Parlare di sinodalità significa inevitabilmente parlare anche delle difficoltà del camminare insieme, difficoltà che possono talvolta diventare vere e proprie impossibilità. Tra Teilhard de Chardin e la Chiesa del suo tempo, per esempio, c’è stata una evidente mancanza di sinodalità...
Parlare di sinodalità significa inevitabilmente parlare anche delle difficoltà del camminare insieme, difficoltà che possono talvolta diventare vere e proprie impossibilità. Tra Teilhard de Chardin e la Chiesa del suo tempo, per esempio, c’è stata una evidente mancanza di sinodalità: Teilhard era avanti di anni e forse di secoli, mentre la Chiesa, dietro, arrancava, non capiva, condannava. Questo stato di cose, in parte, dura ancora oggi, visto che il Monitum del 1962 rimane in vigore: potremmo parlare in questo caso di una non-sinodalità “ad intra”, tutta interna alla Chiesa. Ma esiste anche una mancanza di sinodalità “ad extra”, tra la Chiesa e il mondo, e qui per mondo si intende soprattutto la visione scientifico-materialista oggi dominante; è su questo secondo tipo di non-sinodalità che vorremmo concentrarci, perché tale difficoltà di camminare insieme sta scavando un fossato sempre più profondo non solo tra credenti e non credenti ma anche, paradossalmente, tra credenti e credenti, tra differenti visioni di fede.
Rudolf Clausius e l’entropia
Semplificando al massimo possiamo dire che il nostro universo è un sistema essenzialmente entropico. Il termine “entropia” (da ἐν, “dentro”, e τροπή, “trasformazione”) fu introdotto nel 1864/65 da Rudolf Clausius (1822 – 1888), uno dei fondatori della termodinamica. Clausius stabilì che in un qualsiasi processo di trasformazione dell’energia una parte di essa viene gradualmente dissipata attraverso il confine del sistema, il quale procede così, irreversibilmente, verso uno stato a basso potenziale in cui non vi è più energia disponibile. L’entropia rappresenta la quantità di disordine presente in un sistema; si dice infatti che quando un sistema passa da uno stato di equilibrio a uno di disordine la sua entropia aumenta. È l’entropia a far muovere gli eventi nella direzione che conosciamo, dal passato al futuro: per questo l’astrofisico Arthur Eddington (1882 – 1944) ha affermato che «l’entropia è la freccia del tempo»1. Secondo la maggior parte dei fisici l’universo è un sistema isolato che tende a perdere uniformemente energia (ad aumentare l’entropia) fin quando giungerà alla morte termica, lo stato di equilibrio termodinamico nel quale non vi sarà più energia libera per compiere lavoro (massimo livello di entropia).
Luigi Fantappié e la sintropia
Ma l’universo non è soltanto termodinamica ed entropia. Se così fosse, come si spiegherebbero fenomeni quali la comparsa della vita, l’evoluzione, il sorgere della coscienza? Perché mai la materia dovrebbe organizzarsi in forme sempre più differenziate, complesse e intelligenti invece di dirigersi inesorabilmente verso l’omogeneità, il disordine e la morte entropica? La scienza classica fatica a spiegarlo. In molti hanno cercato di dare risposta a questa domanda, da Teilhard de Chardin a Erwin Schrödinger, da Henri Bergson a Carl Gustav Jung, da Ilya Prigogine a Rupert Sheldrake. Tra questi merita senz’altro menzione il matematico e accademico italiano Luigi Fantappié (1901 – 1956), che negli anni ’40 del secolo scorso cercò di elaborare una teoria unificata del mondo fisico e biologico che spiegasse l’emergere di forme complesse e organizzate in un universo dominato dall’entropia2. Fantappié (cfr. www.syntropy.org) trovò la soluzione nelle equazioni che combinano meccanica quantistica e relatività speciale, e più precisamente nell’operatore di d’Alembert, che in una sua forma particolare ammette due soluzioni, una positiva, l’altra negativa: la positiva descrive le onde divergenti dei cosiddetti “potenziali ritardati” irradiati da una sorgente emettitrice, mentre la soluzione negativa rappresenta le onde convergenti dei “potenziali avanzati” che confluiscono verso un attrattore. Fantappié scoprì che la soluzione positiva, procedente in avanti nel tempo, tende alla dissipazione, al disordine e all’omogeneità, mentre la negativa si muove a ritroso nel tempo e va verso la concentrazione, l’ordine e la differenziazione. La soluzione positiva segue la legge dell’entropia, mentre la negativa obbedisce a una legge simmetrica che Fantappié chiamò “sintropia” (da σύν, “con”, e τροπή, “trasformazione”). L’accademico viterbese osservò che la sintropia ha le stesse proprietà degli esseri viventi, e concluse che il processo evolutivo è una conseguenza delle onde avanzate emanate da attrattori situati nel futuro: «Le onde avanzate sono l’essenza della vita stessa», dichiarò. La teoria delle onde avanzate o retro-causali non fu accettata dalla scienza dominante, che considera impossibili le cause finali. Fantappié, al contrario, rifiutò di eliminare metà delle equazioni fondamentali che descrivono l’universo e ribadì sempre che la vita è soggetta a una duplice causalità: causalità efficiente e causalità finale. Propose pertanto di passare dal modello meccanicistico e deterministico dell’universo a un nuovo modello entropico-sintropico nel quale le forze divergenti e le convergenti agiscono insieme. Il susseguirsi dei fenomeni non dipende dalle sole condizioni iniziali ma anche da quelle finali, dall’azione degli attrattori che operano dal futuro.
Il diavolo può davvero essere considerato una persona?
In un universo strutturato secondo il modello entropico-sintropico, l’evoluzione segue un ritmo di dispiegamento-ripiegamento tra un polo iniziale, costituito fondamentalmente di energia, e un polo finale, essenzialmente di coscienza3. L’universo non è soltanto entropico, come credono i materialisti, né esclusivamente sintropico, come pretenderebbe quella visione di fede che lo considera già perfettamente compiuto, salvo poi attribuire al diavolo e all’uomo tutto il male e il disordine in esso presenti. L’universo è prodotto dall’interazione tra forze entropiche e forze sintropiche. Secondo Giuseppe e Salvatore Arcidiacono (1927 – 1998), illustri allievi di Fantappié, non esistono fenomeni entropici e sintropici puri: in ogni fenomeno, sia fisico sia biologico, vi sono componenti entropiche e sintropiche che agiscono insieme. Pensiamo ad esempio a un qualsiasi momento della nostra vita; in esso sono presenti le forze sintropico-convergenti, senza le quali non saremmo che atomi dispersi nell’universo, ma operano anche le forze entropico-divergenti, perché in ogni momento noi invecchiamo e perdiamo energia: «Vulnerant omnes, ultima necat» (sottinteso: le ore), recita il motto di Seneca il Vecchio che veniva spesso inciso sulle meridiane e sui quadranti degli orologi. Questo è un primissimo, importante argomento su cui la Chiesa e il mondo potrebbero dialogare. Ciò consentirebbe di guardare con maggior serenità e realismo al problema del male. Nelle alte sfere della teologia si discute oggi sull’opportunità di continuare a considerare “persona” il diavolo, a personificare il male. Se infatti prendiamo la definizione classica di Boezio, secondo la quale la persona è «sostanza individuale di natura razionale», vediamo che è a dir poco improprio applicarla al diavolo: essendo “colui che divide”, probabilmente il diavolo risulta egli (esso) stesso frammentato, diviso in sé, dunque non è “sostanza individuale”; «Il mio nome è Legione perché siamo in molti», dice l’indemoniato geraseno a Gesù (Mc 5,9; cfr. Lc 8,30). Difficile anche attribuirgli una natura razionale, perché non si capisce quale razionalità possa esserci nel volere la propria rovina. Alla definizione di Boezio si rifà l’Aquinate, che nel difendere l’applicabilità del termine “persona” a Dio afferma: «La persona significa quanto di più nobile si trova in tutto l’universo, cioè il sussistente di natura razionale» (ST, I, q. 29, a. 3). Dal momento che il diavolo è invece quanto di più ignobile vi sia nel mondo, padre della menzogna, nemico di Dio e dell’uomo, eccetera, come possiamo considerarlo persona? E se ciò che le religioni chiamano diavolo non fosse altro che l’entropia abbondantemente presente nell’universo? In effetti il diavolo e l’entropia sembrano avere molto in comune; entrambi dividono, fanno divergere, disaggregano, corrompono e conducono alla morte, spersonalizzano e rendono tutto uniforme: «La Bestia è un numero, e ci trasforma in numeri. Dio nostro Padre invece ha un nome, e chiama ciascuno di noi per nome. È una persona, e quando guarda ciascuno di noi vede una persona, una persona eterna, una persona amata», disse l’allora cardinal Ratzinger nel discorso di inaugurazione della III Settimana Diocesana della Fede pronunciato nella cattedrale di Palermo il 15 marzo 2000.
Big Bang e creazione biblica
Un altro tema sul quale Chiesa e scienza potrebbero confrontarsi con reciproco beneficio è l’origine dell’universo. Si fa spesso confusione tra Big Bang e creazione biblica, che sono invece due eventi profondamente diversi: il Big Bang è l’origine dell’universo, mentre la creazione è piuttosto un concetto soteriologico elaborato da Israele riflettendo a posteriori sulla storia di salvezza vissuta dal popolo eletto. Il Big Bang è evento massimamente entropico, un’immane esplosione di energia; la creazione biblica è sintropica, un processo di convergenza, unificazione e personificazione. Finanche Pio XII cadde nell’errore quando, nel novembre del 1951, in un discorso tenuto alla Pontificia Accademia delle Scienze affermò che le scoperte scientifiche sull’origine dell’universo sarebbero una conferma dei racconti della creazione di Gen 1,1-2,4a e 2,4b-25. Fu l’astronomo-sacerdote Georges Edouard Lemaître (1894 – 1966), padre dell’“ipotesi dell’atomo primigenio”, in seguito polemicamente ribattezzata Big Bang da Fred Hoyle (1915 – 2001), a fargli notare che un concordismo di tal genere è sbagliato4. Big Bang e creazione biblica non sono affatto la stessa cosa. Tuttavia qualche relazione tra di essi deve pur esserci, bisogna trovarla. Come tenerli insieme, allora, qual è questa relazione? Vi sono almeno tre possibilità: 1) L’opzione atea: Dio non esiste, la Bibbia è soltanto una raccolta di miti e leggende, ha ragione la scienza, punto e basta; 2) L’opzione NOMA, acronimo coniato da Stephen Jay Gould che sta per “Non-Overlapping Magisteria”: scienza e fede, vale a dire, hanno aree di indagine diverse e non sovrapponibili, possono solo essere giustapposte; 3) L’opzione di Galileo Galilei, il quale nella lettera a Cristina di Lorena del 1615 scrive: «Intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo»5. L’opzione 3 è senz’altro la più corretta. Sono veri e legittimi entrambi i punti di vista, ma ciascuno entro il proprio ambito: la scienza e l’ipotesi Big Bang ci dicono che viviamo in un universo essenzialmente entropico destinato alla morte; la Sacra Scrittura ci garantisce che da tale situazione esiste una via d’uscita, una possibilità di salvezza. Non per niente Teilhard, in un testo del 1919 intitolato Per una nuova evangelizzazione del nostro tempo6, scrive: «Il Dio della Bibbia non è diverso dal Dio della Natura».
Purtroppo quella che oggi va per la maggiore tra gli scienziati che non siano irriducibilmente materialisti e abbiano una qualche forma di rispetto per la fede è l’opzione NOMA, con il risultato di un vero e proprio scisma tra visione religiosa e pensiero scientifico. Teilhard lo chiama «il grande Scisma che minaccia la Chiesa», a causa del quale «“Cristiano” e “Umano” tendono a non più coincidere»7. Questo scisma colloca da una parte un universo meccanicistico, afinalistico e indifferente alla sorte dei viventi, e dall’altra un cristianesimo sempre più fiacco, disincarnato, amartiocentrico, incapace di comprendere le dinamiche di un cosmo come quello fin qui descritto e, ciò che è peggio, di rendere ragione della speranza di cui, pure, pretende di essere portatore (cfr. 1Pt 3,15). Scrive Teilhard in Forma Christi: «Mentre per san Giovanni e san Paolo in particolare il Cristianesimo era una cosmogonia, si direbbe talvolta che noi sappiamo solo più vedere e far vedere l’aspetto scolastico o disciplinare del nostro Credo. Cosa c’è da stupirsi quindi se a molti uomini, che si nutrono di forti realtà concrete, la Rivelazione cristiana sembri invincibilmente fredda e infantile?»8. Eppure il cristianesimo, si legge ne La comunione con Dio, «religione supremamente individualista, rimane essenzialmente una religione cosmica: perché, al termine delle fatiche della Creazione e dell’Apostolato, non ci mostra solo una messe di anime, ma un Mondo di anime»9. Da Nicea I (325) in poi le relazioni “ad intra” della Trinità immanente sono state profondamente comprese e dogmatizzate, mentre le relazioni “ad extra” tra la Trinità e l’universo sono ancora in gran parte da esplorare. Teilhard lo dice nella Nota sul Cristo-Universale (1920): «Questo Cristo-Universale è quello che ci presentano i Vangeli e più precisamente San Paolo e San Giovanni. È quello del quale hanno vissuto i grandi mistici. Non sempre è quello di cui la Teologia si è occupata di più. (…) Sarebbe ora, in un’epoca in cui il pensiero umano tende a riconoscere il Cosmo come un Tutto per sé, di riflettere un po’ sulle relazioni che uniscono questo Tutto e Dio. Si fa presto a dire: creazione per amore, gloria esteriore. La Rivelazione non cela in sé forse dell’altro ancora?»10.
Il caso: uno spazio di libertà presente nell’universo
In un universo siffatto il caso fa il suo gioco. L’interpretazione transazionale della meccanica quantistica (TIQM), proposta da John G. Cramer nel 1986, descrive ogni evento quantistico come «una stretta di mano» tra le onde ritardate “di offerta” e le onde anticipate “di conferma”. Questo permette di reinterpretare la famosa affermazione di Einstein «Dio non gioca a dadi con l’universo»: in realtà sembra che lo faccia, gioca a dadi, ma sceglie solo le mosse vincenti, cioè quelle in cui le onde di offerta provenienti dal passato si accordano con le onde di conferma che vengono dal futuro, il che ricorda per certi aspetti l’idea teilhardiana sull’“utilizzo preferenziale del caso”11. Ciò significa che l’universo non è rigidamente predeterminato ma presenta un certo grado di libertà all’interno del quale agisce il caso; anche dom Stefano Visintin, fisico nucleare oltreché teologo, in uno degli incontri della sezione romana TdC ha parlato del caso in questi termini. Questo va contro una certa idea religiosa secondo la quale “non si muove foglia che Dio non voglia”: nel cosmo come nella storia, molte cose avvengono anche con il contributo del caso. Più sbagliata ancora è l’idea di quell’ateismo superficiale e sbrigativo che spiega tutto con il caso, esistenza dell’universo ed evoluzione comprese: il caso, da solo, non fa assolutamente nulla, non produce niente.
Il cosmo, le anime e il potere sintropico della preghiera: l’esempio di S. Antonio Abate
Abbiamo detto che l’universo è essenzialmente un sistema entropico condannato a morte dall’implacabile tribunale della termodinamica. Teilhard esprime il concetto in modo senz’altro più poetico ne La vita cosmica: «Il Cosmo non è che uno stelo passeggero destinato ad appassire»12. Tuttavia nel cosmo, prosegue il gesuita, ci sono le anime, che hanno la capacità di raccogliere, fissare e portare via, quando la morte le coglie come frutti maturi, tutto l’Assoluto che questo cosmo può veicolare: «Le anime, per le quali nulla è troppo bello e troppo prezioso in cielo e sulla terra, le anime, quintessenza delle perfezioni elaborate dalla Vita naturale e luogo di ineffabili elevazioni operate dalla santificazione»13. Dunque le anime sante, secondo Teilhard, hanno il potere di salvare dall’azione delle forze entropiche e dissipatrici l’assoluto che questo universo può diffondere e comunicare. E in che modo lo farebbero? Sintonizzandosi sulle forze sintropiche, che sono poi le forze divine, convergenti e portatrici di vita. La logica è un po’ quella della parabola del grano e della zizzania (Mt 13,24-30): accanirsi contro la zizzania (le forze entropiche) non solo non serve ma è controproducente; occorre concentrarsi sul grano (le forze sintropiche), farlo crescere più della zizzania. Così hanno fatto i santi di ogni epoca e tradizione religiosa, e in modo speciale i mistici, gli anacoreti, i reclusi e le recluse, i solitari di Dio. Lo hanno fatto con le armi della preghiera, dell’attenzione, della contemplazione e dell’amore, che hanno il potere di unificare l’uomo salvandolo dalla frammentazione in cui abitualmente vive. Pensiamo a S. Antonio Abate, le cui gesta sono state tramandate da Atanasio di Alessandria – che fu suo discepolo – nella Vita Antonii. Antonio ottenne spettacolari vittorie sulle forze dell’entropia e della dissipazione, come emerge dalla descrizione dell’incontro con alcuni suoi conoscenti che erano andati a trovarlo. Da circa vent’anni Antonio si era ritirato nel deserto, dove conduceva vita ascetica pregando, lavorando e nutrendosi solo di un po’ di pane, sale e acqua: «Si fece loro innanzi Antonio, come un iniziato ai misteri che esce dal sacro recesso, ispirato da Dio. Allora per la prima volta lo videro fuori dal castello quelli che erano andati da lui. Si meravigliarono al vedere che le sue condizioni fisiche erano sempre le stesse, non impinguato per la mancanza di moto, né dimagrito dai digiuni e dalle lotte con i demoni: era come l’avevano visto prima che si chiudesse nel suo ritiro»14. Sant’Antonio visse in questo modo fino alla bella età di 105 anni, a riprova dello straordinario potere sintropico della preghiera.
I reclusi, le recluse e l’esortazione di Doroteo di Gaza
Lo stesso potere sperimentarono altre figure leggendarie come i “reclusi” e le “recluse”, da Barsanufio e Giovanni a Viborada di San Gallo, da Giuliana di Norwich a suor Nazarena Crotta, la camaldolese vissuta per 44 anni in una cella del monastero di S. Antonio Abate sull’Aventino a Roma. Tutte queste persone raggiunsero già nella loro vita terrena, in una sorta di proiezione escatologica, quel polo finale dell’evoluzione di cui dicevamo sopra: massima coscienza, minima energia. Esigua l’energia fisica spesa dai reclusi e dalle recluse nelle loro vite ritirate e semplici; altissimo il livello di coscienza e consapevolezza. Un’esortazione lasciataci da Doroteo di Gaza, un cenobita del VI secolo allievo di Barsanufio e Giovanni, fa capire quale importanza questi contemplativi attribuivano al rimanere unificati, sintonizzati sulle energie sintropiche. A un giovane discepolo che gli chiedeva come comportarsi quando le cose da fare sono tante e urgenti, Doroteo rispose: «Per tutto ciò che devi fare, anche se è molto urgente e richiede molta cura, non vorrei vederti discutere o agitarti. Per una calma sicura, sappi che ogni cosa che fai, sia grande o piccola, è solo un ottavo del problema, mentre mantenere indisturbata la propria condizione, persino se con ciò si dovesse mancare di adempiere al compito, rappresenta gli altri sette ottavi. Così, se sei impegnato in un qualunque compito e desideri farlo alla perfezione, cerca di compierlo – il che, come ho detto, sarebbe un ottavo del problema, e allo stesso tempo di conservare illeso in tuo stato – il che costituisce i sette ottavi. Se, tuttavia, allo scopo di compiere il tuo dovere fossi inevitabilmente trascinato via e danneggiassi te stesso o qualcun altro nel discutere con lui, non dovresti perdere sette ottavi per salvare un ottavo»15. Viene naturale fare un parallelo tra l’insegnamento di Doroteo e il brano evangelico di Marta e Maria (Lc 10,38-42): Maria viene lodata perché rimane centrata su Gesù, in contemplazione, perfettamente unificata; Marta, al contrario, si lascia trascinare e frammentare dall’agitazione interiore e dall’azione disordinata.
L’esempio di Pierre Teilhard de Chardin, Pavel Florenskij ed Etty Hillesum
Nel XX secolo altri uomini e donne di fede combatterono con successo contro le forze entropiche, o, come è meglio dire, si schierarono risolutamente a favore delle forze sintropiche. Non si tratta di monaci, di anacoreti né tantomeno di reclusi e recluse ma di credenti profondamente calati nel mondo, negli eventi più drammatici del ‘900: parliamo di Pierre Teilhard de Chardin, Pavel Florenskij ed Etty Hillesum. Teilhard de Chardin (1881 – 1955) combatté la sua battaglia nelle trincee del fronte franco-tedesco durante la I guerra mondiale. Nella prefazione a L’uomo, l’universo e Cristo, Luciano Mazzoni Benoni mette l’accento sulle condizioni in cui Teilhard era costretto a lavorare, «condizioni estreme per uno scrittore»: «È sorprendente che un uomo impegnato come portaferiti in terribili combattimenti e la cui vita si svolgeva quasi sempre nel fango delle trincee abbia utilizzato brevissimi periodi di riposo per stendere sulla carta appunti e piani di studio e successivamente composto saggi sui problemi più ardui. Terminato uno scritto, egli lo mandava alla cugina o alla sorella Guiguitte oppure a qualche confratello, chiedendone la battitura. In genere, portata a termine una prima stesura recante molte correzioni, egli la trascriveva»16. Fu in quel periodo, racconta lo stesso Teilhard, che affluirono nel suo cuore «i lampi dello spirito»17. E fu proprio in quei frangenti che la vena poetica del gesuita francese, emersa già molto presto, trovò piena espressione «in una serie di potenti scritti lirici lasciati come “testamento”» nel caso l’autore fosse caduto sul campo di battaglia, scrive la teologa Ursula King18. Secondo Claude Cuénot, considerato il biografo ufficiale di Teilhard, la qualità lirica di quegli scritti di guerra è tale da porli «a pari merito con la più fine poesia religiosa al mondo». Se Teilhard poté raggiungere tali vette liriche scrivendo nelle trincee, tra il sangue, il fango e le bombe, fu in virtù delle sue straordinarie capacità di attenzione e di preghiera. Già l’antica tradizione cristiana, soprattutto orientale, riflettendo sull’assonanza tra le parole greche “prosoché” (attenzione) e “proseuché” (preghiera), aveva messo in evidenza la stretta relazione esistente tra queste due realtà: «L’attenzione che cerca la preghiera troverà la preghiera: la preghiera infatti segue all’attenzione ed è a questa che occorre applicarsi» (Evagrio Pontico). In tempi più recenti anche Simone Weil, rifacendosi a Malebranche, parlerà dell’attenzione in termini di preghiera: «L’attenzione, al suo grado più elevato, è la medesima cosa della preghiera. Suppone la fede e l’amore. L’attenzione assolutamente pura è preghiera»19.
Pavel Florenskij (1882 – 1937), matematico, teologo, poeta, scienziato, sacerdote ortodosso e padre di famiglia, visse situazioni non meno terribili di quelle di Teilhard de Chardin. Non nelle trincee della Grande Guerra ma in un campo di prigionia e rieducazione sovietico sulle isole Solovki, a poca distanza dal circolo polare artico. In quella realtà spaventosa, provato ma instancabile, Florenskij – sintonizzato sulle forze sintropiche grazie alla preghiera e all’attenzione – continuava a studiare, a fare ricerca, a realizzare scoperte scientifiche, a scrivere ai familiari appassionate lettere d’amore, fino a quando, l’8 dicembre 1937, venne fucilato nei pressi di Leningrado.
Anche Etty Hillesum (1914 – 1943) vinse le forze entropiche scatenatesi nel ‘900, e lo fece attraverso un percorso originalissimo, niente affatto canonico, che portò «la ragazza che non sapeva inginocchiarsi» – così si definiva Etty – a sviluppare una forza d’amore impressionante, una capacità di donarsi che non è esagerato definire cristica, eucaristica: «Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamati e da tanto tempo», scrive20. Questo cammino di convergenza e sintropizzazione è avvenuto attraverso la preghiera, lo studio dei Salmi, la poesia di Rilke, la lotta terapeutica di Julius Spier (perché «corpo e anima sono una cosa sola»), la mistica di Meister Eckart e la scrittura. Per Etty scrivere è inizialmente «un altro modo di “possedere”, di attirare le cose a sé con parole e immagini»21. Più tardi, in un processo di purificazione, la scrittura diventa un metodo per esplorare la propria anima, poi un dovere morale necessario per testimoniare ciò che accadeva nel mondo e infine, durante il periodo di Westerbork, una pratica che conduce a essere, all’Essere: «Si deve diventare un’altra volta così semplici e senza parole come il grano che cresce o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere»22. «E dovunque si è, esserci “al cento per cento”. Il mio “fare” consisterà nell’essere»23.
Poesia ed essere
Un’altra personalità del ‘900 ha evidenziato la relazione tra la scrittura, la poesia e l’essere: si tratta di Marina Cvetaeva (1892 – 1941), la grande poetessa russa che nel giro di pochi anni perse il marito Sergej Efron, fucilato dall’NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni), vide la figlia Ariadna internata in un campo di lavoro e fu rinnegata dal figlio Georgij. Sopraffatta da tante tragedie, senza mezzi di sostentamento e ormai isolata dalla comunità letteraria russa, la Cvetaeva si uccise il 31 agosto 1941, non senza lasciarci, nelle sue opere, una nota di speranza. Riguardo alla poesia, Marina Cvetaeva scrive una cosa che il compianto Franco Loi considerava decisiva: «La poesia è qualcosa, o qualcuno, che dentro di noi vuole disperatamente essere». Sono praticamente le stesse parole di Etty Hillesum, perché identica è l’esperienza vissuta: l’esperienza d’essere. In una dinamica che ricorda quella dei trascendentali dell’essere, la poesia ci trasporta verso l’Essere assoluto, che è Dio. Possiamo allora senz’altro affermare che quel “qualcuno” di cui parla Marina Cvetaeva non è altri che il Cristo che vuole incarnarsi in ciascuno di noi. Cristo, l’unificatore per eccellenza, nostra sola salvezza dalle forze dell’entropia.
Marco Galloni
1 J. D. Faixat, Beyond Darwin – The Hidden Rhythm Of Evolution, “Addendum 7: Entropic-Syntropic Evolution”, p. 69.
4 G. Tanzella-Nitti, Il Papa e il Big Bang. Il caso Pio XII – Lemaître (1951-1952) a proposito del rapporto tra cosmologia e creazione, maggio 2016, https://disf.org/editoriali/2016-05.
5 G. Galilei, Lettere, Einaudi, Torino 1978, pp. 128-135.
6 P. Teilhard de Chardin, Per una nuova evangelizzazione del nostro tempo, in Id., L’uomo, l’universo e Cristo, Jaca Book, Milano 2012, p. 72.
8 P. Teilhard de Chardin, Forma Christi, in Id., L’uomo, l’universo e Cristo, Jaca Book, Milano 2012, pp. 51-52.
9 P. Teilhard de chardin, La vita cosmica, in Écrits du temps de la guerre, Oeuvres, vol. XII, Éditions du Seuil, Paris 1976, pp. 54-55.
10 Cfr. L. Mazzoni Benoni, Prefazione a L’uomo, l’universo e Cristo, Jaca Book, Milano 2012, p. 24.
11 J. D. Faixat, op. cit., p. 77.
12 P. Teilhard de Chardin, La vita cosmica, in Écrits du temps de la guerre, Oeuvres, vol. XII, Éditions du Seuil, Paris 1976, p. 54.
14 Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, 14.1-3.
15 E. Kadloubovsky-G. E. H. Palmer, 1969, p. 161.
16 Cfr. L. Mazzoni Benoni, Prefazione a L’uomo, l’universo e Cristo, Jaca Book, Milano 2012, p. 8.
18 Cfr. U. King, in Concilium 5/2017.
19 cfr. E. Bianchi, Lessico della vita interiore. Le parole della spiritualità, Prima edizione collana BUR Saggi, marzo 2004.
20 E. Hillesum, Les écrits d’Etty Hillesum. Journaux et lettres 1941-1943. Edition intégrale, (K.A.D. Smelik ed.), Edition Du Seuil, Paris 2008, p. 760.
Nel brano di Vangelo di oggi, Giuseppe è definito ‘uomo giusto’ (v. 19). Egli rifiuta di prendere con sé Maria e il bambino, non perché ritiene sua moglie un’adultera, ma proprio in quanto ‘giusto’.
Nell’ottica dell’Antico Testamento, l’uomo giusto (non si dà notizia di donne giuste!) è colui che riceve il dovuto per la sua giusta opera. Giuseppe qui è come se dicesse: questo bimbo non è opera del mio sangue. Io non posso ricevere questo dono immenso da parte di Dio, semplicemente perché non me lo sono meritato, non ho fatto nulla per poterlo ricevere in dono.
Ecco, il Vangelo capovolge questa mentalità tipica dell’uomo religioso di sempre: considerare il dono di Dio come premio, come qualcosa che vada meritato in virtù d’una prestazione. Invece occorre credere che possiamo essere oggetto dei doni di Dio, in ultima analisi della misericordia, al di là della nostra giustizia, al di là di ciò che pensiamo possiamo meritare, di ciò che abbiamo fatto e non fatto nella nostra vita. L’amore non potrà mai essere premio!
In fondo, anche noi cristiani, soffriamo della medesima malattia di Giuseppe, quella di considerare il rapporto con Dio in forza di una giustizia retributiva, immaginando di essere oggetto di bene in base al nostro comportamento morale.
Giuseppe è dunque l’uomo giusto chiamato ad essere sovra-giusto. E in fondo, la sovra-giustizia richiesta qui a Giuseppe coincide con la verginità di Maria: disponibilità a ricevere ciò che non dipende dalle proprie capacità fisiche, morali e tanto meno religiose. Maria non ha detto “non posso ricevere perché non me lo merito”, ma “proprio perché non ho in me nulla da far valere, nulla su cui poter contare, sono nella condizione di ricevere tutto”.
Il povero aprirà il suo desiderio all’infinito, l’orgoglioso si aprirà solo a quella possibilità di compimento che corrisponde a ciò che è in grado di compiere lui.
Il testo procede dicendo che Giuseppe pensò (v. 19), stava considerando (v. 20). Le sue elucubrazioni però sono includenti: «L’uomo comincia a vivere nella misura in cui smette di sognarsi» (Pablo d’Ors).
Il nome Giuseppe significa: Dio-aggiunge. È questo, in fondo, il nome segreto di ogni creatura: l’uomo, essere ‘finito’, è fatto per una continua aggiunta proveniente d’altrove, a patto che crei in sé lo spazio in cui l’Infinito possa accadere.
Nessuno basta a se stesso. Giuseppe è qui simbolo dell’uomo che, troppo grande da bastare a se stesso, finalmente s’abbandona all’opera di un Altro, diventando padre senza alcun merito e facendo della propria vita dono gratuito.
24Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore
Il nome Giuseppe significa: Dio-aggiunge. l’uomo, essere ‘finito’, è fatto per una continua aggiunta proveniente d’altrove, a patto che crei in sé lo spazio in cui l’Infinito possa accadere.
Il Vangelo di questa seconda domenica di Avvento, è un testo molto complesso e delicato. Ci viene presentata la figura di Giovanni il Battista, l’uomo del passaggio tra Antico e Nuovo Testamento, tra la religione e la fede.
Giovanni invita all’accoglienza dell’amore che s’è fatto presenza, che s’è fatto vicino, accanto (v. 2), perché l’amore, per definizione, si può solo ricevere. Non è da capire, da studiare, da imparare. È presenza personale da accogliere nella gratuità, non da meritarsi vantando un’affettata religiosità, come credono i sadducei e i farisei, pii religiosi del tempo di Gesù, e in fondo, di ogni epoca. Essi credono di essere con la squadra vincente solo perché indossano quella casacca: «Non crediate di poter dire: ‘Abbiamo Abramo per padre’ (v. 9).
Dirsi cristiani non vuol dire ancora nulla, come l’essere battezzati, il partecipare alla Messa, recitare preghiere o ricevere i sacramenti. Il ‘dirsi’ di Cristo non vuol dire appartenergli, non funge da talismano contro le tempeste della vita, e neppure polizza assicurativa nei sinistri del quotidiano.
Non è entrare nelle fila di una religione a dire qualcosa del nostro vero essere, ma è il nostro essere fecondi ad affermare e testimoniare un’appartenenza al Dio della vita: «Dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7, 16).
Occorre portare frutto dunque (v. 8), anzi ‘buon frutto’ dice il Battista (v. 10b). E il frutto è sempre consequenziale all’essere, come il frutto scaturisce sempre da un albero ben radicato con le radici nel terreno da cui si traggono tutte le energie necessarie. La questione dunque è accogliere, entrare in contatto con la Vita, la sorgente interiore che dimora in noi, per sperimentare così l’essere trasformati, fecondi e in grado di dare buoni frutti.
Il Battista ci ricorda inoltre che la vita può anche conoscere il fallimento. È il fallimento di una vita infruttuosa, sterile, inconcludente perché sempre giocatasi ‘altrove’, distratta, in perenne evasione, non radicata nel terreno. Quella vita che non ha edificato sulla roccia (cfr. Mt, 7, 24), producendo non frutti ma solo paglia e detriti.
Ma il Vangelo di Gesù (ed è qui che si gioca la radicale differenza tra Antico e Nuovo Testamento, la bella notizia), afferma con forza che alla fine – non ‘dei tempi’ perché il tempo è già compiuto (cfr. Mc 1, 14), ma di ogni istante – il fuoco dell’Amore brucerà, dissolverà tutto ciò che non è stato edificato attraverso l’amore. Verrà estinta cioè in noi la conseguenza malata dell’inconsistenza, tutta la paglia prodotta dalle nostre illusioni, dai nostri inganni e il nostro male (v. 12a). E al contempo, il medesimo Amore raccoglierà la parte buona di noi, ciò che è stato edificato nell’amore, secondo la capacità di ciascuno, ossia quel qualcosa di talmente forte da resistere anche alla prova della morte (v. 12b; cfr. 1Cor 3, 10bss.).
“Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore,raddrizzate i suoi sentieri! “
il nostro essere fecondi ad affermare e testimoniare un’appartenenza al Dio della vita: «Dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7, 16).
2Alla fine dei giorni,
il monte del tempio del Signore
sarà saldo sulla cima dei monti
e s’innalzerà sopra i colli,
e ad esso affluiranno tutte le genti.
3Verranno molti popoli e diranno:
«Venite, saliamo sul monte del Signore,
al tempio del Dio di Giacobbe,
perché ci insegni le sue vie
e possiamo camminare per i suoi sentieri».
Poiché da Sion uscirà la legge
e da Gerusalemme la parola del Signore.
4Egli sarà giudice fra le genti
e arbitro fra molti popoli.
Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,
delle loro lance faranno falci;
una nazione non alzerà più la spada
contro un’altra nazione,
non impareranno più l’arte della guerra.
5Casa di Giacobbe, venite,
camminiamo nella luce del Signore.
42Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. 43Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. 44Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».
"... anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».
Viviamo intontiti, obnubilati, incapaci di costruirci quell’arca per staccarci da riva e prendere il largo, perché è per questo che siamo stati creati.
Il brano del Vangelo di oggi, è uno splendido insegnamento su ciò che evangelicamente si deve intendere per religione e per fede.
Il fariseo della parabola rappresenta la religione, ossia il tentativo di ‘legarsi’ alla divinità attraverso un armamentario religioso fatto di pratiche, preghiere, adempimento di norme, regole e precetti. L’uomo ‘religioso’, ha dunque la presunzione di pensare che la propria giustizia derivatagli dall’assolvimento dei suoi doveri, sia sufficiente a ricevere il premio da parte del ‘suo’ Dio.
Come se Dio potesse premiare, magari con benedizioni, salute e grazie speciali, chi non manca di condurre una vita irreprensibile. Questa è la perversione della religione, che ha fatto del rapporto con Dio un commercio, arrivando ad identificare questo con la salvezza.
Il pubblicano invece rappresenta l’uomo di fede, principio autentico di salvezza. Paolo è chiarissimo su questo punto: «sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno» (Gal 2, 16).
Non sarà mai la nostra ‘ricchezza’ religiosa a ‘legarci’ a Dio. Egli è già parte di noi a prescindere, è ‘l’anima dell’anima nostra’ (J. Green), per questo possiamo vivere riconoscendo ed accettando quel che siamo, con tutte le nostre debolezze, le nostre ferite, giungendo così a credere maggiormente alla sua misericordia che alla nostra miseria.
Il peccatore di questa parabola ci sta insegnando che il proprio “vuoto”, la propria pochezza e debolezza, può diventare – se lo vogliamo – la nostra ricchezza.
La mia miseria è misura della sua misericordia.
Dio è la presenza che riempie assenze.
“Il peccato è la nostra parte di Vangelo” (Silvano Fausti).
Ma un altro insegnamento interessante ci fa dono il Vangelo di oggi.
Il fariseo, nella sua presunzione si permette di giudicare il disgraziato che gli è accanto, dall’alto della sua giustizia. Ebbene, il riconoscerci per ciò che siamo realmente, accettare la nostra verità, ci sottrae dal giudizio dell’altro. Se faccio realmente esperienza del mio limite e insieme della misericordia del Padre, non potrò più giudicare nessuno, perché gli altri non saranno mai peccatori quanto lo sono io. Come Paolo, arriverò anch’io a riconoscermi come il primo di tutti i peccatori (1Tm 1, 15), ma un peccatore perdonato. Per questo saprò frequentare, da fratello, tutti i peccatori del mondo.
«Allora Cristo ci dirà: venite anche voi, venite, o ubriaconi! Venite, o deboli! Venite, o dissoluti! E ci dirà: esseri vili, siete creati ad immagine della bestia e siete segnati dalla sua impronta. Venite comunque anche voi! E i saggi diranno, e i prudenti diranno: “Signore, perché li accogli?”
Ed egli dirà: Se li accolgo è perché ciascuno di essi non se ne è mai giudicato degno.
E ci tenderà le braccia, e cadremo ai suoi piedi, e scoppieremo in singhiozzi e allora comprenderemo ogni cosa. Sì, allora comprenderemo tutto» (Dostoevskij, Delitto e castigo).
"chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». ,
La mia miseria è misura della sua misericordia.