Al termine di una settimana passata insieme in un Eremo delle Alpi lombarde, fratel Faustino Ferrari mi ha chiesto di fare la prefazione a un suo scritto sul “morire”. La richiesta mi lasciò sorpreso e perplesso. È vero, nel mio ultimo scritto avevo parlato del dopo morte, sul fatto cioè che con la morte entriamo nell’eternità, dimensione al di là del tempo e dello spazio, condizioni del nostro vivere e del nostro conoscere.
Quando riflettiamo sull’eternità, finiamo ovviamente col farlo ridimensionandola col tempo e con lo spazio, che sono le dimensioni ordinarie del nostro pensiero. Anche Gesù, quando parla dell’aldilà, per farsi capire, lo illustra come un grande giudizio (v. Mt 25,31ss.) dove il Figlio dell’uomo chiama i buoni e li dichiara benedetti perché hanno aiutato i poveri (per fame, per sete, per l’ambiente, la malattia, il carcere), mentre rinvia i maledetti perché non l’hanno fatto non rendendosi conto che in quel momento rifiutavano Lui stesso, il Figlio dell’uomo: in realtà invece il giudizio avverrebbe al momento della morte, quando si manifesta quanto noi stessi ci siamo costruiti nella vita, aperti o chiusi agli altri, quindi aperti o chiusi anche a Lui. E naturalmente avevo parlato e scritto di prima della morte, perché appunto quanto facciamo e viviamo è preparazione alla morte, perché è costruzione del nostro essere, che in quel momento diviene definitivo, eterno,
Confesso però che non avevo mai pensato al momento del morire, forse preso da quel riguardo che abitualmente si ha per non denominare la morte, sostituendo, anche sul piano religioso, l’espressione (infausta?) con sinonimi più propizi (poi indicati anche in questo libro), dal “riposo eterno” al “ritorno alla casa del Padre” (ma il Padre ha una casa?). Il Ferrari invece affronta il momento stesso del morire, a cui siamo così allergici quando si tratta del nostro morire, ma invece stuzzicati quando si tratta della morte degli altri, tanto più se violenta o copiosa, come quella provocata dalle guerre, dai genocidi, dai terrorismi e dai naufragi.
Devo dire che ho letto tutto lo scritto d’un fiato, e non solo perché non vi sono divisioni di capitoli o di paragrafi, ma perché il ragionamento è così concatenato che sei sempre indotto a vedere come poi continua e si sviluppa. E lo sviluppo è corale perché si cita la Bibbia e ci rifà al pensiero greco (es. Socrate, Platone ed Epicuro), si citano una quindicina di Autori che hanno scritto sulla morte, fino alle leggende, come quella di Samarra a cui allude – mentre mons. Tonino Bello la descriveva, di un cavaliere, impressionato dallo sguardo fisso della Morte mentre era al mercato e chiede al re di avere un cavallo veloce che lo porti il più lontano possibile, a Samarcanda (così mi diceva don Tonino). Incuriosito il re scende al mercato e chiede alla morte perché fissava il cavaliere, e quella risponde che era meravigliata di trovarlo lì poiché doveva incontrarlo alla sera, a Samarcanda!
Il Ferrari parla anche di Dio (“Si può parlare di morte senza parlare di Dio?”), ma lo fa con molta discrezione, lasciando che il tema emerga dalla riflessione; così come c’è appena un’allusione al morire a se stessi per vivere pienamente.
La tenerezza emerge dalla data: l’agosto ricorda all’autore la morte della mamma e quella, molto tempo prima, del padre.
Un libro da leggere d’un fiato!
+ Luigi Bettazzi
Vescovo emerito di Ivrea
Faustino Ferrari, Del morire (e del vivere), Effatà editrice, 2018, € 10,00.