canone come l’incarnazione stessa del peccato. Ma colui che si confessa fino all'interno del cuore", per la grazia e per la misericordia di Dio, diventa Suo figlio prediletto.
La disciplina ascetica.
Le celebrazioni ortodosse possono sembrare lunghe e abbastanza ripetitive perché il cuore umano è duro e si scalda lentamente. La tradizione ortodossa non ha molta fiducia nei "fenomeni carismatici", se essi sono accompagnati da una qualsiasi eccitazione nervosa. La virtù molto apprezzata è la sobrietà, soprattutto nella pratica della preghiera, nella relazione più intima e personale con Dio. La preghiera (supplica, pentimento, glorificazione) contiene un altro movente, quello del lavoro per acquistare il dono della preghiera stessa che guarisce l’anima e che con la grazia particolare può guarire anche il corpo. Ma il lavoro interiore va fatto insieme con la preparazione esteriore dello strumento della preghiera: la disciplina ascetica. L’ascetismo ortodosso è la pratica dell’"addomesticamento" del nostro essere mentale e fisico per liberarlo dalle dipendenze della carne. La carne (uno dei concetti più importanti nella teologia ortodossa) può avere due significati: creazione di Dio ("l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne" – Gen. 9,16) e la condizione umana del peccato e della schiavitù ("quello della schiava è nato secondo la carne" – Gal 4,23). L’educazione ascetica è come una scala che va al cielo e tutti i fedeli sono chiamati a fare qualche gradino in su per poter liberare il proprio spirito dalla schiavitù del peccato che agisce anche tramite il corpo. Ma il corpo per l’ortodossia non è prigione dell’anima, come nella scuola neoplatonica, ma "il tempio dello Spirito Santo" (1 Cor 6, 19) che "collabora" con la volontà umana per la trasfigurazione e la deificazione nel Regno di Dio.
Il combattimento interiore.
Dentro di sé, all’interno del proprio cuore, l’uomo non è mai solo, perché i due grandi protagonisti della vita invisibile della sua anima sono sempre in azione. Nella prospettiva ortodossa, che ha le sue radici nella più antica tradizione patristica, ogni uomo è visto come campo di battaglia fra Dio che lo chiama per salvarlo e il diavolo che vuole impossessarsi di lui. Fra queste due forze agiscono la libertà e la volontà umana; l’uomo deve scegliere fra di loro e proprio questa scelta permanente diventa l’avvenimento più importante della sua esistenza. Chi non è spiritualmente cieco da non accorgersi di questi due grandi attori della vita della sua anima, deve prendere "la spada dello Spirito" (Ef 6, 17) e i "due tagli" (Salmo 149,6) di questa spada sono proprio la penitenza e la scuola ascetica in cui si impara a "vivere in Cristo" o "camminare nello Spirito". "Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito" (Gal 5, 24-25).
L’ortodossia parla spesso della custodia del cuore che ha due aspetti: negativo, come lotta contro "il mistero dell'iniquità" (2 Tess 2,7) che agisce dentro di noi; positivo, come acquisizione della preghiera pura che diventa il nostro respiro, il fuoco nel cuore. In questo fuoco si brucia ogni peccato (non soltanto in azione, ma anche in pensiero) perciò "il combattimento interiore" si fa con dolore e così l’uomo si salva, "però come attraverso il fuoco" (1 Cor.3, 15).
L’uomo salvato, ammesso nella comunione dei santi, è l’uomo "deificato" (termine che incuriosisce spesso i cristiani delle altre confessioni). Ma la deificazione significa niente altro che questo: l’uomo, passato attraverso il fuoco, è tornato a se stesso in Dio, al suo "io" autentico e nascosto, alla sua bellezza iniziale. La custodia del cuore, il combattimento interiore come vita della fede servono alla purificazione nella visione di questa bellezza affinché "veniamo trasformati in quella medesima immagine" (1 Cor.3, 18) dell’uomo trasfigurato. Così sorge anche l’arte dell’icona, diventata l’emblema dell’ortodossia.
Ma non si può veramente entrare nell’arte della pittura senza passare tramite l’arte dell'educazione dell’"uomo nascosto" e del suo occhio che vede la bellezza del creato. L’icona non è un ritratto, ma piuttosto un ricordo escatologico di quell’immagine che Dio ha sigillato in noi al momento della creazione, quando ci "ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria" (1 Cor.2, 7). Ogni icona è portatrice di un messaggio singolare: Dio è con noi nel Volto del Suo Figlio, della Sua Madre e degli uomini e delle donne deificati chi sono i santi. La Sua presenza è proprio il segreto dell'icona che è condiviso o almeno dovrebbe essere condiviso con noi. Perché non siamo spettatori passivi; l’icona è il mistero sempre aperto e questa apertura ci invita, ci spinge anche al superamento della chiusura del proprio cuore (cioè della sua situazione "abituale" in questo mondo caduto). Senza l’apertura del "cuore cristico", senza la nostra partecipazione, l’icona rimane sempre spiritualmente nascosta. Perché la vera arte dell’icona è la ricerca del volto autentico umano, la scoperta dell’uomo deificato.
L'arte della partecipazione all’immagine è la pratica liturgica di cui la vita dell’icona non può essere separata. Perché l’icona vive nella preghiera e la preghiera si compie e si incarna nell’icona. Non c’è neanche una sola festa senza immagine e non c’è un’immagine nella Chiesa senza la sua celebrazione liturgica. La vita spirituale nell’ortodossia si costruisce nell’unità e coerenza degli elementi diversi: liturgico, iconografico, dottrinale e devozionale (cioè della pietà personale). La lex credendi è nello stesso tempo la lex orandi, la preghiera personale è sempre un atto profondamente ecclesiale e l’icona, nonostante abbia un autore, è vista come opera della comunità. Il principio dell’unità si trova proprio al centro della vita ecclesiale "perché con un solo animo e una sola voce rendiamo gloria a Dio..." (Rom 15, 6).
Che vuol dire "un solo animo"? Si tratta della comunione delle comunità o Chiese locali nella fede apostolica e nella glorificazione giusta di Dio (che esprime la sua cattolicità nel concetto ortodosso), ma "un solo animo" si estende a tutto il cammino storico percorso dalla Chiesa nel suo insieme. L’ortodossia vive nella comunione con il proprio passato, che è, infatti, un eterno presente. La "tradizione" è il canale e il "recipiente" della santità vissuta in passato e che continua nei riti e sacramenti, nelle preghiere, nelle istituzioni e nelle abitudini. Nella Chiesa niente è inventato, ma tutto è frutto dell’esperienza e della presenza operosa dello Spirito Santo che rimane per sempre. Nell’ortodossia non c’è affatto il culto dell'uomo moderno come punto di partenza per la riflessione teologica, ma piuttosto la comunione con tutto ciò che Dio ha fatto nella storia con le mani, con le preghiere, con i doni dei Suoi servitori.
Per questo motivo la spiritualità ortodossa nel suo principio, non si cambia come nella base non si cambia la Chiesa stessa che, però può dare le risposte nuove alle sfide di ogni tempo. Il tempo del Cristo e l’epoca degli apostoli sono sempre presenti in qualsiasi periodo della vita della comunità ecclesiale e formano la sua identità metastorica. Sia la forma visibile di questa identità (le celebrazioni liturgiche, la successione apostolica ecc.), sia la sua espressione invisibile (la "custodia del cuore" ecc.) coincidono nella tradizione che continua a vivere nella Chiesa la quale, in virtù della sua identità sacramentale e spirituale, e nonostante i suoi cambiamenti culturali e rituali, può essere riconosciuta in qualsiasi momento della storia.
Tutte le correnti della spiritualità ortodossa sbocciano nel mistero più incomprensibile e glorioso: quello della comunione con il Signore nell’Eucaristia. Perciò l'assemblea eucaristica rimane non soltanto il centro della vita ecclesiale, ma anche della vita dello spirito. La spiritualità ortodossa si realizza nell’unione con Dio incarnato, crocefisso, risorto che deve manifestasi anche nella fraternità fra i fedeli. Ogni liturgia è vissuta spiritualmente come sacramento della memoria della santità vissuta, dell'unità del popolo di Dio e della sua gratitudine alla soglia del Regno. "In ogni cosa rendete grazie" (o "fate Eucaristia") dice San Paolo (1 Tess. 5,18) perché in ogni cosa - il cuore umano e tutto il creato – c’è il suo segreto centro eucaristico.